Le recensioni della redazione QLibri
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Il Labirinto degli spiriti. Il cimitero dei libri
Alicia Gris sa bene che certe ferite non risarciscono mai, sa bene che con taluni dolori non si può imparare a convivere, per quanto ci si provi. E non sono i mali fisici quelli che arrecano più sofferenza bensì quelli dell’anima. Ventisettenne, acuta, riservata, perspicace, perennemente all’erta, ella è un camaleonte, una donna cioè che è capace di rivestire ogni personaggio e che grazie alla diffidenza naturale che nutre verso ciò che la circonda, è il prototipo perfetto per lavorare all’indagine che ha quale protagonista la scomparsa del ministro Don Mauricio Valls. Ecco perché Leandro, l’uomo che l’ha tolta dalla strada e le ha insegnato tutto quello che sa, la sceglie.
Era una mattina come tante, la festa in maschera organizzata per Mercedes, la figlia dell’onorevole, era giunta al termine da poche ore, quando Don Mauricio e Vincente si accingevano a salire – e scomparire – sulla vettura di quest’ultimo. Da questo momento dei due non si ha più alcuna notizia. Alicia, affiancata – pur se mal volentieri – dal capitano Juan Manuel Vargas, dà inizio alle ricerche tenendo conto anche del fatto che da qualche settimane del collega Lomana, a sua volta investito del caso, non si ha più traccia. Tanti sono i tasselli che non combaciano, ne è ben consapevole e a tutto questo si somma un ulteriore misterioso ritrovamento: durante la perlustrazione della residenza di Valls, ben nascosto sotto un cassetto della scrivania, la coppia Gris-Vargas ritrova uno strano e raro libro intitolato “Il labirinto degli spiriti. Ariadna e il Principe Scarlatto” di Victor Mataix. Da Madrid, la scena, inevitabilmente si sposta a Barcellona.
E tanto Alicia è collegata ad una vecchia conoscenza, Fermìn Romero de Torres, nonché alla famiglia Sempere, tanto dall’indagine relativa a Valls tornano alla memoria del lettore il nome di David Martìn, il cd. Prigioniero del Cielo, dell’Avvocato Brians, di Isabella Gispert, di Fumero e di tanti altri indiscussi protagonisti di questa succosa quadrilogia.
Cosa ne è stato del politico? Perché qualcuno lo sta costringendo a vivere le sofferenze che i detenuti confinati a Montjuic hanno provato sulla loro pelle durante gli anni di prigionia? E chi è quell’uomo dal volto rivestito da una mezza maschera? Ed ancora, cos’è che di fatto lega ed unisce Valls, Salgado, David Martìn, i Sempere, Brians, una serie di ritrovati numeri indecifrabili, i libri di Mataix, Sanchis, il suo autista senza volto e tutti gli altri eroi che hanno colorato le pagine della tetralogia? Qual è il nodo per sciogliere la matassa?
Quella descritta in queste pagine è una Spagna vittima dei regimi totalitari, una Spagna dove la giustizia seguiva i suoi fini, dove i principi del giusto processo e dell’oltre ogni ragionevole dubbio, non erano ancora stati sanciti; un territorio dove la polizia poteva avvalersi della tortura pur di ottenere la confessione necessaria a chiudere il caso in oggetto d’esame. Al dato storico si sommano i luoghi e le persone, entrambi magistralmente descritti, entrambi tridimensionali, e una trama che non scontenta spingendo anzi ad andare avanti, col fiato sospeso per il desiderio di risolvere l’enigma, il mistero.
Era il 2001 quando Carlos Ruiz Zafon pubblicava “L’ombra del vento”, opera originariamente uscita in “sordina”, non acclamata dal pubblico iberico e di poi divenuto uno dei più grandi fenomeni editoriali con all’attivo ben oltre otto milioni di copie vendute nel mondo. Con “Il labirinto degli spiriti”, Mondadori, novembre 2016, siamo di fronte a quella che (probabilmente, perché in futuro, chissà) è la conclusione della tetralogia del Cimitero dei Libri dimenticati ma abbiamo anche tra le mani uno dei romanzi più belli ed avvincenti scritti dall’autore.
L’opera, infatti, è caratterizzata da un intreccio narrativo solido, magnetico, dai giusti tempi. Zafon è un maestro nel fornire indizi e rimescolare le carte così da creare quella giusta dose di suspense nel lettore che, rapito da quel che è il rebus non può che andare avanti. A questo si sommano altresì i protagonisti di questa storia, eroi “vecchi e nuovi” che arrivano, si fanno amare, si fanno odiare e salti temporali necessari per conoscere appieno delle vicende e risolvere le stesse. E se quello che vi spaventa è la mole, vi dico di non farvi intimorire. Seppur lo scritto sia composto da 815 pagine, esso scorre e si fa divorare con la velocità e facilità di un libro di 300/400 facciate, tanto che giunti alla sua conclusione la sensazione provata non è quella di pesantezza, di aver scalato una montagna, di aver concluso un’impresa titanica, bensì quella di vuoto; quel vuoto che è sinonimo di abbandono, quel vuoto che solo i libri veramente belli sono capaci di lasciare.
In conclusione, Zafon non delude, ma conquista e affascina. Zafon riesce nell’impresa più ardua di tutte; non rovinarsi con le sue stesse mani strafacendo. Mantenendo infatti l’equilibrio e rispettando quelli che sono stati gli intrecci narrativi che hanno conquistato i lettori e che lo hanno reso celebre, dà vita ad un elaborato che è un degno epilogo delle vicende ma che non preclude la possibilità, in futuro, di tornare a sognare.
«Non perda la speranza. Se ho imparato qualcosa in questo porco mondo è che il destino è sempre dietro l’angolo. Come se fosse un ladruncolo, una sgualdrina o un venditore di biglietti della lotteria, le sue tre incarnazioni più comuni. E se un giorno deciderà di andare a cercarlo – perché il destino non fa visite a domicilio – vedrà che le concederà una seconda opportunità»
«Tu sei una creatura notturna, Alicia, ma qui ci nascondiamo tutti alla luce del giorno»
«Alicia sentì che, dietro quel muro di oscurità, Barcellona aveva già fiutato le sue tracce nel vento. La immaginò aprirsi come una rosa nera e per un istante la invase quella serenità dell’inevitabile che consola i maledetti, o forse, si disse, era solo stanchezza. Ormai importava poco. Chiuse gli occhi e si arrese al sonno mentre il treno, facendosi largo tra le ombre, scivolava verso il labirinto degli spiriti»
«”Quanto le devo Miguel?”
“Glielo metto in conto. A domani alla stessa ora?”
“Se Dio vuole”.
“La vedo molto elegante. Visita di Gala?”
“Ancora meglio. Di libri”»
«La verità non è mai perfetta e non quadra mai con tutte le aspettative. La verità pone sempre dubbi e domande. Solo la menzogna è credibile al cento per cento, perché non deve spiegare la realtà, ma semplicemente dirci quello che vogliamo sentirci dire»
«Scrivo per me stessa, portando con me segreti che non mi appartengono e sapendo che mai nessuno leggerà queste pagine. Scrivo per ricordare e aggrapparmi alla vita. La mia unica ambizione è poter ricordare e capire chi sono stata e perché ho fatto ciò che ho fatto finché ne ho ancora la capacità e prima che la coscienza che già sento debilitarsi mi abbandoni. Scrivo anche se mi fa male, perché la perdita e il dolore sono le uniche cose che ormai mi tengono viva e mi fa paura morire. Scrivo per raccontare a queste pagine ciò che non posso raccontare a coloro che più amo, a rischio di ferirli e di mettere in pericolo le loro vite. Scrivo perché finché sarò capace di ricordare starò con loro un minuto in più..»
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Il potere della stampa scandalistica
Mario Vargas Llosa - Crocevia
L’ultimo romanzo del premio Nobel Vargas Llosa è un romanzo che mescola i generi, spaziando dall’erotico al thriller con anche un pizzico di romanzo storico e tenendo sempre presente un unico protagonista: il Perù.
In questo libro siamo a Lima, la capitale, e in particolare l’autore ci porta in un quartiere di Lima dal nome “Cinco esquinas” (particolare tipo di incrocio dove confluiscono 5 strade ) che è anche il titolo originale dell’opera. Un quartiere particolarmente famoso per essere stato teatro di uno dei crimini piu efferati accaduti nella Lima di fine anni ‘90, in piena dittatura, un quartiere centrale ma povero dal quale la storia si alimenta regalando, tra l’altro, la protagonista femminile.
Come accennato siamo in piena dittatura Fujimori, sul finire degli anni ‘90, il coprifuoco scandisce le vite dei suoi abitanti, una coppia di amiche realizza che è troppo tardi per rientrare a casa e una di loro si deve fermare per la notte; così inizia una splendida scena lesbo-erotica (la migliore) tra le due protagoniste, qualcosa che non mi aspettavo e che ha fatto spostare subito lo sguardo sotto un’altra luce e tra l’altro spiega anche la copertina!
Le due donne appartengono all’alta società di Lima, mogli di due uomini di successo i quali, loro malgrado, saranno protagonisti della storia portante del romanzo, fatta di foto rubate, ricatti e scandali architettati apparentemente dalla stampa scandalistica: potente strumento per infangare e portare avanti denigranti campagne di persuasione su avversari politici e non.
La stampa è l’altra protagonista dell’opera, e Vargas Llosa ci tiene a mettere in evidenza una stampa malata, parziale e a servizio di poco nobili cause che però è enormemente importante nelle strutture di potere di regimi autoritari come lo era quello di Fujimori, con una particolarità: qui è la stampa scandalistica a essere protagonista, come se da noi un paparazzo come “Corona” diventasse potentissimo strumento intimidatorio.
In questa opera si distinguono i tre assi portanti dell’opera di Vargas Llosa: la politica, il giornalismo e l’erotismo. Ben scritto, scorrevole, ci fa immergere nelle strade e nella vita peruviana di quel tempo e ci porta alla scoperta di un paese lontano che ha vissuto nel recente passato una dittatura di cui non conoscevo quasi nulla. Una dittatura che usava molto bene i la stampa, la quale da questa opera ne esce davvero con le ossa rotte e con ancora qualche residua speranza di redenzione.
I personaggi tratteggiati nel romanzo non sono indimenticabili, nessuno mi ha colpito particolarmente, li ho trovati un po’ superficiali con poche o nessuna virtù; lo stesso posso dire per la parte dove l’erotismo la fa da padrone: capitoli fini a se stessi che non aggiungono nulla alla storia se non qualche voyeurismo di maniera e qualche esercizio di stile più utile all’autore che alla narrazione.
L’opera nel suo complesso è valida, è pur sempre il grande Mario! Anche se mi aspettavo di più, mi aspettavo più coinvolgimento, più emozioni e invece direi che, nonostante i molti cambi di registro e i tentati colpi di scena, la storia scorre piuttosto piatta fino al gran finale che la riscatta parzialmente.
In definitiva: lontano dalle vette di Vargas Llosa ma comunque un’onesta e più che sufficiente lettura.
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Il potere della letteratura.
“Caro Giacomo, in quest’epoca si parla tanto di adolescenti, ma si parla troppo poco con gli adolescenti. Parlare con gli adolescenti non è articolare un elenco di “devi” o “dovresti”. Non guadagna la fiducia dei ragazzi chi la cerca scimmiottando la loro adolescenza, ma chi partecipa alla loro vita, scegliendo volta per volta la giusta distanza. Solo chi vive il suo rapimento genera rapimenti e provoca destini: solo se io so che cosa ci sto a fare al mondo metto in crisi positiva un adolescente, che non vuole gli si spieghi la vita, ma che la vita si spieghi in lui, e vuole avere a fianco persone affidabili per la propria navigazione”. P. 34
Non è semplice rendere l’idea di quel che è “L’arte di essere fragili” di Alessandro D’avenia, non perché l’opera sia incomprensibile o di scarso valore bensì per la molteplicità di contenuti che in essa sono racchiusi. L’autore, infatti, in queste pagine, pone al lettore, e a sua volta si auto-pone, una serie di quesiti di gran rilevanza, una serie di interrogativi che spaziano per quella che è la vita e la realtà di ciascun individuo in ogni fase della maturazione umana. E lo fa senza avere la pretesa di poter offrire soluzioni semplici perché come ben ci ricorda, la vita stessa non è semplice dunque, non può essere minimizzata, non può essere risolta facendo riferimento ad una formula matematica, ad un minimo comune denominatore da applicare al caso incontrato nel percorso di crescita interiore. A questo punto vi starete chiedendo: ma come riesce D’Avenia a far si che tutto questo abbia luogo? Come può rendere atto di questi mutamenti interiori, di questa energia che vuol uscire, dei dubbi, dei fallimenti, di questi interrogativi che immancabilmente attanagliano l’uomo? Semplice, mediante una serie di scambi di battute con niente meno che Giacomo Leoparadi.
Esatto, perché “L’arte di essere fragili”, non è un romanzo ma un vero e proprio epistolario. Simbolicamente l’opera può essere suddivisa in quattro parti così come quattro sono le componenti fondamentali dell’essenza della vita:
- L’adolescenza, o arte di sperare;
- La maturità; o arte di morire;
- La riparazione, o arte di essere fragili;
- Il morire, o arte di rinascere.
Dunque D’Avenia per ogni sezione che affronta crea una serie di lettere tutte munite e caratterizzate da un proprio argomento letto in chiave leopardiana, troverete infatti all’interno dello scritto stralci de “Lo Zibaldone”, ma anche le poesie più note – quali “l’infinito” – o meno note perché ultimo frutto della composizione poetica del letterato o perché semplicemente meno apprezzate dai docenti di turno – quali “La ginestra o il fiore del deserto” – , tutti strumenti, questi, utilizzati per rivedere concetti fondamentali del vivere di ieri e di oggi. E si, l’autore de “Bianca come il latte, rossa come il sangue”, non ha paura di leggere Leopardi in chiave ottimistica, o ancora meglio, realistica: rompe gli schemi e ci mostra anche quegli aspetti meno celebri della sua esistenza dedita allo studio, alla ricerca dell’amore, alla solitudine, alla ricerca del compimento.
E quel vetro che potrebbe rendere distante lo scritto da chi legge viene rotto mediante il ricollegamento a casi concreti accaduti nel corso della professione di insegnante del palermitano. Dunque, alla riflessione, segue la realtà, il vero. E tra casi di ragazzi autolesionisti, che cercano l’eccesso, che sono infelici e meditano il suicidio, ve ne sono anche altri che da quelle parole traggono riflessioni e ne inducono altrettante in chi è destinatario dei loro quesiti, perché, prendono consapevolezza, si svegliano. Tra i tanti, significativo a tal proposito è un passaggio:
«”Professore, lei dovrebbe leggere un po’ meno poesia e guardare un po’ di più il Grande Fratello”. [..] Quella frase mi colpì, non per la sua insolenza ma per la sua verità bruciante. Tradotta suonava così:”Professore, per favore può tornare nel mondo piccolo della bruttezza e non farmi sentire che esiste la bellezza? Può non costringermi a scegliere tra il nulla e l’essere? Ora che so che ci sono cose in cui la vita si sente così forte, cose così belle, devo uscire dalla mia comoda indifferenza e prendere posizione: a che punto sono del mio compimento, che cosa voglio dalla vita? Professore, può per favore evitarmi minuti di rapimento, altrimenti devo mettermi in cammino verso il compimento?” » p. 68
All’analisi dell’adolescenza è destinata circa metà dell’elaborato, questo perché gli “adolescenti non pongono domande, sono domande”; sono energia che vuol uscire, esplodere, essere destinata ad un obiettivo, e sono al tempo stesso provocatori perché pongono interrogativi a cui vogliono risposte, risposte che devono e pretendono essere semplici e risolutive quando in realtà a molte di esse è possibile rispondere soltanto con la dimensione dei forse, dell’incertezza.
Con il termine di questa fase ricca di speranza, sogni e vigore segue quella dell’esperienza, della maturità. Quella porzione di vita destinata a rendere coscienti gli interlocutori del fatto che tutto ha un inizio ed una fine, quella consapevolezza atta a cogliere gioie e dolori, fragilità e forza, successi e insuccessi, non deve essere vissuta come un qualcosa che è subito dall’uomo passivamente; poiché come vediamo nella fase della riparazione, la si può anche amare, abitare, mutare. L’adulto, che sia professore o meno, è chiamato a custodire, a riparare i più giovani, ad aiutarli con le parole proprio perché in loro è insita la fragilità. E’ punto di riferimento per quelle anime così convinte di sapere cos’è il mondo eppure capaci di cadere come un castello di carta alla prima folata di vento, ecco perché nonostante il proprio intimo fallimento, le proprie più ardue lotte, deve trasmettere il “rapimento”, l’esperienza, la saggezza. Deve essere, in ultima fase, consapevole egli per primo del fatto che essenziale è dare compimento a se stessi e alle “cose fragili” perché soltanto così possono essere salvate dalla morte, con l’amore. Solo così si può rinascere, soltanto così si può abbracciare “l’arte di essere fragili”, custodirla, farla propria, svilupparla, renderla unica.
Mi fermo qua perché come potete ben vedere, in poco più di 207 pagine, sono contenuti ragionamenti di grande valore che toccano temi talmente ampi e variegati che, continuare a parlarne potrebbe, da un lato rovinarvi il gusto della lettura, ma soprattutto, non riuscire a rendervi davvero idea di cosa questo elaborato è. La sua stratificazione è talmente vasta che le considerazioni vanno assaporate un poco alla volta onde evitare che sfumino, che evaporino nel calderone di ricchezza che avete tra le mani.
In conclusione, una conversazione con Leopardi, che non delude, che arricchisce e che è in realtà un’automeditazione atta a coinvolgere tanto i giovani quanto gli adulti.
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Calma piatta
Alta e slanciata, occhi e capelli scuri e una chioma corvina.
Un viso non bellissimo ma conturbante. Fotografie in bianco e nero la ritraggono prevalentemente semisvestita, una vistosa tiara d'oro, perle e lapislazzuli sul capo, il ventre scoperto sopra una lunga gonna di leggeri veli sovrapposti.
Di buona famiglia, raggiunse il successo come danzatrice orientale per poi convolare, dopo un alternarsi di presunti spionaggio, controspionaggio e la condanna decisiva, alle nozze nere col patibolo.
Il personaggio di Mata Hari e’ misterioso, femminile e spregiudicato punto di partenza di tante rappresentazioni tra cui, recentemente, quella di Coelho. L’autore precisa l’assenza del rigore storico sebbene sia ispirato ai fatti realmente accaduti, ci prepariamo quindi a una non biografia ma ad un romanzo storico accattivante, vista la fama della nota spia.
Il testo effettivamente tocca la maggior parte degli aspetti della tumultuosa vita della donna, ma il difetto e' di forma. Proposto come lettera-confessione, e’ Mata Hari stessa l’IO narrante, necessaria diviene quindi l'osmosi tra scrittore e protagonista.
Leggo, rifletto e concludo che se per molti uomini essere una vera femmina e’ un esercizio ragionevolmente complesso, per Paulo Coelho essere una donna esotica, audace e sensuale e’ un caco senza buccia.
Il racconto sbrodola informe in una piattezza da manuale, noioso all’inverosimile. Privo di vigore narrativo e di pathos, di Mata Hari resta una donnetta dai facili costumi che si concede – svogliata - a uomini facoltosi in cambio di ricchezza e potere, sculettando false danze orientali come una qualsiasi praticante strip teaser. Non bastasse, a tratti il testo e’ anche logorroico e ripetitivo.
Se il plotone colpì Margaretha Geertruida Zelle il 15 ottobre 1917, oggi la penna di Coelho ha sepolto il fascino cangiante del suo personaggio.
A meta’ strada tra Morfeo e Ortica, un estratto di Wikipedia e’ piu’ avvincente, dettagliato e udite udite… gratuito.
Vita e morte a braccetto con il sorriso
Andrea Camilleri lo conoscono tutti per i gialli della serie del commissario Montalbano, ma in pochi lo stimano per i romanzi in cui parla d'altro, ricostruisce la storia e i misteri del passato.
In LA CAPPELLA DI FAMIGLIA E ALTRE STORIE DI VIGÀTA ci propone una Sicilia arcaica, legata al folklore del passato, ma sempre contraddistinta da misteri, leggende ed occasionali o premeditati misfatti.
La Vigàta di Camilleri, paesino immaginario, ma sempre verosimile, sa parlare di usanze e costumi, che la memoria storica non ha definitivamente cancellato e che sono ancora in grado di entusiasmare il lettore, attento e alla ricerca di un qualcosa in più.
LA CAPPELLA DI FAMIGLIA è una raccolta di otto racconti, più o meno lunghi, nei quali emerge una Vigàta suggestivamente intrisa di passioni, soprusi e debolezze umane. È una raccolta variegata di tipologie umane: si passa dagli uomini arroganti e pieni di sé alle vedove inconsolabili, dagli autoritari capifamiglia o padre padrone ai genitori di Luigi Pirandello. Ci sono rituali magici, usanze storiche cadute in disuso, antiche credenze popolari, ma anche sentimenti e comportamenti che con il tempo si sono trasformati un po', ma mai nella loro essenza o del tutto.
Interessante, coinvolgente e divertente, Andrea Camilleri con il suo particolarissimo stile e la sua verve comica racconta, in questo libro, una Italia passata, ma ancora in grado di insegnare qualcosa alla generazione attuale.
LA CAPPELLA DI FAMIGLIA è un piccolo gioiello, una raccolta di racconti da avere nella biblioteca privata, da leggere e rileggere per ritrovare il buon umore o per comprendere ed abbracciare la vita con nuova consapevolezza.
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IL POTERE DEI FIORI
Questo romanzo racchiude in sé due storie, che l’autrice riesce ad unire e a fondere in un unico racconto.
Iris e Viola sono le protagoniste del libro, due gemelle, divise quando erano piccole e che per caso si incontrano per la prima volta al Chelsea Flower Show di Londra. Al primo sguardo loro si vedono identiche e non capiscono come sia possibile una cosa del genere e rimangono incredule da quel loro incontro.
Prima di continuare, premetto, che voglio fare una recensione un po’ diversa, non raccontandovi la trama che troverete tranquillamente, ma nell’affrontare i punti di forza e quelli deboli del testo.
I fiori e i giardini sono il tema principale che l’autrice tratta nel libro, come se i fiori avessero un potere e una magia, che conduce le due ragazze a conoscere la verità sul loro passato.
L a prima parte del libro è molto lenta e poco scorrevole, è come se le vicende per capitoli rimassero statiche, senza un’evoluzione e questo mi ha messa in difficoltà nella proseguire la lettura.
Nonostante questo sono andata avanti e la cosa positiva è che l’autrice ha talento e questo si vede nello suo stile che a volte sfiora il poetico, e dalla seconda parte del libro, la storia ha iniziato a coinvolgermi.
Credo che la mia difficoltà più grande sia quella che io non ho lo stesso amore per i fiori che ha la Caboni e questo mi ha impedito di godermi a pieno la storia.
Devo dire anche che,la trama del romanzo che sono andata a leggere, è ben congeniata e attenta a creare, soprattutto nella parte finale, la giusta suspance.
Le due giovani amano i fiori e sentono di essere legate in qualche modo, ma sono distanti e non si vogliono mettere in gioco per conoscersi veramente.
Il loro rapporto è difficile a causa della lontananza, non si fidano l’una dell’altra, anche se capiscono che il loro legame è molto forte, ma non lo vogliono affrontare.
Credo che l’autrice abbia toccato in maniera delicata il tema della separazione e dei gemelli, non scadendo mai nei toni troppi dolci o in quelli troppo duri, trattando l’argomento nella giusta posizione.
I fiori, hanno un ruolo fondamentale, tutti i personaggi sono legati a loro anche se indirettamente.
Si nota molto, il gran lavoro che c’è dietro alla stesura del romanzo, una ricerca accurata e dettagliata per descrivere i vari fiori e le loro caratteristiche, per me è stato interessante leggere anche se, alcune volte, mi sembrava di essere di fronte ad un manuale e non ad un romanzo.
Ho apprezzato molto la descrizione dei luoghi, che l’autrice ci racconta con dovizia di particolari e in maniera accurata le varie ambientazioni del romanzo, è come se ci trovassimo lì.
Posso dire che sicuramente le lunghe descrizioni non stonano con la storia, ma sono parte integranti della storia.
I personaggi sono delineati e subiscono un’evoluzione nella storia, capiscono i loro errori e maturano mano a mano che i vari segreti vengono svelati.
Iris e Viola, a loro modo, sono delle vittime e si trovano a doversi confrontare con la verità della loro vita e devono anche insieme, ricostruire il loro rapporto.
Il modo di raccontare la storia non mi ha saputo coinvolgere nel modo che avrei voluto e ci ho impiegato più del necessario per terminarlo, forse non amo molto la narrazione in terza persona, che crea sempre una sorta di distacco dalla storia e dai personaggi.
Probabilmente mi sento in difficoltà io, perché, non si è creata la giusta empatia con questo romanzo e non mi aspettavo che fosse così, anche se avevo delle ottime aspettative.
Sicuramente devo riconoscere che l’autrice è bravissima, riesce a scrivere un libro in maniera quasi poetica, come dicevo prima, ma forse il problema è che al centro del libro ,sembra quasi, ci siano i fiori e le piante e non la storia di Iris e Viola.
Un romanzo che consiglio di leggere se amate i fiori, i giardini e le piante, dove l’autrice è brava a raccontare in maniera delicata e a volte intensa, la storia di due ragazze che si ritrovano dopo anni e che non riescono a riconoscersi e che oltre a capire il loro passato, devono anche imparare a conoscersi.
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Se Caino uccise Abele, siamo tutti figli di Caino.
In un’intervista che Marilynne Robinson concesse a nientemeno che il Presidente Obama, la scrittrice sostenne che l’ideale di democrazia si basa sulla fiducia che gli esseri umani ripongono negli altri esseri umani e nella speranza che le persone agiscano per il bene e non per il male.
Fede democratica e fede religiosa permeano tutta l’opera della Robinson. “Le cure domestiche” è il primo romanzo di questa autrice al quale fece seguito, solo dopo venticinque anni, una trilogia, più nota in Italia, “Gilead”, “Casa”, “Lila”.
In questa opera prima, premiata con il PEN/Hemingway Award nel 1982, la Robinson racconta la storia di due sorelle ancora bambine, abbandonate sulla soglia di casa della nonna da una mamma decisa a mettere fine alla sua vita gettandosi nel lago alla guida di un’auto. Di loro si prenderà cura dapprima la nonna, solerte, ma poco incline a superflue effusioni, poi, alla sua morte, le sue anziane cognate, infine la zia Sylvie. È costei la vera protagonista del romanzo, è Sylvie, col suo passato misterioso, la sua vita ribelle e vagabonda, la sua silenziosa e disperata ricerca di una pace interiore più aderente allo stato di natura, a suo agio nella diffusa penombra della casa, ma ancora più nella luce mutevole dei luoghi esterni, illuminati ora dai raggi del sole, ora dal riverbero ondeggiante dell’acqua del lago. Ed è il lago, sepolcro tranquillo e inesorabile di tante anime, ultimo rifugio del padre e di Helen, le due assenze costantemente presenti nel romanzo, ad essere, come tanto spesso nella letteratura americana, il simbolo di una fine che precede una resurrezione, quasi immagine di opera preraffaellita. L’acqua, seppure smossa o agitata da un corpo che vi si immerge, riacquista ben presto la sua immobilità. Il vagabondare di Sylvie, la sua eccentricità in una comunità legata alle convenzioni e alle apparenze, sono la causa dell’allontanamento di Lucille da Ruth. E qui emergono le due anime americane, Lucille, l’America conservatrice e perbenista, Ruth, l’America idealista.
La scelta di Ruth e di Sylvie, così lontana e diversa da quella di Lucille, è fatta di un dolore silenzioso, di ricordi sfumati, di visioni immaginifiche che le portano a sentire presenze invisibili: “Sylvie, lo sapevo, sentiva la presenza delle cose morte.” È una scelta di solitudine che le porta lontano, ma che non impedisce loro di portare con sé il proprio passato. L’America sognata dalla Robinson in questo romanzo è vicina a quella di Emerson e Thoreau, un mondo privo di orpelli, ma profondamente solitario. La famiglia che pure tanto sta a cuore alla scrittrice qui può ricomporsi solo nel vincolo affettivo tra Ruth e Sylvie. L’irrefrenabile desiderio di indipendenza e l’esigenza di vivere a contatto con una natura in cui il male e il bene trovano una armoniosa coesistenza, sono le stesse che troviamo nel Walden di Thoreau: i profumi, i suoni, ogni percezione sensitiva esprimono l’essenza divina, esprimono il desiderio di tornare simile ad Abele, lontano dalla ferocia di Caino.
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Camorra 2.0
Napoli che e’ bella da impazzire tra i palazzi, i musei, l’arte, le botteghe, il dialetto, l’allegria.
Sfugge al turista quello che striscia dietro, nei quartieri dove non si passeggia, nelle periferie, nell’attimo che non ha incrociato.
Esiste una realta’ di camorra cui non importa della data di nascita, sono giovani dal futuro incerto che scelgono la via piu’ facile, o l’unica che conoscono, per arrivare a Tutto e Subito.
Denaro e potere: ambizione dei piccoli.
Ragazzini che nemmeno avrebbero l’eta’ per salire in sella sfrecciano sui motorini nel centro, senza regole, senza paura. Giurano fedelta’ e omerta’ con un patto di sangue che si mischia sui polsi tagliati, accendono un cero alla Madonna e ottengono la sacrosanta benedizione della paranza. Parlano attraverso le battute a memoria dei film di gangster, imparano a governare armi su Youtube , non temono la morte se avverra’ dignitosamente in battaglia. Estorsioni, spaccio, rapine, omicidi.
“ Io per diventare bambino c’ho messo dieci anni, per spararti in faccia ci metto un secondo.”
Stiano sereni i suoi sostenitori e si rilassino i detrattori, Roberto Saviano non propone saggistica con questo ultimo libro, ma narrativa. Quindi non puo’ aver copiato. Ha scritto con quella sua penna talentuosa un romanzo appassionato e appassionante, fortemente realistico, tragico, spaventoso.
Dal passo inarrestabile scorre il fiume in piena delle vite disgraziate dei suoi protagonisti, col vigore e l'incoscienza e l'ambizione della giovinezza. Galoppa ad un ritmo serrato frustato dallo scudiscio del (comprensibilissimo) dialetto napoletano che caratterizza, ravviva, porta nel rione.
Scuote il lettore tramortito che rapito dalla miscela di trama e forma barcolla disorientato, lontano dalla sicurezza della carta e’ scaraventato a perdifiato nel mondo di mezzo. Una realta’ surreale a meta’ strada tra lettura e vita vissuta, personaggi inventati incastrati in una situazione sociale esistente.
Oggi digitando su Google “ La paranza dei bambini” si ottengono risultati riconducibili al solo Saviano, qui ci sarebbe da rallegrarsi. Se pero’ accanto si aggiunge la parola “Woodcock” o “ De Falco”, gli estremi delle labbra perdono il sostegno gravitazionale, i risultati sono cronaca.
Libero l'autore dal rigore bibliografico imposto in saggistica, lo spunto arriva dalla lettura dei fascicoli di un’inchiesta condotta dai magistrati sopra citati e che nel giugno scorso porto’ a quarantatre condanne di camorra.
Un bellissimo libro orribile, buona lettura.
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I buoni, i cattivi...e l'antilingua.
Estate 1992.
Bari.
Un'estate che sembra non voler arrivare mai..."fredda" non solo meteorologicamente, ma anche metaforicamente.
È l'estate delle stragi di Capaci e di Via D'Amelio, l'estate della mafia padrona.
Carofiglio, con il suo solito stile affascinante, sobrio, garbato, sempre in perfetto equilibrio tra forma e sostanza, tra linguaggio tecnico e "di strada", ci porta dentro una storia e ci fa toccare con mano lo sporco mondo della criminalità organizzata, con le sue strutture gerarchiche, i suoi giuramenti, qualifiche, avanzamenti di "carriera", i suoi codici e la sua giustizia interna tanto feroce quanto sommaria.
Stavolta l'autore abbandona la giurisprudenza e le aule di tribunale e ci apre le porte di una caserma dei carabinieri di Bari, dove troviamo il maresciallo Pietro Fenoglio (già protagonista di "Una mutevole verità"), uomo di grandi principi e dignità, di intelligenza vivace e profonde riflessioni filosofiche.
Un uomo ferito nella sfera sentimentale e sempre alla ricerca della "giusta misura".
E proprio il caso che si troverà a dover affrontare, ovvero il sequestro lampo del figlio di un boss locale, lo porterà a dover aprire una finestra sul labile confine tra "buoni" e "cattivi", tra "noi" e "loro", dove diventa estremamente difficile separare il bianco dal nero ed evitare d'immergersi fino al collo in quella sterminata varietà di grigi, accettando tristemente i limiti della divisa che indossa.
I criminali sono sempre tutti "brutti, sporchi e cattivi"?
Ed i buoni...sono veramente tutti "buoni"?
Fenoglio, tra una visita in Pinacoteca, la sua musica classica e un tuffo in un mare cristallino di una spiaggia ancora dormiente della costiera barese, farà i conti con un'estate di sangue e dolore.
Indubbiamente l'essere stato magistrato e sostituto procuratore nell'antimafia, rende Carofiglio particolarmente abile nel raccontare questo tipo di storie (sa di cosa parla) ed è anche molto attento a non indugiare troppo sull'aspetto truce e violento del mondo che racconta (pur presentandoci le cose così come sono), stemperandolo attraverso ciò che lui conosce ed usa molto bene..."la parola".
Carofiglio in questo romanzo fa sfoggio di differenti registri linguistici: alterna al linguaggio fluido della narrazione e dei dialoghi, interi verbali di interrogatori, scritti in quella che Calvino chiama "l'antilingua", ovvero una lingua rigorosa, lontana dai significati concreti della vita, per mantenere le distanze dal mondo reale e dalle sue brutture.
Per sopravvivere.
Ma riesce anche a mescolare molto bene realtà e finzione, invenzione e cronaca, senza che l'una prevarichi sull'altra...rendendo omaggio a Falcone e Borsellino.
Un romanzo che non mira tanto a scatenare forti "emozioni", quanto invece a generare "riflessioni"...e a costringerci, di fronte a ciò che riteniamo inaccettabile, a non girare la testa dall'altra parte.
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Così attuale da fare ancora più male
“Ma sono stanchi, e nervosi, e non vogliono perdere tempo, e alla fine, siccome lei esita ancora, le intimano senza garbo di sbrigarsi. Siete talmente tanti, si giustifica l’agente mentre le preme le dita nell’inchiostro. Siete come la sabbia del mare. Non finite più”.
A Melania Mazzucco viene chiesto di scrivere un libro sui profughi che arrivano o sono arrivati in Italia. Lei all’inizio non se la sente, si deve riprendere ancora dagli ultimi scritti, ma quando trova la forza per farlo, decide di scriverlo su una donna. Alla fine la trova, lei è Brigitte.
Il racconto inizia in una giornata fredda, siamo a Roma, alla Stazione Termini e Brigitte che proviene dal Congo, cammina senza meta. Non sa dove si trova e non capisce la lingua. Un incontro fortuito la incamminerà verso tutto quell’iter burocratico che ogni profugo si ritrova a seguire. Senza speranza, senza fiducia e soprattutto senza futuro. Brigitte da un giorno a un altro si è ritrovata senza niente, era una donna importante al suo paese, orgogliosa e coraggiosa. La sua vita non sarà facile ma avrà la fortuna di incontrare persone “umane”, che considerano lei e gli altri come persone e non solo come dei numeri da smistare.
La Mazzucco mostra il volto odierno dell’Italia, dell’Europa e dell’Africa. Il nostro è un paese che come sempre riesce a distinguersi soprattutto per le sue incongruenze e contraddizioni. Un’Italia che si divide in chi “da la carota e chi il bastone”. Mostra la vita di tutte quelle persone che ogni giorno troviamo nelle nostre città, nei nostri paesi e nelle nostre vite; racconta il loro passato, cosa possono aver subito e soprattutto cosa si aspettano.
Spiega anche come il mondo dei profughi è cambiato:
“Quando ha dovuto dirgli di no, un ragazzo marocchino lo ha maledetto, chiamandolo razzista di merda. Razzista, a lui. Capita sempre più spesso. Quando è arrivato nel 2002, e per svariati anni, ascoltavano con rispetto ciò che dicevano e si fidavano delle sue parole. Adesso credono di sapere tutto – hanno ricevuto informazioni prima di partire, e non si rassegnano ad accettare l’idea che siano false e ingannevoli”.
Brigitte è una delle tante ma la sua storia colpisce, ferisce e non si digerisce. Posso non aver apprezzato molto lo stile della scrittrice ma comunque le sue parole, anzi le parole di Brigitte, arrivano direttamente al cuore o almeno al mio. Sicuramente mi ha reso più consapevole e l’attualità del testo (Brigitte è arrivata nel 2013 e nel Post Scriptum parliamo del 2016) fa male, anche se molti ci “marciano”, altri hanno alle spalle storia come quella della protagonista e la domanda che si è formata nella mia testa e ancora non ha trovato risposta è: riusciranno a dimenticare? Potranno tornare a sorridere come una volta?
Grazie Mazzucco, “Io sono con te” racconta un periodo buio che però lascia spiragli per il futuro.
Buona lettura!
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Lacrime amare
“Caro Ilie, ora mamma ti racconta un fatto”. Iniziano così le email piene di vita che Mirta invia al figlio dodicenne rimasto a migliaia di chilometri di distanza, a quell’adolescente che quando ha lasciato era poco più di un bambino e che non ha potuto vedere crescere, a quegli occhi neri che l’hanno fissata inespressivi mentre lei si allontanava, alla persona che rende possibile ogni sforzo, ogni sofferenza, ogni umiliazione quotidiana. Sono lettere che rimangono senza risposta, eppure provare a raccontare è l’unico modo che rimane per cercare di fargli capire che, anche se è solo e vive in un orfanatrofio, lui una mamma ce l’ha. Una mamma che l’ha lasciato per potergli dare un futuro diverso, una mamma che sopravvive solo grazie al suo ricordo e alla speranza un giorno di ricucire la famiglia.
E allora prova a parlargli di questo strano paese in cui lavora, un paese in cui la gente sembra avere tutto tranne il sorriso, in cui la ricchezza sembra aver alzato muri tra le persone e all’interno delle stesse famiglie, in cui si paga qualcuno per prendersi cura dei propri vecchi senza rubare tempo alla propria quotidianità. Prova a raccontargli delle anziane signore che si trova ad accudire, dei loro scortesi capricci, delle loro malattie, delle loro desolate solitudini. Prova a spiegargli cosa significhi vivere pigiati in venti in un appartamento troppo piccolo, disposti ad accettare qualsiasi lavoro perché la fame non ammette orgoglio e nemmeno dignità, costretti a sentire i piedi della gente sulla faccia senza poterseli togliere di dosso.
La realtà trattata in queste pagine è una verità lacerante e straziante che si consuma a due passi da noi, la vita di tante donne costrette a partire dalla disoccupazione dilagante e dalla mancanza di possibilità, ragazze madri costrette ad abbandonare i figli a parenti o istituti, donne che si prendono cura delle nostre famiglie e delle nostre case, sapendo di avere nel cuore il dolore e il senso di colpa. Perché i pacchi pieni di vestiti, giochi e denaro non potranno mai sostituire un abbraccio, una voce, una carezza.
Le parole di Antonio Manzini fanno più di qualunque articolo di denuncia sociale perché, con una straordinaria forza empatica ed emotiva, sono capaci di farci vestire i panni di una giovane donna su cui la vita si è accanita, una giovane donna seria e buona che sa davvero cosa significhi la disperazione. E allora i piccoli problemi e le lamentele quotidiane sbiadiscono perché non possiamo più fare finta di non sapere cosa accade dietro la porta accanto. Perché questa non è finzione, purtroppo.
Complimenti a Manzini, che con questa lettura ha saputo portare all’attenzione un tema sociale così attuale e scabroso con una capacità di immedesimazione e con un’emozione che non possono lasciare indifferenti. E alla fine non si può fare altro che piangere.
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Niente brividi in Svezia ma tanta solitudine
Ultimo libro di Henning Mankell che nel 2015 si è dovuto arrendere a una malattia. Pur essendo stato catalogato nella categoria Gialli/Thriller/Horror, questo romanzo se ne discosta in maniera netta.
Siamo nell’arcipelago svedese, l’autunno incalza e la routine dei pochi abitanti, rimasti dopo la partenza dei turisti, viene scombussolata dall’incendio della casa del protagonista.
Lui, il dottore, è un settantenne che per un riflesso notturno è riuscito a scampare all’incendio; le cause ignote, innescano una serie di reazione che poche hanno a vedere con il brivido e la suspense.
“Nella notte, nel giro di qualche ora, la mia esistenza era cambiata a tal punto che d’un tratto mi mancava tutto. Non avevo neanche un paio di stivali di gomma completo”.
Fredrik è un uomo singolare, dottore in pensione, si è rifugiato nell’arcipelago svedese ereditato dai nonni dopo un intervento non andato bene. Non si è mai sposato ma si è trovato padre di una figlia già adulta con cui ha un rapporto molto particolare e non semplice. Ogni mattina si sveglia e s’immerge nelle fredde acque svedesi, cura malattie immaginarie e non dei suoi compaesani e ha un odio profondo per i prodotti made in China. La perdita della casa lo porterà a rivalutare la sua vita e soprattutto la sua solitudine.
Mankell ci porta nell’autunno e nel freddo svedese, in un mondo in cui ci si muove in barca ed essere proprietari di un’isola è la normalità. Una vita così diversa dalla nostra e per questo molto affascinante.
Il romanzo parla della vecchiaia e queste parole ne rendono bene il senso: “Il sole splendeva attraverso una leggera foschia che copriva la città. Mi colpì il fatto che le persone che vedevo con poche eccezioni, erano più giovani di me. Non mi era stato così chiaro: mi trovavo su un confine umano, facevo parte di quel gruppo che si stava allontanando dalla vita”.
La solitudine attira persone simili a noi, altri, che della solitudine hanno fatto il loro marchio di vita. La speranza, come ci ricorda l’autore, sta in una nuova vita.
Un romanzo introspettivo, profondo e molto svedese. Solitudine, anzianità e cambiamenti.
Per chi fosse alla ricerca del brivido dei romanzi del nord, sconsiglio questa lettura; per gli altri che invece avessero voglia di una lettura lenta che però scorre bene, scritta con un buono stile, possono affrontare queste 425 pagine senza paura.
“Era già la fine di agosto.
Presto sarebbe arrivato l’autunno.
Ma il buio non mi faceva più paura”.
Buona lettura!
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Il professore associato
" Ormai i libri sono così tanti che sembra non esserci quasi più spazio per il pensiero "
(Un personaggio di Marai).
Un professore associato accompagna in auto un ex docente ultracentenario a Locarno per "una specie di congresso" , "un convegno di scienziati. Chimici" di livello internazionale, tenuto più o meno segreto.
Questo è l'avvio di questo romanzo giallo, o meglio mezzo giallo.
Gli sviluppi non sono grandiosi. Vari momenti paiono non sfruttati al meglio. La tensione del lettore va e viene; ma, prima di giungere alle parti finali, soprattutto va.
Carente risulta l'approfondimento. L'aridità di fondo, poi, su di me produce un effetto...deprimente.
Personaggi come il vecchissimo ex docente e la sua decrepita ma arguta consorte risultano abbastanza riusciti; però sono quasi esclusivamente loro ad emergere dalla nebbia noiosetta che avvolge la narrazione.
La scelta di uno 'stile' antiletterario neoconformista, con termini specialistici immersi in un lessico 'qualunquista' , apporta un grave danno alla qualità della narrazione : si passa da "enontiomeri" e "catalissi" a numerose e varie mezze volgarità di bassa televisione, tali da conferire all'Io narrante (il professore associato) un degrado estetico, certo ben poco confacente all'ambiente scentifico internazionale.
Ho trovato urtante questo aspetto, tanto più perché non vi si scorge un distacco moraviano dell'autore. A risentirne è il buon gusto. Non so se sospettarne connivenza, ma certo il clima prodotto, nell'insieme, è piuttosto volgarotto.
Per fortuna, qua e là, c'è qualche colpo d'occhio descrittivo del paesaggio che rincuora in questa, per me, faticosa lettura.
Non so quanto ci sia di autobiografico. Però aspetti professionali e ambiente lavorativo dello scrittore e della voce narrante paiono coincidere.
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Paradise Sky in Hell's Land
Non so voi, ma quando leggo un romanzo la mia più grande gioia è quando questo ultimo riesce ad immergermi nella realtà e nelle vicende che racconta.
"Paradise sky" riesce in questa impresa che ormai è sempre più rara, soprattutto nei libri moderni.
Joe R. Lansdale mi hai davvero stupito, portandomi a considerare seriamente la lettura delle sue altre opere "western". Si è dimostrato un autore estremamente poliedrico, in grado di coinvolgere il lettore e fargli "sentire" la storia, oltre che i personaggi.
Il mondo del Lontano Ovest è già spietato di per sé, e lo è ancor di più se ti ritrovi a nascere con la pelle di colore diverso.
L'abolizione della schiavitù non ha cambiato molto, perché l'uomo è un animale ottuso.
Lo sa bene il giovane Willie, che a causa del colore della sua pelle e di uno sguardo leggermente esitante sulle curve di una donna bianca, si ritroverà a soffrire le pene peggiori che possano capitare a un uomo, a vivere un'avventura fatta di sofferenze e difficoltà. Certo, incontrerà alcuni uomini buoni, ma perlopiù si troverà di fronte gente violenta e priva di scrupoli, che lo vorrà morto per motivi che è anche difficile spiegare, forse perché sono privi di una reale consistenza e aventi uno stupido denominatore comune: quella pelle nera.
Eppure Willie, che poi cambierà il suo nome in Nat Love e infine se lo ritroverà cambiato grazie alle sue imprese in Deadwood Dick, riuscirà a cavar fuori qualcosa di buono anche da questa lunga e sfortunata serie di eventi. Ma ci riuscirà soltanto grazie al suo cuore e alla sua perseveranza.
Se sai meritarli, amore e amicizia sapranno trovarti anche nel violento e selvaggio West. E voi, vi ritroverete a osservare questa realtà con gli occhi del povero Nat, che a differenza vostra, a tutto questo dovrà trovare il modo di sopravvivere.
"Più pensavo all'orologio, più mi convincevo che Dio non fosse così amorevole. Era come un grande orologiaio: noi eravamo gli ingranaggi del suo orologio, e la terra in cui viviamo ne era la superficie scivolosa. Finito di costruirlo, e dopo averlo caricato, si è seduto e ha detto: Bene, buona fortuna, il mio compito finisce qui."
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Il futuro è scritto nel presente, l' eterno in ogn
" Tutti vogliono possedere la fine del mondo." " Il futuro che ci attende è la trascendenza ."Non nasciamo per nostra scelta, e dobbiamo morire allo stesso modo?"
Zero K è una rappresentazione olistica al confine tra reale ed irreale, religione e scienza, contingente e trascendente, in uno scenario lunare, robotico, postmoderno, volutamente artificiale ed asettico, essenziale come il silenzio ed il grigiore che lo caratterizza, a metà tra fantascienza ed ipertecnologia, medicina e filosofia.
Jeffrey Lockhart, l' io narrante, è un individuo segnato e dalla vita e da quello che improvvisamente si trova ad affrontare. Il padre Ross, magnate della finanza, collezionista d'arte, figura controversa, con un nome falso, vuole accompagnare la seconda moglie Artis, giovane archeologa affetta da una grave malattia invalidante, nel mondo ipertecnologico di Convergence, azienda da lui stesso finanziata con sede in Kazakistan, per un addio che la sottoporrà ad un esperimento di criogenetica, ad una morte per induzione chimica in attesa di tornare in vita quando l' umanità avrà compiuto dei progressi medico-scientifici tali da permetterle una esistenza sana e forse l' eternità.
Ross vorrebbe seguirla, sottoponendosi a sua volta ad un suicidio assistito, Jeffrey è contrario, vede il fine nell' oggi, e la vita scorrere nella propria relatività ed imperfezione, ma parte comunque per un viaggio della conoscenza ( altrui e propria ) immergendosi nella virtualità di quella terra di mezzo, anticamera del futuro e dell' ignoto.
Gran parte della narrazione spazia nella pseudo-realtà del mondo di Convergence, tra architettura minimale, figure misteriose, manichini senza volto, sentinelle, monaci, cunicoli, innumerevoli porte, nessuna finestra, catacombe, schermi proiettanti immagini di morte, guerre, carestie, migrazioni, catastrofi naturali, conversazioni negate, monologhi estenuanti.
È un mondo di scienziati e predicatori ( i fratelli Stenmark ), futurologi,( Ben Ezra ) in bilico tra scienza e religione, alla ricerca del significato di una vita degna di essere vissuta nella propria finitezza e della possibile rinascita corporale e spirituale post mortem.
Si parla di metempsicosi, di trascendenza, ma anche di conservazione dei corpi, di morte indotta, crioconservazione, nanotecnologia, temi già trattati in passato ed oggi realtà, di un pugno di miliardari che autofinanziano un desiderio di fuga da un mondo segnato, cruento, destinato ad estinguersi, in nome di una purezza ideale ed estetica e di un desiderio di perfezione ed eternità.
Jeffrey ( e l' autore ) critica procedimenti che ritiene guidati da delirio collettivo, superstizione, arroganza ed autoinganno.
Il suo mondo imperfetto è agli antipodi di un futuro ( quello di Ross ed Artis ) tutto da scrivere, che fugge una fine inevitabile, ormai alle porte.
La sua è stata una infanzia incompiuta, sofferta, in una famiglia disgregata, con una madre ( Madeline ) ripetitiva, ritualistica, spesso silente, con cui condividere il tempo ed un padre assente, egocentrico, che ha sempre mirato a qualcosa di grande, stupefacente, immortale.
Jeffrey lentamente rivede la propria vita, quella iniziale zoppia per rendersi visibile agli altri, o solo a se stesso, intimidito e schifiltoso verso le case altrui e quelle vite caratterizzate da un' intimità un poco appiccicosa, con il desiderio di nascondersi, fuggire, finendo per scegliere, poi, la strada che piu' gli si addiceva, quei lavori che lo guardavano dai monitor di una scrivania, la denominazione dei quali bastava a se stesso, drogato di tecnologia.
E poi la necessità di una precarietà protratta ed il logorio di un universo sentimentale a sua volta frammentato e inconcludente.
Scopre, in questo iter temporale, che la vita è fatta di momenti ordinari ed inspirando la pioviggine dei dettagli del passato sa finalmente chi è, in una esperienza filtrata dal tempo che non appartiene a nessun altro, se non a se stesso. E Madeline era un luogo dove tornare a sentirsi sicuro, la normalità.
Convergenze per contro è una sorta di poesia dell' illusione che poco a che fare con il reale, forse è solo un inganno, una setta, li' ogni cosa succede da qualche altra parte, l' eternità è un concetto poco umano, quel " morire per vivere, poi, in eterno ".
Moriremo prematuramente, saremo conservati in un capsula negli abissi della terra, una vita sospesa, in attesa, manichinizzati, controllati, subordinati, quando e come ritorneremo, affrancati dal nostro corpo, sotto quali spoglie, con quali ricordi, certezze, speranze?
Ha la presunzione di isolarci, di guardarci dentro, in una dimensione atemporale, svuotando la mente per ascoltare il brusio del mondo, trovare l' assoluto,scevro da finitezza, materialismo, e' pura filosofia, conoscenza di se', in attesa di una cyber-resurrezione, parlando una neo-lingua purificata.
Ma Cio' che non sappiamo ci rende umani, il tempo in cui non siamo vivi e' infinito, ciò che non ha inizio non ha neanche una fine e tra quelle stanze asettiche, fredde, ipnotiche, si ha la sensazione di essere in un non luogo.
Ormai la tecnologia è un mostro smisurato, divenuta una forza della natura che non siamo più in grado di controllare, e ciò che è utilitario diventa totalitario.
La vita si alimenta di imprevisti, ripetizioni, gestualità, semplici oggetti, acquisisce un senso nella propria fine, e lo sguardo su queste imperfezioni genera amore.
La seconda parte del romanzo è ambientata in una New York senza volto, rumorosa, variopinta, affollata, multilingue, e li' Jeffrey rivive il proprio viaggio, ricorda, analizza, ricerca, ritorna al passato, si riappropria di una percezione mancata. Ha una relazione con Emma, psicologa dell' infanzia, ed è una vicinanza che mantiene la propria distanza, e diventerà lontananza, inevitabilmente, per l' incapacità di svelare la propria storia ed essenza e per un ritorno obbligato nel mondo di Convergence, in un viaggio di completamento.
Finiamo con il chiederci se il desiderio di possedere la fine del mondo abbia un senso ed un fine.
La risposta è ovvia e sta in quell' essere piacevolmente avvolti dalle grida di stupore e di meraviglia di un bambino, pur menomato e sofferente, di fronte all' inimitabile spettacolo cromatico della luce solare che, talvolta, si irradia tra le rumorose strade di New York.
In fondo questo è il semplice senso dell' esistere, il vivere e il morire, nella finitezza e nell' imperfezione di ogni istante.
Romanzo che affronta temi di attualità, noti da tempo, e lo fa adeguando il linguaggio alla narrazione, alternando descrizioni glaciali e postmoderne a momenti di commozione e profondo intimismo, affrescando mirabilmente il nostro mondo, intrecciando e confondendo trama e personaggi, tempi e luoghi, interiorità ed esteriorità, in quel caos che è la follia di un futuro già programmato ma inverosimile, in cui il progresso scientifico e tecnologico a fini umanitari è confuso e sostituito dall' afinalistico senso di onnipotenza ed eternità dato dal potere e dal denaro.
Buona lettura.
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Una boccata d'ossigeno
L’ultimo lavoro di Stefano Benni è una conferma dello spessore intellettuale di questo narratore comico dotato di potente immaginazione e votato alla filosofia. È la conferma di quanto l’immaginazione possa essere una risorsa alla quale attingere per sopravvivere nel quotidiano. È lo sguardo attento di un uomo verso le mostruosità dilaganti della e nella nostra epoca. Uno sguardo ironico, divertito, divertente.
Due ragazzi, Pin e Alina, due mondi contrapposti che entrano in contatto attraverso una bottiglia magica, mescolandosi, confondendosi, sintetizzando sogno e realtà. Lui ha un babbo “Jep” e vive nel Diquadanoy; lei soggiorna, rapita , nel college di rieducazione “Hapatia”, nel mitico mondo Diladalmar. Il suo compagno è il gatto Wifi, la sua specialità è entrare in altri mondi (non per niente ambisce a diventare scrittrice). Riconosciuti? Moderni Pinocchio e Alice nel paese delle meraviglie.
L’input narrativo è una richiesta d’aiuto attraverso il classico messaggio nella bottiglia. Il resto non lo posso raccontare. Preparatevi ad un viaggio, ad un’avventura, ad un continuo rispecchiamento delle aberrazioni del mondo contemporaneo. Gusterete la fine e intelligente parodia di un mondo ipercinetico, supertecnologico, aperto alla musica di Justin Biberon (sic), teso a distruggere i sogni e la fantasia. Rimescolate le vostre letture, preparativi a ritrovare Jules Verne e i suoi mondi immaginari, Pinocchio e Alice, Raperonzolo, Edgar Alla Poe, Zanna Bianca, Moby Dick e tanti altri. Vi sono anche la cucina crudelista e il Monster Chef e pure la biblioteca borgesiana!
Non mi resta che augurarvi un buon viaggio nel regno della fantasia impreziosito dalle illustrazioni di Luca Ralli e Tambe , un bel corredo. Ho goduto di una lettura bella, fresca, divertente e dal linguaggio arguto.
Consigliato a tutti.
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Dentro il tunnel dell'adolescenza
Il tema dell'adolescenza è da sempre oggetto di molteplici discussioni dalle tinte più disparate, psicologiche ma anche sociali con inclinazioni politiche, filosofiche e immancabilmente religiose.
Argomento focale di diverse opere, siano esse romanzi, film o trattati di carattere scientifico-formativo, desta un interesse mai calante nelle varie generazioni forse in virtù della sua immutabilità, come se le sue peculiarità fossero immuni al passare del tempo, al progresso tecnologico e all'evolversi della società.
L'adolescenza rimane lì, sempre al suo posto, un tunnel nel percorso di vita individuale che tutti dovranno percorrere, chi magari imboccando l'uscita agevolmente, chi invece smarrendosi nei suoi mille anfratti, nelle deviazioni improvvise che conducono in una spirale labirintica di autodistruzione.
"Come se le cose potessero andare in una direzione sola, e gli anni ti conducessero fino alla stanza in fondo al corridoio in cui ti aspetta la tua inevitabile identità: embrionale, pronta a rivelartisi. Che tristezza rendersi conto che a volte laggiù non ci si arriva proprio. Che a volte si vive tutta la vita svolazzando qua e là a pelo d'acqua mentre gli anni passano, senza essere baciati da quella fortuna."
E non vi nascondo che leggere questo libro ora, a 44 anni, è stato molto utile perchè mi ha offerto una possibilità unica: ha rallentato le lancette del mio orologio, mi ha aiutato a svincolarmi dal ritmo frenetico con cui ci muoviamo ogni giorno, presi da mille impegni e mille difficoltà, concedendomi la possibilità di riflettere su quella che è stata la mia adolescenza e, soprattutto, quella che sarà ora l'adolescenza di mia figlia. Un ritorno al passato per poter meglio affrontare l'immediato futuro.
Credo sia proprio questo il punto di forza del romanzo di Emma Cline, non la trama, non la scabrosità della vicenda descritta, peraltro ispirata ad un fatto realmente accaduto, ma i pensieri che passano per la testa di Evie, la protagonista quattordicenne, e che non muoiono tra le pagine del libro nell'indifferenza di chi legge ma, al contrario, contagiano e scuotono il lettore inducendolo alla riflessione.
Complice una pregiata opera di traduzione, questo libro sembra un bluff ma nell'accezione positiva del termine: nonostante il titolo e la copertina ammiccante, che riporta alla memoria i pruriti adolescenziali della birbantella Melissa P., nonostante sia la prima esperienza letteraria dell'autrice, peraltro giovanissima, il romanzo di Emma Cline si distingue per la qualità della prosa e dei contenuti, espressi con uno stile di scrittura maturo, arricchito da metafore originali ed estremamente efficaci nella rappresentazione della realtà emotiva della protagonista.
Durante la lettura, ho più volte temuto che l'adolescenza di Evie si riducesse e degenerasse in una descrizione dalle sfumature erotiche dei sogni, dei turbamenti tipici della sua età.
Timore che si è rivelato infondato perchè l'autrice è stata ben attenta nel riportare, quasi come in un diario personale, le sensazioni vissute giorno per giorno dalla protagonista ed elaborate dal suo inconscio, dandoci poi evidenza delle loro conseguenze sulla personalità di Evie, come hanno influenzato le sue scelte ed il suo comportamento.
E il sesso, la scoperta del sesso, è sicuramente uno degli aspetti importanti ed imprescindibili del periodo adolescenziale, sarebbe sciocco volerlo ignorare; ma i primi, incerti, confusi, improvvisi impulsi sessuali di Evie non si assoggettano alle regole dettate dal dio commercio alimentando pagine di esplicito erotismo.
Bensì il sesso viene trattato con la stessa lucida profondità di analisi adottata per passare al setaccio, sotto una lente di ingrandimento, gli altri scompigli tipici di una ragazza nel pieno del trambusto adolescenziale: la sensazione di inadeguatezza, di inferiorità, di invisibilità sociale, come se si diventasse trasparenti agli occhi del mondo, e dei ragazzi soprattutto, la cui attenzione è desiderata più per una sorta di egoistica rivalsa che per reale bisogno affettivo:
"A quell'età, il desiderio era spesso un atto di volontà. Uno sforzo tremendo per smussare gli spigoli più ruvidi e deludenti dei ragazzi dandogli la forma di persone che potevamo amare. A distanza di anni avrei capito questo: quant'era impersonale e disorientato il nostro amore, che mandava segnali in tutto l'universo sperando di trovare qualcuno che desse accoglienza e forma ai nostri desideri."
E cresce così il disagio interiore, un vuoto dell'anima che si allarga progressivamente e che non trova argini in ciò che sino a qualche anno prima era stato un punto fermo, una certezza: la famiglia, la serenità della casa, sgretolata dopo il divorzio dei genitori e la madre troppo impegnata nel tentativo di ricostruirsi una propria vita per accorgersi dei cambiamenti nella vita della figlia, e l'amicizia con Connie, che sembrava eterna, immortale, sempre presente, giorni interi trascorsi insieme, nottate accovacciate sotto le coperte, crollando poi rovinosamente alla notizia del trasferimento in un'altra città per proseguire gli studi.
Si sente sola Evie, e non trova rifugio neanche in se stessa, perchè lei non sopporta quella situazione, non vuole essere emarginata, vuole sentirsi viva, vuole essere amata, non vuole soccombere alla monotonia e all'anonimato di un'esistenza ai confini del mondo che conta, gente che ha successo, ricchezza e fama, quello stesso mondo in cui anche sua nonna era riuscita a conquistarsi un posto riservato grazie alla sua carriera di attrice.
"Mia madre sarebbe stata via tutto il giorno, l'alcol mi aiutava a stenografare la mia solitudine. Era strano che ci volesse così poco per provare sensazioni diverse, che ci fosse un metodo per ammorbidire la massa incrostata della mia tristezza."
E quando un giorno per caso intravede lei, Suzanne, alla guida del suo branco di ragazze, ne rimane subito affascinata: il suo carisma, il suo incedere spavaldo e sbarazzino, quasi ferino, trasuda sicurezza, ansia di distruggere ciò che sembra permanente, e disprezzo verso i comuni mortali, essere insignificanti uniformati da una vita piatta e inutile, pura sopravvivenza.
L'attrazione è gravitazionale, Suzanne è il sole che avvolge Evie nella sua orbita trascinandola via dal buco nero in cui si sentiva imprigionata.
Suzanne è la risposta a tutte le sue domande, è il suo modello, è la prova vivente che il suo sogno di donna non sia solo utopia.
Tutto il resto non conta: poco importa se Suzanne vive insieme ad altri ragazzi e ragazze in un ranch ai margini della città sotto la guida di un certo Russell, aspirante cantante; poco importa se si nutrono con gli avanzi recuperati dalla spazzatura o da quanto riescono a rubare nei supermercati, se dormono ammucchiati in stanze fatiscenti o sul prato intorno alla baracca dopo essersi riempiti di alcol e droghe.
Poco importa se Russell costringerà Evie ad una sorta di iniziazione sessuale, poco importa se verrà donata da Russell come fosse un giocattolo all'amico Mitch in cambio di un favore, un contratto con una casa discografica.
E poco importa se Russell, in preda alla rabbia per il favore non ricevuto, diventerà il mandante dell'omicidio di Mitch nella sua residenza che si concluderà invece con lo sterminio assurdo e sanguinario di persone innocenti.
Tutto ciò non conta agli occhi di Evie, ormai incapaci di distinguere il bene dal male; gli stessi concetti di bene e male perdono significato nel suo mondo il cui nucleo è divenuto Suzanne.
"Suzanne e le altre ragazze non erano più in grado di elaborare certi giudizi, il muscolo inutilizzato del loro ego era diventato flaccido ed inutile. Era passato un sacco di tempo dall'ultima volta che avevano occupato un mondo in cui il bene ed il male esistevano in senso reale. Qualunque istinto avessero mai avuto - una debole fitta allo stomaco, un rodimento di ansia - era diventato impossibile da ascoltare. Non che stessero cadendo da chissà quali altezze: sapevo che il semplice fatto di essere una ragazza a questo mondo ti riduceva la capacità di credere in te stessa. I sentimenti sembravano qualcosa di totalmente inaffidabile, come balbettii sconnessi ricavati da una tavoletta per le sedute spiritiche."
Ho volontariamente omesso di specificare che Evie ha 14 anni nel 1969 e vive in California: il luogo ed il tempo sono ininfluenti, a mio parere.
Evie potrebbe avere 14 anni ora, e potrebbe essere mia figlia; è una ragazza che rivive in tutte "Le ragazze", come si evince dalla scelta appropriata del plurale nel titolo del libro.
Tanto più in una società come quella attuale, globalizzata ed esposta nella vetrina di Facebook, in cui l'apparire, l'emergere e il prevaricare sugli altri diventa un'esigenza, come se fosse l'unico modo per acquisire una propria individualità.
Quante Suzanne ci sono oggi in giro? Quanti elementi catalizzatori, devianti per i ragazzi?
E noi, genitori, abbiamo mai preso coscienza di ciò? Trainati dalla frenesia della vita quotidiana, sollevati dalla rapida e progressiva indipendenza acquisita dai nostri ragazzi, ci siamo mai preoccupati di avvicinarci al loro mondo? Li vediamo cambiare, giorno dopo giorno, ma fino a che punto siamo certi che la nostra Evie non sia sotto la scia di una Suzanne?
Adolescenza: un problema dei ragazzi, e dei genitori dei ragazzi.
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Al ritmo malinconico dei The Fray
Bellissimo il titolo dell’ultimo romanzo di Alessandro Piperno: “Dove la storia finisce”, che altro non è che la traduzione del titolo di un brano cantato da Isaac Slade, musicista della band dal suggestivo nome The Fray, che in italiano evoca il significato di rissa, zuffa, litigio. Come sempre il titolo di un’opera ci indirizza verso una chiave di lettura che forse più ci avvicina a ciò che l’autore ha voluto rappresentare. La canzone, infatti, esprime la sofferenza e la difficoltà di coppie che non riescono a conciliare le loro esistenze. Ma questo è solo uno dei temi affrontati in questo bel libro.
È il ritorno, dopo sedici anni di assenza, di Matteo, uomo volubile e superficiale al punto da contrarre più matrimoni, non tutti legalmente riconosciuti, a scatenare una crisi profonda nelle famiglie che aveva abbandonato e che avevano faticosamente trovato un equilibrio. Sono i due figli soprattutto a essere sconvolti da questa intrusione paterna, al punto che anche il loro rapporto con i rispettivi compagni viene rimesso in discussione. Tutto ciò in un ambiente alto-borghese di cultura ebraica.
Ogni personaggio si trova a fare i conti con una parte di sé rimasta a lungo repressa e nascosta. Ed è Martina quella che forse soffre di più, perché non riesce ad accettarsi per quello che è, non riesce ad affrontare la sua latente diversità.
La storia è raccontata con quel realismo che deriva da una conoscenza approfondita degli ambienti e delle situazioni. I personaggi, le famiglie sono le stesse che costituiscono una parte rilevante della nostra società. I fatti narrati assumono un carattere di normalità, se considerati in relazione agli eventi ai quali assistiamo oggi. Dunque la drammaticità delle relazioni, il logorio dei rapporti affettivi, trovano una soluzione e una fine solo quando interviene la Storia, quella con la S maiuscola, la Storia di tutti, non più del singolo individuo. È infatti nel tragico evento descritto nelle ultime pagine del romanzo, che il dramma del singolo viene superato dal dramma collettivo. Quasi a ricordare che ciascun individuo vive nella Storia, dalla quale non può né deve prescindere.
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Ei fu Bisanzio
Citta’ dalla storia millenaria Costantinopoli, ultimo avamposto romano alle porte dell’Oriente, affascinate ed amena, controversa , bellissima e decadente, ancora oggi – chissa’ per quanto – coabitata da Occidente ed Oriente in un connubio forse inquieto ma eppure plausibile.
In turco si definisce hüzün, e’ quel velo malinconico che ammanta la citta’, la grandiosita’ di un passato di cose perdute che non torneranno. Il canto triste ed esotico della musica tradizionale, una scenografica mattina di nubi e pioggia sul Bosforo mentre i pescatori seri e concentrati attendono protetti da una cerata. Ed i gabbiani si alzano in volo sul mare, bianchi e grigi come la massa acquosa e fluttuante di sotto ed il cielo umido e minaccioso lassu’, indifferenti allo spettacolare profilo di Santa Sofia.
Sono emozioni avvolte da un’aura di mistero che colei che nacque Bisanzio stringe ancora oggi al petto, nonostante tutto.
“ I segreti di Istanbul” e’ un prezioso contributo offerto da Corrado Augias alla citta’ e a tutti coloro che la vogliano visitare, o l’abbiano gia’ fatto. Lontano dall’asciutto incedere di una guida turistica, meno rigido della pura saggistica, il volume offre una ricostruzione storica fitta ma non lineare ed una serie di aneddoti curiosi o leggendari che contribuiscono a rendere la meta piu’ affascinante ed al tempo stesso a chiarircene le origini . Si comincia da Viale dell’Indipendenza, animato e moderno, per poi soffermarsi a lungo nella Cattedrale di Santa Sofia, il maestoso emblema della citta’ vecchia. L’ippodromo, oggi cosi’ immenso e vuoto, eppure testimone di un affondo nell’antico Impero Romano.
Con l’avvento della cultura ottomana si passa ad un nuovo capitolo, dove Augias affronta il potere dei sultani, ma anche i loro punti deboli. Immancabili le pagine dedicate all’harem, epicentro erotico di ogni mente maschile tra schiave, cortigiane e predilette .
La nascita del Cristianesimo, che proprio qui a Nicea, non molto distante da Istanbul, codifico’ la sua dottrina con la prima stesura della professione di fede cristiana, il Credo.
Nell’antica societa’ maschilista spiccarono alcune donne estremamente potenti, l’autore non puo’ non argomentarle : Teodora la misteriosa, che dalla miseria popolare ascese al trono di Giustiniano. Due secoli dopo sara’ la volta di Irene la sanguinaria, che nel novembre del 786 venne prelevata da un vascello sulla sponda anatolica del Bosforo per sposare alcuni giorni dopo, nel piu’ grande sfarzo, l’erede al trono di Bisanzio. Venendo a tempi piu’ recenti, come non soffermarsi sull’Orient Express e le tante curiosita’ di colui che fu icona del lusso e dei primi grandi spostamenti di lungo raggio verso luoghi inesplorati, seducenti e fiabeschi.
Il percorso e’ curioso ed amabile, approfondito e ben scritto fino all’ultimo capitolo : Tramonto sul Bosforo.
E si torna in copertina, al cielo rosso di sera, con quel profilo nero che si staglia all’orizzonte.
Buona lettura.
La Tragedia
Sono passati quattro anni dai fatti del precedente romanzo, “La verità sul caso Harry Quebert”, in cui Marcus Goldman, astro nascente della letteratura americana, si era scoperto detective improvvisato in un caso di omicidio che aveva coinvolto un suo professore universitario nonché maestro di vita.
Joel Dicker rispolvera il personaggio principale del fortunato esordio che lo ha fatto conoscere al grande pubblico e anche stavolta, ne “Il libro dei Baltimore”, emerge la figura del protagonista-scrittore capace di portare alla luce vecchie verità e segreti inconfessabili, in una sorta di catarsi liberatoria.
Al centro della lente di ingrandimento c’è una grande famiglia, quella dei Goldman.
Ci sono i Goldman di Montclair, nel New Jersey, di cui fanno parte Marcus e i propri genitori. Una tranquilla famiglia della classe media.
E poi i Goldman di Baltimore, capitanati dallo zio avvocato, dalla zia dottoressa e dai cugini di Marcus, Hillel e Woody. Quattro elementi che sembrano appartenere ad un’altra specie. Disinvolti, venerati, facoltosi.
La vicenda narrata inizia nel 2004, quando lo zio Saul chiama Marcus pregandolo di recarsi urgentemente a Baltimore. Manca un mese alla cosiddetta “Tragedia”.
Otto anni dopo, nel 2012, Marcus decide di raccontare la storia della propria famiglia tra gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e delle vacanze trascorse con i cugini nelle numerose e sfarzose residenze dei Goldman di Baltimore. Fino al giorno della “Tragedia”.
Il romanzo ha molti punti di contatto con la precedente opera. Innanzitutto il medesimo e collaudato espediente che divide la narrazione tra passato e presente, come in un gioco a livelli in cui per muoversi verso le tappe successive, verso il futuro, è necessario aver completato i passaggi precedenti.
Rimane, come già anticipato, la figura dello scrittore che indaga e scopre la verità. Cambia totalmente la materia di analisi. Il primo romanzo, un giallo in piena regola, affrontava la risoluzione di un omicidio. Questo romanzo non è un poliziesco, ma una saga familiare lunga più di venti anni.
Ad una buona prosa e una capacità indubbia di intrattenere il lettore si contrappongono dialoghi non sempre all’altezza, esageratamente carichi di emozioni e sentimenti forzati o pronunciati da personaggi vagamente stereotipati. Difetti che, in minor parte, affliggevano anche “La verità sul caso Harry Quebert”.
Che un ramo familiare, i Goldman di Baltimore, sia composto da un famoso avvocato, da una stimata dottoressa, da un ragazzino che a dieci anni tiene testa a presidi scolastici e insegnanti dimostrando profonde conoscenze storiche e politiche, dall’altro figlio dotato di un fisico tale da poter eccellere in qualsiasi sport, i quali vanno ad aggiungersi ad un cugino divenuto scrittore affermato e ad una celebre cantante, mi è parso fin troppo eccessivo. Inoltre le tematiche affrontate sono talmente tante che il testo, in alcuni punti, finisce per ricordare una soap opera pomeridiana.
Al netto di questi evidenti limiti, e di un intreccio meno interessante e accattivante del precedente, il romanzo raggiunge una risicata sufficienza parlando della bellezza fragile dell’adolescenza, di quelle promesse di tenera fedeltà che facciamo da ragazzini e che poi a volte scopriamo di non poter mantenere, dei mali che si possono annidare nelle famiglie quando l’invidia e i sotterfugi prendono il sopravvento. E se ho letto quasi 600 pagine in pochi giorni, evidentemente il libro non manca di scorrevolezza e buona gestione del ritmo narrativo.
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UN VIAGGIO VERSO LA VITA
“Ci proteggerà la neve” è il nuovo romanzo di Ruta Sepetys che con la sua scrittura e la sua storia mi ha emozionato, un racconto pieno di coraggio e di speranza.
Siamo nel 1945 e la Prussia è invasa dalla Russia, nel libro le voci narranti e così i protagonisti sono quattro: Joana, giovane lituana scappata dal proprio paese e da una colpa che non sa dimenticare, Florian un misterioso ragazzo che ha una missione da compiere, Emilia giovane polacca incinta e Alfred ufficiale tedesco che crede ancora nella Guerra e negli ideali tedeschi.
Mano a mano che la storia va avanti capiamo i segreti dei vari personaggi, l’autrice è brava a svelare a poco a poco le loro vita e a tenere il lettore con il fiato sospeso.
Joana, Florian e Emilia si incontrano nel corso della storia e il loro unico obiettivo è quello d’imbarcarsi in una nave che attraverso il Mar Baltico e lì porti nella Germania orientale in una zona non occupata, questa nave rappresenta la libertà, una via di fuga verso la salvezza.
A viaggiare con loro ci sono anche una donna gigante, un calzolaio, una ragazza cieca e un bambino di sei anni, tutto il gruppo conta su Joana e sul suo aiuto come infermiera ma anche sul suo carisma nel non arrendersi mai.
Alfred invece è un ragazzo tedesco di soli diciassette anni che crede al Fuhrer e alla sua pazzia, non ha nessun dubbio e cerca di servire la patria come un bravo soldato, anche se lui nasconde un passato che non ci aspettiamo.
Ogni personaggio ha la propria personalità che esce nel corso della storia, chi sembra più fragile, chi poi invece si scopre forte ma nonostante le differenze che ci possono essere, tutti i profughi in fuga cercano di farsi coraggio e forza tra di loro per cercare di sopravvivere.
L’autrice è riuscita a descrivere in maniera vivida e molto realista l’enorme disagio e difficoltà che i nostri ”profughi” hanno incontrato nel loro percorso per la salvezza, affrontando, il freddo pungente, l’inverno, le temperature sotto lo zero,la neve, il poco cibo e le ferite.
Non so immaginare cosa abbiano provato le persone durante la guerra, quanta paura avranno avuto di non riuscire a sopravvivere e se credevano davvero che un giorno sarebbe tornata la pace.
In quel periodo la Prussia però si trovava con un duplice pericolo: da una parte c’era i tedeschi che stavano avanzando e che imprigionavano le persone nei ghetti o nei campi di concentramento e dall’altra i sovietici che mandavano la gente nei gulag o in Siberia.
L’unico modo per salvarsi era attraversare il mare.
Come accade oggi non riesco a pensare a quanta paura possano avere i profughi ad attraversare il mare e il nulla davanti a loro, non avendo la certezza di riuscire ad arrivare a terraferma.
La storia è interessante, piena di segreti e di misteri sui protagonisti oltre che molto appassionante, i capitoli brevi aiutano moltissimo a rendere scorrevole la lettura, che risulta essere semplice ma piena di descrizioni accurate e precise.
Nonostante il libro sia romanzato, si base su alcuni fatti realmente accaduti e forse poco conosciuti, la nave su cui i protagonisti salgono e dove Alfred è arruolato è la “Wilhelm Gustloff”, a molti non dirà nulla questo nome, ma quando questa affonda nel gennaio del 1945 porta con sé in mare circa 15000 persone e la maggior parte non riuscirà a sopravvivere.
E’ forse uno dei naufragi più catastrofici della storia e furono tre siluri russi ad affondarla.
La “Wilhelm Gustloff”, fa parte come altre navi, “dell’Operazione Annibale” che aveva lo scopo di salvare migliaia di rifugiati, soldati e feriti dall’attacco dell’esercito russo.
Una guerra senza esclusione di colpi, piena di sofferenza e di devastazioni che non lascia spazio a nulla, atroce, crudele e senza nessun senso.
Joana, Florian, Emilia e Alfred hanno un loro passato, dei ricordi, dei rimpianti e delle persone care che hanno lasciato o che hanno dovuto abbandonare e sperano un giorno di poterle rivedere e di ritornare nelle loro case anche se in realtà queste forse non esisteranno più.
Questo romanzo mi ha spiazzato, devastato, incuriosito e soprattutto emozionato, una storia che ho sentito veritiera fin dall’inizio e soprattutto piena di speranza verso il futuro, verso una nuova vita.
La trama non mi aveva coinvolto molto pensavo che la storia prendesse un’altra via invece sono stata piacevolmente sorpresa, quello che mi ha colpito di più è la scrittura dell’autrice fluida, scorrevole e con uno stile unico nel descrivere la storia e i personaggi.
Questo libro è un omaggio a tutti i profughi e le vittime di quel naufragio, è una testimonianza per ridare loro la giusta importanza e dignità e per non dimenticare mai.
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Connessioni impreviste
““Perché la meraviglia è imperfetta?” Lui la fissa, in attesa. Lei si chiede se dovrebbe cercare una risposta accurata, o cavarsela con una battuta; alla fine parla senza riflettere.“Perché non dura””.
Siamo in Provenza, l’autunno incalza e Milena Migliari non demorde e continua a preparare i suoi gelati, la stagione turistica è finita, ma lei è sempre lì nel suo laboratorio della gelateria “La Merveille Imparfaite”, creare nuovi gusti è una necessità, non può farne a meno. Un blackout mette a rischio il suo lavoro quotidiano, quando la disperazione sta per coglierla, arriva un’ordinazione imprevista e lei parte con il suo furgoncino.
Il gelato va consegnato in una villa di proprietà di Nick Cruickshank, la rockstar dei Bebonkers.
Milena è una donna perfezionista, istintiva, vive in un mondo fuori dalla realtà e la sua passione sono i gelati, non quelli classici ma quelli creati di volta in volta da lei, al punto che lo stesso gusto la volta dopo non può avere il solito sapore. La sua vita è a un bivio, la sua compagna vuole avere un bambino da lei.
Nick è paranoico, bisognoso di affetto e di attenzione, è alla continua ricerca di se e alla soglia del suo terzo matrimonio e di un concerto con la sua band, sono molte le domande che si pone.
Con le sue 366 pagine “L’imperfetta meraviglia” di Andrea De Carlo racconta, nell’arco di pochi giorni, la storia dell’imperfezione, di come dal passato e dai nostri errori possiamo imparare molto e come un incontro può sconvolgere le nostre esistenze.
Di come possiamo essere cosi simili e così “sbagliati”. Di come molte volte è la vita che decide per noi, ma noi possiamo metterci del nostro perché “La vita è troppo breve per sprecarla a realizzare sogni altrui”.
Un libro che va assaporato e ascoltato, fra una cucchiaia di gelato e un accordo rock non sarà semplice capire come mai questa storia che sembra dire così poco, in realtà racconta tanto. Sembra banale, prevedibile e lenta ma la mente non se ne stacca, non molla, torna sempre al libro e quando sei quasi all’arrivo, vorresti fermarti per non farla terminare, per poterla gustare ancora un po’.
Non conosco De Carlo come scrittore ma ho letto che questo libro è un po’ fuori dal suo genere. Non potendo fare un confronto con gli altri posso dire che con questo mi ha conquistata, mi ha tenuta incollata alle pagine e seppur convinta che il contenuto non sia di altissimo livello, le emozioni che ne sono scaturite sono invece molto intense.
““Ecco la meraviglia imperfetta”. Lui sorride ancora. “Al grado più alto di perfezione che l’imperfezione potrebbe mai raggiungere””.
Buona lettura!
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Colpa e libertà
Andrea Molesini esordisce nel 2010 con “Non tutti i bastardi sono di Vienna”.
Da qualche settimana è stato pubblicato un nuovo romanzo che sembra voler percorrere ancora una volta il sentiero della Storia utilizzando un pretesto narrativo per affrontare un viaggio a ritroso nel tempo e nella coscienza di un uomo che alle soglie degli ottant'anni tira le somme di una vita.
Quando le pagine scorrono e manca il definirsi di un costrutto narrativo solido, sorge il dubbio di una carenza di base oppure si evidenzia la fretta di mandare in stampa un lavoro che non nasce da una vena genuina e ben congegnata.
La narrazione parte lentamente e fatica a decollare, la figura del maturo protagonista cela un segreto ed un passato complicato, cela una storia da raccontare e da comprendere.
In questo romanzo si avverte l'intento dell'autore di sondare in maniera più decisa l'aspetto psicologico rispetto a quello storico.
L'approfondimento storico è totalmente assente, ma ciò non costituirebbe un pecca se il fulcro fosse sostenuto da una narrazione corposa , definita e viva.
Il romanzo si propone inoltre di intrecciare due piani temporali e due anime, una di ieri ed una di oggi, un uomo protagonista di un'intervista ed uno scrittore che vuole conoscere un uomo e scrivere di lui. Da qui nascono due storie, due sentieri di vita, o meglio di tutto ciò leggiamo solamente un timido abbozzo.
Se “La solititudiine dell'assassino” vuole essere un romanzo sulla colpa, uno sentimenti più affilati e amari, possiamo dire che non riesce a farla vivere e toccare al lettore.
Se vuole cantare la libertà, le sue forme ed il suo agognato raggiungimento, non riesce a darne la misura.
La storia del protagonista, l'anziano Carlo, porta con sé ombre e misteri, un uomo che ha scontato per decenni una pena chiuso tra quattro pareti spoglie di una cella; eppoi in piena senilità arriva la libertà, arriva una persona che vuole ascoltarlo e capire chi sia.
Consapevoli che non tutte le opere possiedono le stesse caratteristiche e lo stesso vigore narrativo, ci auguriamo di tornare a leggere un prossimo romanzo dell'autore.
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Amelia Sybil Mel e il fascino inquietante di Migue
Attraverso tre personaggi femminili, Marcela Serrano affronta con il suo ultimo romanzo “Il giardino di Amelia” temi molto interessanti, alcuni di carattere sociale, altri di interesse politico, senza tralasciare quelli più specificamente letterari. Un intento, il suo, portato avanti con una semplicità narrativa che rende l’opera di facile lettura. Non si tratta certamente di un capolavoro, ma vale la pena considerare i punti più salienti del romanzo dai quali possono scaturire interessanti riflessioni.
La storia si dipana apparentemente intorno al personaggio di Miguel, giovane mandato al confino durante la dittatura di Pinochet per la sua attività contro il regime. In realtà intorno a lui emergono figure di donne portatrici di principi e valori che sembrano coincidere con quelli conservatori delle classi più abbienti, mentre in realtà esprimono idee solidamente sostenitrici dell’emancipazione femminile.
Amelia la signora proprietaria de La Novena, latifondo nel quale Miguel trova rifugio e ospitalità nei momenti più drammatici del suo confino, è una ammiratrice di Elizabeth Gaskell, autrice di un romanzo”Mary Barton” pubblicato nel 1848, che possiamo giustamente annoverare tra i romanzi di carattere sociale. Quello che a prima vista potrebbe sembrare un dettaglio insignificante diviene, a mio avviso, un importante spunto di riflessione. I dialoghi infatti tra Miguel e Amelia vertono spesso su questioni sociali, sulla differenza di classe imperante ai tempi di Pinochet, sul conservatorismo sprezzante delle classi abbienti. Eppure Amelia si sente spiritualmente vicina a Mary Barton, le cui vicende la portano a prodigarsi per i più deboli, così come è nello stesso rapporto tra Mary e suo padre che Amelia rivede in parte la sorte toccata al suo genitore, relegato nell’angolo più remoto del suo cuore durante la sua giovinezza. E qui subentra un altro tema, affrontato nuovamente verso la fine del romanzo, e cioè il tema del perdono. “ In nome di chi o che cosa si può negare la benevolenza del perdono?”
E il perdono distinguerà Amelia, anche quando si sentirà tradita da Miguel e per causa sua subirà le torture del regime. Qui, ovviamente, si potrebbe discutere sulla opportunità di confessare un crimine o un reato commesso, se questo travolge persone innocenti. Qui la politica mostra il suo lato più feroce, poiché pone innanzi l’eventuale salvezza di molti contro la salvezza di un singolo innocente. La scelta non è solo difficile, è drammatica e coinvolge la coscienza del singolo. Difficile giudicare.
Altre due donne, Sybil, cugina di Amelia, con la quale Miguel viene a contatto dopo la sua fuga a Londra, e Mel, figlia di Amelia, subiscono il fascino inquietante e un po' ambiguo di questo giovane.
Proprio Mel, nel tentativo di capire meglio la personalità di Miguel, gli chiederà: “ Sei sempre di sinistra?” E lui: “È difficile smettere di essere di sinistra, una volta che lo sei stato. È una questione chimica, direi. Appoggio tutte le cause giuste, tutte, senza distinzioni. E mi scende una lacrima ogni volta che sento L’Internazionale, non so se mi spiego.” L’ambiguità, tuttavia, permane.
Dal punto di vista più specificamente letterario, la Serrano si affida a diverse tecniche narrative: il racconto procede in terza persona, quando l’autrice vuole mantenere le distanze dai personaggi e dare un’ illusione di imparzialità nel racconto dei fatti, mentre la narrazione di Miguel in prima persona fa sì che il linguaggio si adegui al personaggio, e faccia uso di termini anche volgari, rivelando un aspetto intimo, più nascosto del carattere. Infine i fatti ci giungono filtrati attraverso gli occhi e il giudizio di Mel, della quale risalta la spiccata femminilità. Tutto ciò per offrire al lettore una narrazione quanto più imparziale, basata su diversi punti di vista.
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Alice, una di noi...
Immaginate di avere a disposizione una tavolozza di colori...
Vi siete mai chiesti che cosa possa nascere dalla fusione di giallo e rosa?
Ebbene...la risposta io ce l'ho: i libri di Alessia Gazzola con protagonista Alice Allevi!
Una sfumatura che lei ha saputo creare sapientemente mescolando una giusta dose di ingredienti gialli, ben calibrati e incastrati a dovere (sulla base di una evidente competenza tecnica in materia di medicina legale), ed una pioggerellina di gocce rosa, una sfumatura di rosa che non è né quella shokking tipica della chick lit, né quella tenue e pallida dei romanzi romantici...ma una nuance tutta sua, moderna, non stucchevole, che riflette benissimo l'incarnato di tante donne, donne che ritrovano nella protagonista un po' di se stesse, delle loro paure, della loro confusione, sogni, mancanze e ambizioni.
In questo nuovo e, pare, ultimo capitolo della serie, ci ritroviamo con Alice, la più simpatica specializzanda in Medicina legale, alle prese con un nuovo caso: quello dell'omicidio di un noto e stimatissimo psichiatra, nonché suo professore universitario.
Alice denota una grande mancanza di precisione e affidabilità, dovuta al suo essere pasticciona, distratta, un po' sognatrice, ma in compenso ha spiccate doti investigative (alimentate dalla sua grande curiosità) che mette al servizio del buon Calligaris, ispettore di polizia che, ormai, si avvale della sua perspicacia e collaborazione durante le indagini.
Anche in questo romanzo, come negli altri, la storia gialla fa da veicolo per trasportarci nel cuore di Alice, nella sua vita privata, nelle sue altalene sentimentali, sempre in bilico fra due uomini: uno dolce e attento, ma troppo innamorato del suo lavoro di reporter e della sua vita nomade (a cui proprio non riesce a rinunciare), e l'altro tremendamente attraente, passionale, libertino e troppo innamorato di se stesso.
Ma stavolta Alice dovrà scegliere, dovrà fare i conti con la chiusura di un ciclo di vita, che coincide anche con il termine della sua specializzazione: presto non sarà più "un'allieva" e dovrà imparare a guardarsi dentro e venire a patti con i suoi sentimenti, ma sopra ad ogni cosa dovrà imparare a "stare con se stessa".
La Gazzola riesce sempre a farsi leggere tutto d'un fiato, a farti sorridere, divertire ed emozionare, con una scrittura semplice, leggera, fresca e non banale.
Forse...se è vero che questo romanzo è la "conclusione" della storia di Alice...avrei voluto un finale più "finale", meno aperto...ma, nello stesso tempo, questo lasciare i contorni non definiti, mi fa ben sperare in una possibile, quanto desiderata, futura continuazione.
Io ci conto davvero!
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Un bellissimo mix fra intrighi e azione
Valerio Massimo Manfredi è uno storico, scrittore, archeologo e mille altre cose che solamente pronunciando il suo nome sembra che le sabbie dei tempi si spostino verso di me. Già famosissimo per opere come “Alexandros” (trilogia del 1998), “Le Idi di Marzo” (2008), “L'ultima Legione (2002) e “Lo scudo di Talos” (1988), anche stavolta ci presenta un libro che ci riporta al mondo degli antichi romani. Avendo già letto qualche suo romanzo (in particolare “Le Idi di Marzo” e “Lo scudo di Talos”), mi aspettavo da quest'ultima pubblicazione, Mondadori, grandi cose. E senz'altro ne sono rimasta soddisfatta.
Ritengo doveroso fare una premessa sul romanzo storico: ormai, è ben difficile leggere di veri scrittori storici, molti si proclamano tali senza esserlo nemmeno lontanamente. Quindi, lasciarsi sfuggire Teutoburgo sarebbe un gran peccato.
Il modus scrivendi di Manfredi è impeccabile, mantiene alta la tensione narrativa (tranne che per un piccolo calo fra la divisione delle due parti del libro), regala descrizioni di luoghi e oggetti (come la grandiosa descrizione dell'ara pacis) magnifiche.
La storia inizia in Germania, introducendoci nella sua natura selvaggia e presentandoci i due protagonisti: Wulf e Armin. I due sono nientemeno che i figli del re Sigmer, ma, a causa della loro curiosità, si troveranno circondati da soldati romani. Catturati, saranno usati come ostaggi ma, ben presto, il comandate della truppa romana, Tauro, darà loro una sconcertante notizia: andranno a Roma per essere educati. E così sarà.
Così, pian pian, Wulf e Armin diventeranno Arminius (diretta latinizzazione del nome) e Flavus (latinizzando da una caratteristica di Wulf, i suoi capelli biondi).
Voglio sottolineare questa parte perché trasformare il nome dei due protagonisti indiscussi è senz'altro difficile ma Manfredi se l'è cavata egregiamente, facendo corrispondere la loro romanizzazione con il conseguente cambiamento del nome.
Tornando ai nostri giovani protagonisti, ormai giunti a Roma e già stregati dalla sua bellezza, i due si troveranno a dover fronteggiare un duro addestramento con un maestro inaspettato ma saranno anche catapultati nella parte oscura della bella città. Infatti, nonostante la pax che ormai regna grazie alla potenza di Augusto, ci sono intrighi e sussurri di uomini e donne che fanno presagire un pericolo in avvicinamento. C'è una donna a Roma che ha nelle sue mani la vita e la morte della così faticosamente e sanguinosamente conquistata pax, la bella signora. Purtroppo, la signora è bella ma altamente imprudente e Arminius e Flavus saranno coinvolti nel suo intrigo, dovendo compiere una scelta non facile.
Dopo aver quasi rischiato la vita, i due fratelli avranno una lauta ricompensa ma l'onore comporta sempre un onore: saranno separati, violeranno l'antico giuramento di non lasciarsi mai. Dopo viaggi lunghissimi in paesi strabilianti come l'Egitto, dopo il ritorno in terra madre, i due fratelli, ormai cambiati, si ritroveranno e scopriranno che il vento a Roma è mutato: dopo la disgraziata morte dell'erede di Augusto, il trono imperiale è conteso fra Tiberio e Germanico e bisognerà scegliere con chi schierarsi.
Ma come dimenticare delle proprie origini? Non si può dimenticare la terra da cui si proviene, la propria patria, il proprio orgoglio. Per quanto la scelta sia dura, Arminius la fa e torna ad essere Armin, Armin il condottiero. Sarà colui che guiderà la battaglia di Teutoburgo, 9 d. C., e sconfiggerà l'esercito invincibile, fermando la strada che non finisce mai ma il prezzo da pagare c'è per ogni cosa.
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Effetto farfalla
Esiste un momento della vita, inatteso e imprevedibile, capace di travolgere in un istante l’intera esistenza e condurla fuori dai binari. Una telefonata, una parola detta troppo in fretta, un gesto d’orgoglio che, all’improvviso, diventano un fiammifero sfregato in una foresta di sterpi secchi. I sentimenti si incendiano. Le fondamenta vanno in frantumi. E nulla dopo potrà essere più come prima.
Per Raphael, famoso scrittore alle prese con un blocco di creatività e le difficoltà quotidiane di padre single, questo momento arriva una sera di fine agosto quando la curiosità di conoscere i segreti della donna che ama lo porta a una scoperta che forse non è in grado di sopportare. Una fotografia, un’immagine terrificante, che, una volta rivelata, innescherà una serie di eventi, concatenati e inarrestabili, che finiranno per travolgere tutto.
Per Marc, invece, ex-eroe della squadra antirapina parigina, quel momento è arrivato tanti anni fa, quando la morte della moglie ha mandato in pezzi la sua vita. E quando l’amico Raphael gli chiede aiuto per ritrovare la fidanzata Anna, improvvisamente scomparsa, anche il destino di Marc finirà risucchiato in questa avventura. Una rocambolesca corsa contro il tempo per ritrovare Anna e scoprire una verità sepolta nelle pieghe del passato. E capire così chi è davvero la ragazza di Brooklyn, questa figura ambigua e misteriosa che si ricomporrà nel corso nelle pagine attraverso rivelazioni, incontri e testimonianze che ogni volta rimetteranno in discussione ogni certezza.
Vorrei dire altro di questa trama ma sarebbe impossibile senza rischiare di lasciarsi sfuggire qualcosa di troppo e rovinare il piacere di scoprire da sé tutte le tracce, gli indizi e i colpi di scena che l’autore ha saputo disseminare lungo tutto il percorso.
Con “La ragazza di Brooklyn”, Guillaume Musso si riconferma un abile narratore, capace di calamitare l’attenzione dei lettori grazie ad uno stile sempre accattivante e ad una sapiente e furba miscela di ingredienti: l’azione mozzafiato, il fascino misterioso dei “cold-case”, i sentimenti, l’attualità dell’ambientazione americana alle prese con le elezioni presidenziali. Rispetto ai precedenti elaborati, ho apprezzato la scelta dell’autore di abbandonare gli elementi magici e paradossali e le note più tipicamente romantiche, muovendosi nella dimensione e nelle dinamiche di un vero e proprio thriller. Un’indagine giocata su un duplice binario. Da un lato il poliziotto, che indaga secondo i metodi tradizionali, con mestiere ed intuizione. Dall’altro lo scrittore, un uomo comune ritrovatosi per caso a rivestire i panni dell’eroe, che fa una ricerca diversa, usando la sua sensibilità artistica per leggere i sospettati, cercando la storia che si nasconde dietro ciascuno di essi. Ed è proprio questa, a mio avviso, la carta vincente del libro, riuscire a dare vita a una serie personaggi umani e credibili, capaci di stagliarsi dalle pagine e prendere voce per raccontarci i loro dubbi, le loro paure, i loro rimpianti. E, soprattutto, il punto di rottura che ha trasformato in un istante le loro vite.
Si può morire da eroi o diventare assassini, rimanere schiacciati nell’abisso del dolore o trovare la determinazione per combattere con le unghie e ricostruirsi da zero. La vita ti può condurre su qualunque binario ma la storia vale la pena di essere raccontata. E letta.
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Sandra & Julian
E’ già trascorso un anno e mezzo dagli avvenimenti di Dianium; un anno e mezzo che per Sandra è una vita intera. Il piccolo Julian, detto Janìn, figlio della protagonista e di Santi, è nato ed è un bambino allegro e spensierato che si gode la sua infanzia tra sorrisi, giovialità e dentini che spuntano. La giovane donna ha altresì rinunciato ai piercing e alla florida chioma rossa che la caratterizzava, e tornata al moro naturale, ha trovato impiego nel negozio della sorella, uno store di abiti e bigiotteria dove è socia seppur il capitale sia stato interamente versato dalla consanguinea, ed ha acquistato un appartamento in cui crescere l’infante. Julian, l’ottantenne zelante che abbiamo conosciuto né “Il profumo delle foglie di limone” non ha lasciato la Spagna, non ha fatto ritorno dalla figlia Esther, si è stabilito in pianta stabile ai “Tre ulivi” luogo ove ha avuto modo di constatare che nonostante il colpo inflitto con la sua denuncia, la Confraternita, ha ancora degli adepti, e la venerazione nei confronti de “Il macellaio di Mauthausen”, da tutti conosciuto come Bert, ne è una prova. Ma l’anziano non ha piena consapevolezza di quanto gli ingranaggi dell’organizzazione siano ancora attivi; dovrà attendere l’arrivo di Sandra, a cui nel mentre viene depositato un bigliettino nel passeggino di Janin, scritto chiaramente riferito ai fatti di Dianium, per averne contezza.
Ma non è finita qua. Tanti sono i misteri che si celano dietro le pagine di questo nuovo e tanto atteso seguito di una delle opere più discusse degli ultimi anni. Un sospetto muove infatti l’ottantenne: e se Salva, l’amico e compagno di campo di concentramento che lo aveva indotto a recarsi in Spagna per rivelare al mondo l’esistenza della colonia nazista, non fosse morto per un collasso cardiocircolatorio bensì fosse stato ucciso per quello che aveva scoperto? E perché la Confraternita ha un così forte interesse nei confronti del figlio di Sandra? Cosa stanno pianificando le nuove leve?
Con “Lo stupore di una notte di Luce” Clara Sanchez dà vita ad un degno sequel del best seller che l’ha resa nota e consacrata al pubblico letterario; un romanzo dove la trama di per sé è abbastanza semplice e lineare ma caratterizzata da quel giusto mix di mistero e curiosità che induce chi legge ad andare sempre avanti sino a scoprire di questo. Ribadisco, la narrazione non presenta particolari caratteri di novità e/o originalità, va letta con la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un elaborato che ha nei suoi intenti quello di far rivivere la magia de “Il profumo delle foglie di limone” e al tempo stesso di approfondire le vicende senza esagerare, evitando di risultare eccessivo.
Lo stile adottato è il medesimo che già chi ha letto il precedente conosce, ovvero quello dell’alternarsi della voce narrante tra Julian e Sandra. Altra peculiarità è data dal fatto che l’autrice ripercorre passo passo e sinteticamente gli avvenimenti che hanno delineato le scorse vicende talché la lettura è agevole anche per chi si avvicina per la prima volta alla saga nonché alla Sanchez.
Infine, il linguaggio è sufficientemente elaborato, non troppo prolisso e fluente. I personaggi non sono particolarmente delineati ma arrivano, risultano concreti; in particolare Julian e la sua coscienza di non avere più vent’anni. Nel complesso una piacevole lettura, non eccelsa ma adatta a chi vuole trascorrere qualche ora in compagnia di una storia che sa farsi apprezzare.
«Di fronte alla morte, [..], i desideri smettono di avere anche solo la minima importanza» p. 11
«Si sorride perché si è felici o perché qualcuno si sbaglia del tutto e ci vorrebbe un secolo per farglielo capire» p. 228
«E il fatto è che esiste un male che è peggiore del male, lo sorpassa e si addentra in una profondità senza legge. Qualcosa che assomiglia al colore nero assoluto, che non può essere attraversato da nessun tipo di raggio. Il male assoluto camuffato da bene, che continua a regnare tra di noi quando ormai crediamo che il male in sé sia sotto controllo. Sarà possibile un giorno mettervi fine una volta per tutte? Troppo complicato per questo povero vecchio, che adesso non vuole fare altro che riposare» p. 393
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Arte e Potere
“C’era un altro scienziato, suo coetaneo, di Galilei non meno perspicace.
Costui sapeva che la Terra gira,
ma aveva purtroppo famiglia.” Evtusenko
Il rumore del tempo indaga il difficile rapporto tra Arte e Potere. L’Arte, per sua natura, vorrebbe essere un unicorno libero da ogni asservimento, ma è chiaro che in certi regimi uno scrittore deve stare attento a come usa le parole e probabilmente gli sarà chiesto di partecipare alla propaganda e cose dl genere. Meno chiaro potrebbe il rapporto con il Potere quando l’Arte è la Musica, la cui lingua non è comprensibile a tutti. Eppure il Potere, soprattutto quando è arbitrio pretende di decidere che il bianco è nero riservandosi di cambiare idea. Del periodo di Stalin, delle delazioni, delle convocazioni nella grande casa già sappiamo tutto da Solgenitsin. Della difficoltà dell’artista a esprimersi e a trovare spazio ( il manicomio in cui stava il maestro) ci ha già parlato Bulgakov nel suo modo surreale, il più efficace quando la realtà diventa essa stessa surreale e impossibile. Il romanzo di Barnes racconta di un famoso musicista Dmitrij Sostakovic, diventato rappresentante di Mosca nel mondo, una persona intelligente che non amava il regime, non credeva nel regime ma che fu costretto a scendere a compromessi per vivere e per far vivere i suoi amici e famigliari perché cadere in disgrazia all’epoca non era un evento che coinvolgesse solo l’interessato. Perciò il testo è pervaso di malinconia, di senso di inutilità e di sconfitta, di quel sottile disprezzo per se stessi per i compromessi cui si è scesi, per le cose non dette, per gli amici che non si sono difesi. Ma è una discesa all’inferno perché man mano i compromessi richiesti aumentano fino a aderire (malvolentieri) sotto Chruscev, la pannocchia, al partito. Per non parlare delle dichiarazioni sottoscritte alcune delle quali tradiscono le proprie convinzioni e così via.
Interessanti le opinioni su artisti dell’epoca: Picasso che fa il rivoluzionario filo sovietico dalla poltrona di casa sua, Sartre il filosofo che offre soldi ai “convertiti”, e Nabokov (il compositore) che dall'America in cui risiede mette in difficoltà Sostakovic e cerca di fargli dichiarare quello che pensa pur sapendo cosa significhi parlare per chi sta ancora in URSS. E quell’oca di Prokof’ev di una ingenuità candida e ridicola, che mai comprese la portata della situazione, e nemmeno quello che doveva dire per far contento il Potere e che cercò sempre il compromesso.
Interessanti i mille volti del potere ambigui, accattivanti, ammiccanti, persuasivi.
Perciò il rumore del tempo non è una biografia, non è un romanzo in quanto non inventa nulla. E’ una indagine nell’animo di un uomo come tanti quanto a coraggio, non un eroe e nemmeno un cretino, un uomo che capiva la storia e le sue perversioni e storture ma non aveva la forza di affrontare la famosa pallottola nella nuca e di farla affrontare ai suoi cari. Un uomo forse debole ma non più di tanto, un uomo molto simile a noi. In più grande artista.
“Che cosa poteva contrapporre al rumore del tempo? Solo la musica che viene da dentro-la musica del nostro essere-che alcuni sanno trasformare in musica reale. E che se nei decenni a venire sarà abbastanza forte e pura e autentica da annegare il rumore del tempo, si trasformerà in mormorio della storia.
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Lo stereotipo
Ero molto curioso di leggere questo romanzo, non tanto per la trama in sé (che comunque mi aveva intrigato), ma anche per valutare la penna di un autore che ultimamente vede un gran proliferare delle proprie opere in libreria. Inoltre, appartenendo a un genere che amo molto, mi interessava conoscere uno dei suoi esponenti italiani più affermati.
Massimo Carlotto con il suo "Il turista" però, non ha soddisfatto le mie aspettative.
Con uno stile abbastanza semplice e piatto, privo della suspense che un autore di questo genere dovrebbe saper creare a occhi chiusi, ci racconta una storia abbastanza stereotipata.
"Il turista" è un serial killer psicopatico a cui piace strangolare delle belle donne, con delle belle borse, per poi provare piacere carnale profanando i ricordi che riesce a scovare tra i loro effetti personali.
Quando un giorno a Venezia sceglie la vittima sbagliata (un'agente di un'organizzazione di mercenari), si ritroverà privato della libertà e assoldato come killer a pagamento contro la propria volontà.
In contrapposizione a questa organizzazione criminale, ci sono i servizi segreti (non meglio definiti), che ingaggeranno il protagonista Pietro Sambo per dare la caccia al turista e di conseguenza alla sua banda. Pietro, ex commissario di polizia roso dai rimorsi per aver accettato in passato una tangente ed essere stato espulso dal corpo, si troverà invischiato in una faccenda molto più grande di lui, che non è in grado di gestire.
In realtà, a giudicare dalla psicologia del personaggio, ci si chiede come sia mai potuto diventare commissario.
Un po' dilettante e poco sicuro di sé.
In questa carrellata di dettagli sulla trama, siete riusciti a cogliere qualche stereotipo? Parecchi, vero? Ovviamente ci può stare il serial killer psicopatico, (in fondo sono personaggi quasi indispensabili a rendere interessanti questo tipo di storie), ma sono davvero pochi i tratti originali di questo libro, in questi senso e in vari altri.
Pecca peggiore, è il non "incitare" il lettore a proseguire, senza concludere con scene efficaci che lo inducano a voler sapere a tutti costi come va a finire.
Per un thriller questo è un peccato grave, soprattutto quando quest'ultimo ha un finale che lascia tutto in sospeso per un sequel sicuro. La sensazione che invade il lettore, purtroppo, non è l'impazienza.
"In quella parte del mondo dove erano occulte anche le coscienze, non c'erano limiti e tutto era lecito"
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Ebraismo tra vita, rimpianti e ricerca di un senso
Come si vive l' ebraismo all' interno della famiglia Bloch, da tempo in crisi, in cui tutti provano ad essere un qualcosa che diventa ricerca di una rappresentazione scenica migliore anziché di una vita migliore?
Washington, l' oggi, un nucleo famigliare composto da Jacob, scrittore di serie televisive, sempre sulla porta, ad aspettare, come guardasse se stesso scomparire e Julia, architetto che non ha mai costruito un edificio, moglie infelice, che progetta e sgretola in silenzio la quotidianita'.
Tre figli, Sam, adolescente critico e cervellotico, che trascorre in prevalenza il proprio tempo nel mondo virtuale di Other Life, Max, di un' empatia estrema ed alienazione autoimposta e Benjy, l' ingenuità' della giovinezza.
In mezzo quella cerimonia da celebrare, il Bar Mitzvah, l' arrivo dei parenti da Israele, un terribile suicidio all' interno della famiglia, la lunga e dolorosa malattia dell' amato cane Argo, un fortissimo terremoto che colpisce il Medio Oriente e la guerra dichiarata allo stato israeliano.
La corposita' del romanzo abbraccia presente e passato, in una interconnessione tra storia e sentimenti, vicende inesplorate e nebulose, sofferenze che ritornano, storie da raccontare, rimpianti, dolorose presenze, accompagnate da quella precisa identità ebraica, fatta di cultura, religione, tradizioni da rispettare e cerimonie da celebrare.
L' oggi ha l' aspetto tumefatto di una coppia in crisi, e parte da quel cellulare abbandonato, da messaggi inopportuni e scandalosi, dalla possibilità di un tradimento, solo intellettivo, che trascina dubbi e certezze da tempo consolidate e un epilogo che segna l' inizio di qualcos' altro.
Tutti, all' interno della famiglia Bloch, conoscono la verità, ma nessuno la rappresenta, la loro vita e' un insieme di non domande, di attese, di silenzi o solo di immaginazione.
Julia e Jacob si nascondono dietro il lavoro e la gestione della propria quotidianita', in una dicotomia profondita'-divertimento, pesantezza-leggerezza. Lei considera l' infanzia come periodo di formazione dell' animo, e lega i propri figli a regole integerrime, lui valuta i problemi con leggerezza, in un approccio ludico e spensierato.
Il loro matrimonio non funziona e sovente si fermano silenti, senza condivisione, esplorando ( insieme ) gli spazi circostanti ciascuno per conto proprio o cercando la felicità' che non hanno a spese della felicità di qualcun altro.
Sam sa che i genitori divorzieranno, ed ha scelto la malattia perché non conosce altro per rendersi visibile. La somma delle loro presenze diviene assenza, ma in fondo ognuno ha paura esclusivamente della propria solitudine.
Ed allora l' ebraismo come si pone all' interno di una vita e di una famiglia siffatta? Come affronta la contemporaneita' e quali risposte da' alle problematiche di un mondo iperconnesso, alla fragilita' dei sentimenti, alla vulnerabilità' dell' essere umano, ai nostri figli, ed al proprio passato tormentato, irrisolto, con la tragedia vissuta, il dolore della memoria, rigide tradizioni ancestrali e cerimonie identificative, oltre che precetti ben delimitati e delimitanti?
E poi vi è una questione geopolitica, lo stato di Israele, il " nemico " arabo alle porte, i conti con la propria storia ed identita', e quell' essere ebrei in patria ed a migliaia di chilometri di distanza.
Vi è un duplice piano, una discussione intra-famigliare che vede i " vecchi "(Irv) su posizioni ideologiche radicali, irremovibili, così come i quarantenni ebrei di Israele ( israeliani ) pronti a dare battaglia per la sopravvivenza del proprio stato,( Tamir ), mentre gli ebrei d' America hanno occhio critico nei loro confronti ed i propri figli dialogano a migliaia di chilometri di distanza con i problemi di una adolescenza che antepone la sfera privata, il se', l'autoriconoscimento, al centro del mondo, chiedendosi giustamente: " E se la guerra non finisse mai "?
Lo stato d' Israele vive di profonde contraddizioni, in una terra arida ma resa fertile, tra ricchezza, cultura, ipermodernismo, conservatorismo e posizioni filoamericane.
Tra le pagine traspare l' identità dell' autore, ma anche la denuncia di una ancestralita' che intralcia la modernità oltre che di un passato e di un presente vissuti in prevalenza tra rimpianti e senso di persecuzione.
La conservazione della memoria e del dolore deve lanciare un occhio al futuro, l' identità non puo' precludere la possibilità di vivere pienamente la propria esistenza.
E gli ebrei americani? " Farebbero qualunque cosa salvo praticare l' ebraismo per instillare nei loro figli un senso di identità ebraica. "
Sam ( da adolescente ) riflette sul passato, sui campi di sterminio, sulle atrocità della guerra, sugli odiati tedeschi, su quelle migliaia di corpi straziati le cui immagini ha visto e rivisto.
Ha la consapevolezza che " ...la sua vita e' inestricabilmente connessa a quella sofferenza in un' equazione esistenziale con le loro morti. Oppure e' un semplice sentimento, ma l' argomento in famiglia non è mai nominato, esplicitato, e' una non-conversazione. E cos' e' quel sentimento? Ha a che fare con la solitudine ( sua e altrui ), con la sofferenza ( sua e altrui ), con la vergogna ( sua e altrui ), con la paura ( sua e altrui )..."
Eppure " ... non e' davvero nessuna di queste cose ne' la loro somma. E' il sentimento di essere ebreo. Ma di che sentimento si tratta? ..."
Probabilmente è la fede, l' amore, il vivere nel mondo, il riconoscere l' unicita' della vita in quella sinagoga che è la nostra casa, circondati dalle persone che amiamo, dalla nostra famiglia, prima che sia troppo tardi ( per Jacob ) e si cerchi disperatamente ( dall' esterno ) di forzare quella porta che può essere aperta solo dall' interno, senza esserci accorti di avere vissuto lì dentro.
Il tema della famiglia, intesa in senso allargato, primeggia tra le pagine, insieme ad un velo di solitudine e di rimpianto, e lo scorrere inevitabile del tempo cambia e corregge il passato, indirizza il presente, prevede il futuro, che è e sarà la somma del vissuto senza possibilità' di ritorno, o di correzione, un po' amaramente, con dei rimpianti ( da parte di Jacob ) ma coscientemente, perché questa è la nostra vita.
Il ritorno di Safran Foer ci consegna un testo impegnativo, denso di sfumature, dettagli, la difficoltà sta nel creare ed incastrare una storia famigliare ( i Bloch ) all' interno di una vicenda secolare ( l' ebraismo ) con vista sull' oggi.
L' autore indubbiamente da' prova del proprio talento letterario, con una sapiente e sorprendente creativita' narrativa, intelligenza, umorismo, sarcasmo, in tratti descrittivi onirici, metatemporali, in un fluttuare di termini significanti nel contesto trattato, nell' uso del linguaggio della tradizione ebraica per riaffacciarsi, d' improvviso, sull' oggi, con dialoghi e termini della contemporaneita'.
La fusione di più elementi traccia l' uniformita' del racconto anche se talvolta si cade nella prolissita', si ripetono situazioni e contenuti che si perdono nella corposita' della storia.
Senza dubbio trattasi di un romanzo sorprendente, vivace, ben scritto, la cui lettura e' consigliata, pur nella consapevolezza della difficolta' di una recensione chiara ed esauriente di un' opera dalle attese e pretese importanti.
Buona lettura
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Tra le righe
Erri De Luca torna alla scrittura provato dalle note vicende giudiziarie che lo hanno visto coinvolto recentemente. È pronto per dedicarsi ad essa e per veicolare su carta l’ennesima storia che dichiara non sua: un racconto di un amico scultore in bronzo, Lois Anvidalfarei, il quale, avverte l’autore, forse non riconoscerà in tutto e per tutto l’oggetto della sua narrazione. De Luca dà l’impressione di appropriarsi di uno spunto narrativo interessante per convogliare interessi, sensibilità del suo percorso di uomo e di artista, probabilmente sintetizza le proprie incertezze, i propri dubbi, o semplicemente si ritrova nelle parole di un amico che nato a Badia, in Alto Adige, ha sperimentato la chiusura della chiesa altoatesina con le sue sculture Figliol prodigo e Adamo.
Uno scultore vive nel più improbabile luogo di frontiera quale è la montagna, inadatta al reticolato, alla barriera fisica, ricca invece di passaggi naturali che nessun confine politico può cancellare, aiuta i profughi che giungono al suo villaggio nell’ attraversamento clandestino del medesimo confine ma a differenza dei suoi due amici che si dedicano a questa attività per lucro, restituisce loro, a impresa riuscita, la somma prima richiesta. Tra i suoi fortunati “viaggiatori” appare uno scrittore il quale stabilitosi all’estero fa conoscere al mondo la storia del santo traghettatore. Il clamore suscitato dalla stampa sottrae agli amici la possibilità di proseguire nei loro traffici per cui essi costringono l'amico a lasciare il luogo natio. Lo scultore va a vivere in una località marina, Napoli vicina. Lì cerca lavoro come restauratore di sculture e ottiene il restauro di un crocifisso dei primi del novecento: lo si vuole riportare allo status originario quando la nudità del Cristo era raffigurata e lo scultore aveva reso fedelmente l’usanza del crocifiggere nudi, nessun drappo a mascherare una parte del corpo che desta imbarazzi nella figura del Cristo. Lo scultore libera la statua dalla censura marmorea voluta tempo prima dalla Chiesa. Il breve racconto ricostruisce la storia della scultura e i passaggi necessari all’artista per scoprire il messaggio dell’opera originale così da riportarla fedelmente ,a restauro avvenuto, anche quando sotto il drappo appare un principio di fisiologica erezione...
I temi trattati sono tutti interessanti: la montagna, le migrazioni, la visibilità di ogni singolo essere umano, la tensione creativa, il binomio artista- opera d’arte, la fede, le religioni, eppure tutto appare solo accennato, citato, richiamato per cui, a parte la modesta tensione narrativa delle ultime pagine, tutto scorre molto velocemente senza lasciare alcuna impressione profonda. Fatto salvo che si respira un Erri De Luca invecchiato e a tratti stanco ma ancora capace sinceramente di palesarsi anche quando racconta la storia di un vecchio amico. Tra le righe c’è un uomo non più giovane che lotta ancora con i suoi dubbi ma pare aver abbandonato la tipica intransigenza giovanile.
Lo consiglio a chi apprezza l’autore anche solo per i suoi interessi, le pagine dedicate alla montagna sono le più riuscite, a chi si interessa di scultura, a chi ama semplicemente l’autore.
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Tommaso & Angelica
Roma. Sono passati già sette anni dall’incidente, eppure per Angelica è come se il tempo si fosse congelato. I tredici anni coincidono con quella che è la fine della sua vita da adolescente, da persona “normale”. Quel maggio del 1987 segna infatti la conclusione di quella che sarebbe altresì stata l’esistenza semplice di una studentessa modello, seria e dedita al dovere, nonché di una giovanissima e bellissima futura donna. Ma si sa, non vi è niente di più imprevedibile della vita stessa, e la ferita che la ventenne protagonista si porta dietro non è solo quella determinata dalle cicatrici che le hanno interamente deturpato la parte anteriore del corpo, risparmiandole al contrario la posteriore, ma sono quelle della psiche, dell’animo, perché Angelica è stata tradita da colei che l’ha generata, da colei che più al mondo avrebbe dovuto prendersi cura di una così giovane libellula, sua madre.
E’ il 1994, a seguito del primo anno di Legge giunto al termine, la famiglia della protagonista, composta dal padre Enrico Gottardo, avvocato, e Marinella, la domestica assunta a fronte della dipartita della coniuge, decidono di trascorrere le vacanze presso la residenza estiva sita in Borgo Gallico. Il paesino è quanto di più inaspettato vi sia per la romana, è un luogo spartano, con il minimo essenziale, un luogo da cui non si aspetta alcunché e che non ha interesse a conoscere. Eppure due figure subentrano nella sua quotidianità portando scompiglio ed obbligandola a reagire, ad affrontare la paura del suo aspetto: Tommaso Petrini, a sua volta ventenne affetto però da una forma aggressiva di retinopatia degenerativa e Giulia, quarantaduenne, sola e apparentemente strana. E mentre quest’ultima riesce a diventare la prima vera amica di Angelica, Tommaso le entra dentro, le ruba il cuore così come lei lo razzia a lui. Per la prima volta ella non ha paura della sua esteriorità, sa che l’uomo che ha accanto la ama per quello che è, la ritiene essere la persona più bella in assoluto perché grazie alle ombre che sempre più frequentemente gli impediscono di prendere cognizione di ciò che lo circonda, sa osservare col cuore, andando oltre le apparenze. Ma è proprio quando le cose sembrano andare per il verso giusto che incomprensioni e durezze della vita si abbattono sui due giovani, tutta una serie di circostanze che di fatto li portano ad allontanarsi, a compiere scelte sbagliate, ma anche a crescere..
Non vi svelo altro sulla trama di “Non aspettare la notte”, nuovo intenso romanzo di Valentina D’Urbano, mi limito semplicemente a dirvi che questo è uno di quei testi che si attaccano sulla pelle sin dalle prime pagine. E’ uno di quei libri che sin dalle prime battute è capace di lasciare il lettore col fiato sospeso, di catturarlo ed affascinarlo sempre più, uno di quegli elaborati che lasciano il segno.
Stilisticamente questo è caratterizzato da un linguaggio fluente, che si adatta ai personaggi che si intercalano nella narrazione, e dunque assumendo sfumature più giovanili quando gli interpreti delle vicende sono i ventenni e più adulte e autoritarie quando subentra la figura del padre, o ancora più dolci e “mammesche” quando al contrario viene data voce a Giulia o a Marinella. Unica pecca che ho riscontrato è la – a tratti – eccessiva fiabescosità. Giustamente l’argomento trattato non è dei più semplici quindi l’autrice ha cercato di “mitigarlo” rendendo più idilliache alcune situazioni. Comprensibile. Nel complesso, un testo che merita di essere conosciuto, che sa farsi apprezzare, uno scritto che è in grado di rievocare l’atmosfera più leggera e meno frenetica di quelli che sono stati gli anni novanta.
«La tua pelle…. È rovinata, è vero. Non ti mentirò, non ti dirò che i tuoi segni non si notano. Perché sei una ragazza intelligente e lo sai pure tu che è la prima cosa che uno guarda, quando ti vede. Ma, Angelica, c’è altro nella vita. C’è molto altro. E tu sei bella da morire. [..] Tu non sei le tue cicatrici» p. 98
«Non c’è nient’altro adesso, niente che non sia il suo respiro tra le labbra, le sue mani che la stringono, rimettono insieme i pezzi. Una disperazione che con lui si trasforma, diventa meno acuminata, un abisso che ora perde i denti e la forza, non la morde più. Il dolore si scioglie diventa rapido, diventa sollievo. [..] Si aggrappano l’uno all’altra. Si baciano come due che stanno per perdersi. E invece si sono appena trovati.» p. 183
«[..] Si lascia cadere. Non avrà più paura di lasciarsi cadere. C’è un lungo salto che dura una vita.» p. 377
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Scelta di Hobson
In questo secondo episodio della serie incentrata sul protagonista Neal Carey, il camaleontico ventiquattrenne non si è ancora ripreso dagli strascichi della prima indagine e trascorre le proprie giornate esiliato dal resto del mondo in un cottage nello Yorkshire, immerso tra letteratura ottocentesca e generose dosi di whisky.
Il riposo forzato termina con la visita di Joe Graham, un metro e sessantadue centimetri di cattiveria e astuzia. L’uomo che ha cresciuto Neal fin da adolescente, da quando suo padre era scomparso e la madre faceva la prostituta, insegnandogli come pedinare una persona, come entrare e uscire da un appartamento, come avere rispetto per se stesso. Un’enciclopedia vivente dell'investigatore privato.
Stavolta il compito di Neal è quello di ritrovare un biochimico esperto in fertilizzanti, il dottor Pendleton, scomparso dopo aver partecipato ad un convegno alla Stanford University in compagnia di una seducente donna cinese.
La saga prosegue con un episodio che conferma i pregi ed i limiti riscontrati nel precedente capitolo, “London Underground “. Un noir eccessivamente spettacolarizzato ed ingarbugliato, ma capace di divertire con un protagonista empatico, una buona dose di ironia e scenari esotici ed evocativi.
Stavolta l’ambientazione, come è facilmente intuibile dal titolo, è la Cina della fine degli anni '70. Un popolo alla ricerca della propria identità economica, dopo che nei decenni precedenti si sono succeduti il fallimento del grande balzo in avanti ideato da Mao dal 1958 al 1961, la rivoluzione culturale lanciata nel 1966, l’ascesa al potere di Hua Guofeng che sarebbe terminata nel 1981 con l’avvento del riformista Deng Xiaoping.
La parte riguardante la cultura cinese mi ha ricordato i tipici approfondimenti di un altro scrittore, Qiu Xiaolong, creatore della fortunata serie dell'Ispettore Capo Chen, anche se le precisazioni socio-culturali del nativo di Shanghai sono ben più puntuali, precise e dettagliate.
In definitiva le indagini di Neal Carey, racchiuse in cinque romanzi pubblicati dal 1991 al 1996, alternano qualità e difetti tipici di uno scrittore esordiente che, nel corso degli anni, è diventato uno dei migliori esponenti del genere poliziesco contemporaneo con titoli come “L’inverno di Frankie Machine”, “Il potere del cane”, “Il cartello”.
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Ma che guaio che è, questo amore.
Ah, l’amore. Che cosa è davvero l’amore? Gioia, tormento, sofferenza, felicità: è tutto questo e allo stesso tempo non è niente di tutto ciò. E’ impossibile dire che cosa sia l’amore. Ognuno ha una sua idea e non riuscirà mai effettivamente a esprimerla al meglio. L’amore è una cosa del tutto personale, che ha ispirato pittori, poeti, musicisti. Ed è proprio a casa di un vecchio suonatore di mandolino che inizia la nuova avventura del commissario Ricciardi.
Il commissario Ricciardi, insieme al brigadiere Maione, deve indagare sulla morte di un ricco commerciante, assassinato con un pugno alla tempia, guarda caso proprio la modalità con cui è morto l’ultimo sfidante sul ring del pugile Vinnie Sannino, emigrato anni prima in America e ora ritornato a casa.
La trama si complica quando si scopre che Vinnie da giovane era innamorato della moglie del morto e sembra fosse partito proprio per mettere da parte un po’ di soldi per potersi costruire un futuro migliore con la sua Cettina. Tutte le prove sembrano suggerire che Vinnie sia il colpevole, ma è davvero così?
Il libro è un giallo che si legge velocemente, lo si divora, capitolo dopo capitolo. Non mancano anche alcuni tratti “horror”. Chi ha già letto altre avventure del commissario Ricciardi sa bene quale sia il suo dono (o la sua maledizione): Ricciardi percepisce gli ultimi pensieri, gli ultimi istanti, della vita di uomini e donne vittime di incidenti o omicidi. E’ questo il “Fatto” che tormenta la vita del nostro protagonista. E’ questo il “Fatto” che sembra impedirgli di avere una vita serena, normale. E’ questo il “Fatto” che sembra impedirgli di dichiararsi alla donna che ama.
L’amore ha un ruolo centrale nel nuovo libro di Maurizio de Giovanni. In alcuni passaggi mi è sembrato che l’indagine venga posta quasi in secondo piano, preferendo analizzare maggiormente i sentimenti dei numerosi personaggi coinvolti. Ma questo non è un male, anzi.
Ho amato davvero come l’autore riesca a descrivere ciò che le sue creature (non solo i protagonisti ma anche i personaggi meno importanti) provano, gioie e dolori.
Le sofferenze d’amore avvicinano personaggi tra loro distanti: dolce e struggente è la vicenda del femminiello Bambinella che chiede l’aiuto del brigadiere Maione per salvare il suo amato.
Tristezza e rabbia sono invece le fondamenta delle pene d’amore del nostro commissario Ricciardi, che sembra voglia privarsi di qualsiasi gioia nella sua vita a causa del “Fatto”. In questo romanzo Ricciardi è “conteso”da tre donne, tra loro molto diverse in aspetto e comportamento, ma tutte e tre affascinate dagli occhi verdi del poliziotto.
Leggere un libro di de Giovanni si rivela sempre un piacere. Mi sono avvicinata ai romanzi di questo autore leggendo un’altra sua serie (“I bastardi di Pizzofalcone”); tuttavia è proprio con la lettura delle indagini di Ricciardi che lo stile di Maurizio de Giovanni mi ha stregata. E’ uno stile piacevole, non complicato, ma allo stesso tempo sempre impeccabile. Ogni personaggio ha la sua “parlata” e l’autore passa sapientemente da uno stile all’altro.
Probabilmente anche l’ambientazione ha avuto il suo ruolo nel farmi appassionare tanto: la Napoli degli anni ’30, anche sotto la pioggia di un autunno alle porte, ha un grande fascino. Un fascino che l’autore riesce a presentare senza alcuna difficoltà, sottolineando anche la sua affezione alla città natia.
Quindi, che dire se non buona lettura? :)
“Un pensiero solo avevo in testa, commissa’. Una sola faccia, una sola persona. Una voce, un sorriso, una pelle, una bocca che mi ossessionavano e mi davano pace insieme; inferno e paradiso, dolore e gioia. Un pensiero di quelli che sta dietro agli altri in ogni istante e a un certo punto ti sembra di non sentirlo più, invece è sempre lì. Un pensiero solo. Cettina è questo per me, commissa’. Il respiro. […] Cettina non è mia, commissa’. Cettina sono io. Cettina è ogni battito del mio cuore, ogni mio respiro. Ogni speranza e ogni ricordo. […] Ho sognato che bussavo e che Cettina veniva ad aprire riconoscendo la bussata mia, quella di quando non ero ancora partito. Ho sognato che mi baciava e piangeva per l’amore e per il tormento, e che io pure piangevo. E ho sognato che rientravo per le strade che conosco bene, perché io sono partito, commissa’, ma non me ne sono mai andato.”
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NOSTALGIA
“La sostanza del male” dell’esordiente Luca D’andrea, ci viene detto, è diventato ancora prima di uscire un caso internazionale: sarà infatti pubblicato in ben trenta paesi. Leggendolo però solo in un secondo momento ho preso in considerazione le qualità effettive del giallo: infatti seguendo il racconto fin dalle prime pagine ho iniziato a sentire nostalgia, una profonda nostalgia, della mia lingua madre, dell’italiano, quell’idioma antico di secoli, innervato tutto nelle sfumature lessicali e sintattiche, che, dicono i pessimisti, è destinato a scomparire a favore di una sorta di una koinè/ lingua comune che ha come base l’inglese. Non mi si fraintenda, D’Andrea non è scorretto e il suo thriller per gli amanti del genere non ha grossi difetti, tuttavia, non è certo una novità, il suo è un italiano standard, senza storture creative, coniato già per essere tradotto in inglese ed abbracciare il ricco mercato anglosassone. Detto questo, do atto al libro di seguire le regole base del buon prodotto editoriale: lo sfondo è il Betterbach, una gigantesca gola, in un piccolo centro nel Sud Tirolo, ove si sente “il peso del tempo”e ove i mostri preistorici paiono essere sopravvissuti. Il mistero di un efferato crimine lì avvenuto molti anni prima sprigiona una sorta di fascino malefico che spinge il protagonista Jeremiah, un autore televisivo newyorkese, giunto lì in vacanza con la famiglia a penetrare i segreti del microcosmo e a disseppellire verità scomode. Come ci si attende, la necessità di scendere letteralmente nei recessi della terra per capire provoca quasi lo sfaldamento dell’idillio domestico pronto però a rinsaldarsi una volta rimosso il mostro e ristabilito l’ordine. Non male in definitiva, ma tutto come previsto.
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Se tieni per te le cose,non sembrano poi così vere
Curiosa coincidenza: solo qualche settimana fa mi è capitato tra le mani "La vita perfetta" di Renée Knight, ora "La vita felice" di Elena Varvello.
Due storie diverse sicuramente, due stili altrettanto differenti, il primo ricade nel genere thriller psicologico il secondo ha i connotati tipici del noir italiano; ciò che mi ha incuriosito, però, è l'assonanza nel titolo, un titolo che è un desiderio, un anelito e forse un'utopia.
In entrambi i romanzi, infatti, vengono raccontate due vite, storie di famiglie felici, apparentemente perfette, che inaspettatamente vengono travolte da un destino beffardo e spietato, tanto radicale è il cambiamento che porta, trasformando un clima di serenità familiare in un'atmosfera densa di angoscia, paura e disperazione.
Elia è un ragazzo di 16 anni, vive con la sua famiglia a Ponte, un paesino sperduto tra i monti e circondato da boschi che sembrano quasi averlo isolato dal resto del mondo:
'La valle stretta, una miniera di pirite abbandonata, un fiume serpeggiante, torrenti, un vecchio ponte in pietra in una gola, un altro a due corsie sopra le rapide del fiume e boschi tutt'intorno. E lo stabilimento cinto da un muro di mattoni, il fumo delle ciminiere.'
Non certo il posto migliore in cui un ragazzo di 16 anni potrebbe veder realizzate le proprie aspirazioni, quali prospettive potrebbe offrire per il suo futuro un posto del genere?
Ma è il luogo in cui Elia è nato e cresciuto, non ha tanti amici ma non è un problema per lui, è sempre stato un tipo introverso e solitario, i suoi coetanei spesso gli sembrano infantili.
Poi ci sono suo padre e sua madre, lo adorano e non gli hanno mai fatto mancare niente. Insomma una famiglia felice, una vita come tante altre.
Sino a quel giorno, il giorno in cui lo stabilimento chiude e tutti coloro che vi lavorano vengono licenziati in tronco: tra questi il padre di Elia, Ettore Furenti, il pilastro della sua famiglia.
Tutto inizia da quel giorno ed Elia, ora adulto, a distanza di anni ripercorre il ricordo di quel periodo della sua vita, tramutatasi repentinamente in una vita tormentata, sgretolata da un destino che sembrava essersi accanito contro loro.
In questo viaggio a ritroso nella sua memoria lo accompagna il senso di colpa, la convinzione che se fosse stato solo più coraggioso avrebbe potuto evitare il peggio, avrebbe potuto salvare il padre dal baratro della follia e la famiglia dalla rovina. Ma ha preferito rimanere in silenzio, così come la madre ha preferito non vedere: entrambi hanno scelto di ingannare se stessi di fronte all'evidenza pur di non perdere quella felicità divenuta ormai solo illusione, sperando che fosse solo un senso di disagio momentaneo e non una voragine profonda quella creatasi nella mente di Ettore Furenti.
'Se tieni per te le cose, non sembrano poi così vere'.
La madre di Elia non riesce e non vuole guardare in faccia la realtà, piuttosto si convince che l'uomo a lei accanto sia sempre lo stesso, l'uomo da sempre amato e con cui avrebbe voluto trascorrere il resto della sua vita; ma Elia sa, Elia ha notato che suo padre ora è un uomo diverso.
'A volte penso che avrei dovuto dirle di mio padre ma cosa avrebbe detto lei, mia madre, la donna che ci amava? Che cosa avrebbe fatto? Avevo già provato ed era stato inutile.
Non ne sapevo niente, allora, dei modi in cui l'amore può manifestarsi, nè della forza con cui può spingerci in un angolo e toglierci il respiro'.
Ecco, il silenzio: il silenzio è zavorra per l'anima.
Ogni qualvolta manteniamo nascosti i nostri sentimenti e soffochiamo la voce dell'anima lasciando che le nostre emozioni muoiano all'interno le impediamo di innalzarsi verso nuovi orizzonti, preferiamo mantenerci bassi evitando pericoli, scansando novità e cambiamenti piuttosto che prendere il volo, rischiando anche di cadere, ma con la certezza che una vita nuova, vera, vale molto più di una vita apparentemente felice, perchè ormai compromessa, ormai contagiata profondamente dalla menzogna, dall'inganno e dalla disperazione.
Elena Varvallo è un'autrice per me nuova ma è stata una piacevole sorpresa: ho ritrovato in lei la parte migliore di Ammaniti, quella che ho apprezzato tantissimo nei suoi primi romanzi "Ti prendo e ti porto via" e "Come Dio comanda", soprattutto per l'impeccabile descrizione degli stati d'animo dell'adolescente Elia, quasi tangibili per quanto ben esposti.
I "silenzi" di Elia si percepiscono chiaramente, così come si avverte forte il suo rimorso per non aver dato voce alle sue sensazioni, ai suoi timori.
E le emozioni sono soffocate quasi come le parole usate dall'autrice che nel suo romanzo adotta uno stile asciutto, essenziale ma non per questo meno efficace: periodi poco dispersivi e termini sapientemente calibrati per raggiungere il lettore al primo impatto, senza necessità di ulteriori chiarimenti o divagazioni.
Uno stile, devo ammettere, perfettamente in sintonia con la storia ed adeguato a rappresentarne la tragicità senza inutili digressioni in modo che colpisca il lettore nel breve spazio di circa 200 pagine, lasciandogli poi il tempo per riflettere, metabolizzare.
'La vita felice. La vita che ci resta, è solo questo, e che non va sprecata.'
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Ho visto cose...
Visionario.
Qualsiasi opinione si abbia di Philip K. Dick, non si può negare che sia questo l'aggettivo che lo definisce meglio (e che nella letteratura, anche di genere, sembra attagliarsi a lui più che a chiunque altro).
In questa biografia, Emmanuel Carrère racconta il “dietro le quinte” di questa visionarietà, a partire dalla sfera familiare nella quale il giovane Philip cresce: una gemella, Jane, che muore pochi giorni dopo la nascita per ignoranza della madre (che non aggiunge allo scarso latte materno alcun altro nutrimento per i due neonati); una famiglia ben presto smembrata, con il padre che accetta il divorzio e sparisce dalla vita del figlio.
Accadimenti di vita, questi, che contribuiscono a definire una personalità forte ma in disequilibrio. A risentirne saranno soprattutto le capacità affettive di Dick: nel rapporto con le donne, pare afflitto da una specie di sindrome del “buon samaritano” nella quale cambierà di continuo il proprio ruolo (a volte sarà il compassionevole tutore della compagna di turno, altre volte colui che ha estremo bisogno di cure). Fino a quando alcuni episodi accaduti nella primavera del 1974 lo proietteranno in una fase a suo modo “mistica”, che lo accompagnerà, tra alti e bassi, sino alla morte (avvenuta nel marzo 1982).
Alla fine della lettura, l'impressione è che la vita reale di Dick sia molto più ordinaria di quella virtuale, di quella, cioè, costruita dalla sua mente. Cosicché, la parte più interessante della biografia pare essere quella che svela l'ispirazione delle sue opere:
- chiunque ha letto “La svastica sul sole” – la distopia postbellica nella quale è l'Asse (Germania, Giappone) ad aver vinto la seconda guerra mondiale e non il contrario – sa, ad esempio, che uno dei protagonisti del romanzo è l'I Ching, testo di riferimento per conoscere l'insegnamento taoista: sessantaquattro esagrammi indicano, a chi consulta il libro, la via da percorrere. Ciò che forse non sa è che lo stesso Dick era davvero convinto del “potere” dell'I Ching, tanto da utilizzarlo in alcuni snodi della trama per decidere come proseguire. Si spiega così che questo libro – il primo grande successo di Philip K. Dick, vincitore del premio Hugo per la fantascienza – non sembra seguire una vera e propria trama, ma si fa apprezzare soprattutto per la particolare atmosfera;
- analogamente, “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (il libro che ha ispirato il celeberrimo film “Blade Runner”) trova origine nella riflessione del matematico Alan Turing, che nel 1950 si interrogherà sul futuro dell'intelligenza artificiale e sull'elemento discriminante di questa intelligenza da quella umana. Turing introdurrà l'idea di un test che Dick svilupperà meravigliosamente nel libro, facendo risaltare negli androidi la mancanza di empatia e raggiungendo un effetto che va oltre ogni incasellamento nella letteratura “di genere”, come Carrère sottolinea:
“E' strano trovare nelle pagine di uno scrittore di fantascienza, peraltro dallo stile piuttosto sciatto, brani memorabili, che non solo fanno venire i brividi, ma che ci danno anche la sensazione di aver intuito qualcosa di essenziale, di basilare. Di aver intravisto un abisso che è parte integrante del nostro essere e che nessuno aveva mai sondato prima. Uno di questi brani è contenuto in 'Ma gli androidi sognano pecore elettriche?' ed è quello in cui viene descritto il grido d'orrore di chi scopre di essere un androide. Un orrore assoluto, irrimediabile e inconsolabile, a partire dal quale ogni cosa diventa spaventosamente possibile.”
Una biografia non eccelsa, dunque, ma piena di spunti interessanti: scritta nel 1993, si affianca ad altre biografie di Philip Dick scritte nello stesso periodo – anche sull'onda del successo che i suoi libri pian piano ottenevano – e che forse varrà la pena consultare, per trovarvi conferma o smentita di quanto dice Carrère. Molte parti del saggio, infatti, riportano intime riflessioni di Dick. Da dove può averle ricavate il biografo? Se si pensa che egli stesso, nella nota di chiusura, ammette che tra le fonti del saggio c'è anche la propria immaginazione, la tentazione di prendere il tutto con le pinze è giustificata. Fermo restando che la mente di Philip K. Dick sembra materiale assolutamente “scivoloso” per qualunque biografo.
Un'ultima curiosità: la frase che dà il titolo alla biografia proviene da un altro capolavoro dello scrittore, “Ubik”, nelle cui pagine si assiste ad una magistrale “inversione” tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Forse il suo libro migliore, al quale – ad un certo punto della sua crisi mistico-esistenziale – Dick si affiderà come fosse una novella Bibbia, come se in esso vi sia il senso di tutta la sua particolare esistenza.
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Codice d'onore
Ci sono valori e principi imprescindibili che costituiscono il codice d’onore di ogni individuo rispettabile. Eppure esistono casi in cui trasgredire può divenire una necessità.
Nella storia passata, come in quella presente e contemporanea, abbiamo assistito a eventi che hanno trascinato il mondo in guerre, persecuzioni, stragi che hanno annientato generazioni e generato grande dolore.
Si è molto discusso sulla opportunità di ubbidire a ordini aberranti, in virtù del fatto che dovere di un soldato è l’obbedienza. Si è giunti alla conclusione più o meno unanime che ignorare simili ordini sia non solo opportuno, ma dovere di ogni soldato coscienzioso.
Cosa dire poi della diserzione, atto di codardia che lascia ad altri responsabilità che non si sente di assumersi? Come valutare questa decisione quando essa sia stata maturata dopo aver assistito a un susseguirsi di ingiustizie, di punizioni immeritate, e aver realizzato di essere costretti a combattere per un fine che non si condivide, per una patria che non è la propria e che ti perseguita? Pur rimanendo la diserzione un atto ignobile nella sua essenza, ad esso si può talvolta concedere qualche attenuante. È questo il motivo per cui il lettore è portato a guardare costantemente con simpatia al personaggio del giovane Lerner, protagonista del romanzo “Acciaio contro acciaio” di Israel Joshua Singer, pubblicato per la prima volta nel 1927.
Lerner, infatti, ebreo polacco, trovatosi coinvolto nella catastrofe della prima guerra mondiale, arruolato nelle fila dell’esercito russo, stanco delle sopraffazioni subite, rifiuta di continuare una guerra che non capisce e diserta, affrontando una serie di rischi e pericoli che possono costituire una minaccia anche per la famiglia dello zio Reb Baruch Yosef che lo ospita. Il destino di Lerner è quello di molti ebrei vissuti in quell’epoca e in quella zona di Europa ambita dalla Russia da un lato e dalla Germania dall’altro. La peregrinazione di Lerner, dunque, lo pone di fronte a molteplici minacce e lo porta a contatto con moltitudini di diseredati, poveri lerci individui, avvezzi a traffici di ogni genere. È un mondo degradato e privo di speranza, quello descritto da Singer in questo romanzo: un’umanità preda di loschi individui che non esitano a farne oggetto di guadagno. Lerner e Gitta, la giovane cugina che lo ama sin dall’infanzia, sono gli unici che si dedicano disinteressatamente ai più deboli.
Con grande sensibilità Singer descrive le figure femminili, spesso prostitute costrette a umilianti esibizioni, talvolta giovani oneste e abusate come la stessa Gitta.
È la storia del primo ventennio del novecento che fa da sfondo a questo romanzo ed emerge chiaramente il contrasto con il popolo tedesco e la diffidenza per il popolo russo. Nelle ultime pagine la rivoluzione del ’17. Per Lerner è la speranza di una vita migliore.
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Vite dissolte e rinascite complicate...
" Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo."
L' incipit di un famosissimo classico letterario potrebbe costituire tema e sinossi di questo romanzo d' esordio della giovane scrittrice americana Julia Pierpont.
Oltre un' apparente " normalita' ", una calma e dosata famigliarita', una quotidianità salvata e protratta, si nasconde una scoperta inattesa, un turbinio emozionale, una vita parallela, un nuovo inizio che condizionerà presente e futuro, forse per sempre.
Ed allora " pensavamo di vivere un intermezzo, dopo questo e prima di quest' altro, e invece è' stato l' intermezzo a durare."
New York, una famiglia dell' oggi, lui, Jack, artista affermato, lei Deborah, ex ballerina, che ha rinunciato alla danza per amore. Due figli, Simon, quindicenne scapestrato ed in preda alle prime pulsioni erotico- sentimentali, e Kay, undicenne con un desiderio di indipendenza che è' in prevalenza richiesta di amore figliale.
D' improvviso un pacco recapitato, una scatola, prove schiaccianti, inconfutabili, contenenti un vortice di incredulita' e cruda verità' , la rivelazione di un tradimento ( quello di Jack ), di una vita parallela, fino ad ora nascosta, e di altro, a ridefinire la propria quotidianità.
I fatti, tangibili, oggettivi, si susseguono, la vita, stravolta, sembra essersi fermata, almeno quella dell' io più' profondo, ed allora di che cosa abbiamo realmente bisogno in questi momenti?
I nostri figli semplicemente di amore, anche se lasciano intendere il contrario. Simon crede di sapere gestire la situazione da solo, "senza la sorella troppo piccola, la madre troppo stupida, e suo padre che era il problema ", inserito nella spietata crudeltà' dei social, tra amori adolescenziali, adulti, coetanei, vicini curiosi, altro da se'.
A undici anni Kay è' troppo piccola, ferita, e " vorrebbe semplicemente restare sempre così', sempre di quella età ". Ha un rapporto speciale con il padre, non ne capisce esattamente la colpa, sarebbe disposta anche a perdonarlo.
Deborah è una donna ferita, scossa, incredula, le cui certezze vanno in frantumi, si aggrappa ai propri figli, cerca di scappare per preservarli, ma fugge anche da se stessa e scopre un oggi che forse non le è mai appartenuto e che tra se' ed il posto in cui vive " c' e' ancora quella lastra di vetro che ci mostra il proprio riflesso, nei luoghi più' oscuri, dove abbiamo paura ".
Jack e' il responsabile del disastro, inconsapevole, egoista, con l' incostanza e l' insondabile svagatezza dell' artista, e si trova d' improvviso sottratto a qualsiasi ovvia certezza, sradicato dalla propria insipienza, come " un personaggio al quale si fa guardare il mondo, la vita che andrà avanti, dopo che è morto. "
Ed allora " Come si fa a dimenticare qualcosa in posti dove il tempo non cambia mai, e dove le stagioni sono tutte uguali?
C'è un tempo interiore, che riflette stati d' animo, sentimenti, occasioni perse, ritrovate, dilatato ed intristito dai ricordi di quello che fu, che è trascorso e se ne è andato, o semplicemente è rimasto dentro di noi, che siamo cambiati, ma che lottiamo con la furia degli anni che scorrono nella apparente calma di un quotidiano che non ci appartiene.
Ci accompagna un nembo di occasioni perdute, di false speranze, un flusso interiore ininterrotto e la certezza che quello che è' stato, lontano da qualsiasi speranza, non tornerà. Ma " ogni cosa diventa cupa semplicemente perché le loro vite erano cupe ".
La vita è un foglio bianco riempito dal passaggio del tempo, e delle stagioni, e senza accorgersene scorre implacabile nel flusso di ricordi e speranze che lentamente rallentano, ingrigiscono, spariscono nella quotidianità.
Gli anni si susseguono, i fiocchi di neve somigliano a scheletri di qualcos' altro, le notti prosciugano i cieli illividiti, le porte dei drugstore si spalancano con un sibilo impercettibile, quella palla lanciata in avanti ricade più' veloce, i numeri diventavano troppo grandi senza un vago rapporto con il tempo e ciò' che lo misura, la gente ci vede diversi, cambiati, si stupisce, noi continuiamo a spostarci, a partire, a ritornare, in parte dimentichiamo, inconsapevoli dello scorrere delle stagioni, uguali a se stesse, mentre la sofferenza declina, anestetizzati nell' oggi e proiettati in un incerto domani.
Alla fine ci dissolviamo, per sempre, d' improvviso, nel complicato mare della vita che racchiude storie e sentimenti.
Al di là di una vicenda classicamente famigliare, il racconto racchiude storie individuali, nate da un nucleo disgregato e che navigano nel proprio io ferito e smarrito, alla ricerca di una propria dimensione e stabilita'.
I protagonisti ondeggiano tra passato e futuro, in un presente che lentamente ma inesorabilmente dimentica il vissuto, camminano in un contesto spazio-temporale che tampona e guarisce le più' atroci ferite e sofferenze.
Interessante la struttura narrativa, un filo dei sentimenti diacronico, una narrazione condensata in poche pagine di pura cronaca, essenziale, telegrafica, inserita e contrapposta ad una storia che per la maggior parte è flusso di coscienza ed elaborazione di sentimenti, sofferenze, speranze, attese, rimpianti, fughe, ritorni.
È una scrittura che si avvale di dialoghi fitti, di tocchi d' autore, di piani narrativi trasversali, a tratti eccessivamente complessa in quel turpiloquio di interrelazioni non sempre nitide, un po' confusionarie e stereotipate ( nelle figure descritte ), ma la costruzione narrativa e' funzionale all' idea del romanzo.
Nel complesso trattasi di un buon esordio letterario.
Buona lettura.
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Alesa e Ivan
E’ tempo di bilanci per Alesa, russo quaranticinquenne e killer di qualità. Il suo primo omicidio risale all’età di dieci anni e fu determinato, oltre che dalla povertà, dalla scoperta di un non padre e dalla delusione di una madre costretta a vendersi al proprio datore di lavoro, da un’indescrivibile fame, appetito che da quel momento è si è potuto saziare soltanto mediante il versamento di altro sangue. Eppure ora sente che qualcosa si è rotto in lui. I tempi sono cambiati, della disciplina criminale e del relativo credo che esisteva un tempo, non vi è più traccia; i rei sono corrotti fin nel midollo e mirano esclusivamente a conquistare poltrone di potere e ad accumulare denaro.
Ecco perché quando Racov, delinquente di vecchia data nonché candidato per l’alta carica presidenziale russa, gli propone un ultimo lavoro a titolo di “buona uscita” da quel mondo, accetta. Sa benissimo di non potersi fidare di lui, è perfettamente consapevole di chi ha davanti soprattutto considerando quante persone ha dovuto far fuori per suo conto, individui che si erano tramutati da amici in nemici per un semplice capriccio o mero mutamento di interesse. L’incarico che gli viene attribuito è inoltre un qualcosa che va contro la sua natura poiché vittima predestinata altro non è che una donna, Marta Bianchini, figlia di un avvocato con cui il politico smaltiva in Europa flussi di denaro scomodi in madrepatria. Che fare? Andare contro quelle regole e quei principi che gli hanno permesso di sopravvivere tutti questi anni, o scendere a compromessi?
Giunto a Milano, l’assassino viene affiancato da quello che gli viene presentato quale suo successore, Ivan Belov, connazionale con un ruolo, nello svolgimento delle vicende, ben lontano da quello prospettato.
Che dire, il testo ricalca perfettamente quelle che sono le tematiche preferite da Nicolai Lilin tanto che da questo punto di vista non presenta particolari novità. Tutto ruota infatti intorno alla filosofia criminale, alla condizione di povertà, ingiustizia e crudeltà che dal Secondo Dopoguerra ha intaccato l’Unione Sovietica, ai ricordi di dolore – francamente a tratti eccessivi e pedanti – che coinvolgono tanto Alesa che Ivan. Il protagonista principale si distingue rispetto alle precedenti creazioni letterarie dell’autore per la maturazione che va ad avere con questo riscoperto senso di umanità, ma nulla più. Da omicida si risveglia protettore di quella che doveva essere la sua vittima.
Anche dal punto di vista della trama, non vi sono particolari sconvolgimenti. Lilin si sofferma eccessivamente sulla parte nostalgica risultando poco incisivo dal punto di vista dell’azione. In sostanza, i ¾ del racconto si imperniano sul malessere dell’omicida e del suo compagno ed ¼ (circa 40 pagine) sulla risoluzione del problema.
Altro carattere che non mi ha particolarmente convinto è stato lo stile narrativo adottato. Il linguaggio è si fluente ma non particolarmente erudito, a tratti troppo elementare, schematico, impersonale. Non accompagna ne rapisce minimamente il lettore.
Piacevole per chi ama il genere, ma certamente non indimenticabile ed eccelso. Un elaborato senza pretese, da estate, per chi non si aspetta chissà.
«Ci sono tanti modi di comprendere una storia. La cosa più importante sono i particolari, le circostanze. LE storie sono come le persone: non esistono da sole, sono tutte collegate tra loro e insieme formano la vita»
«Sta pensando che la memoria è un corpo unico, non può essere mutilata, ridotta a pezzettini. O vive integralmente o muore per intero. Continuiamo a volare tutti verso l’incognito, le nostre orbite s’intrecciano all’infinito, e la nostra memoria, a quanto pare, vale quanto una discarica elettrica nel vuoto assoluto: è tutto e niente allo stesso tempo»
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- sì
- no
no = a chi cerca storie di sostanza
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FIABA IN NERO
" La saggezza dei grandi pensatori consiste non nel soddisfacimento ma nella eliminazione del desiderio ".
( Beckett )
"Un giovane di buona famiglia (...), ricco (...), un giorno decise di lasciare la società caotica e confusa (...) e ritirarsi in una baita di montagna". Così il fiabesco incipit. La "baita", però, era una lussuosissima villa, ma non gli bastava comunque : lui voleva il sole, molto sole, sempre più sole ; per questo voleva far abbattere i picchi, le rocce che gliene toglievano un po'.
L'ultimo e recentissimo libro di Mauro Corona, lo scrittore-montanaro che non disdegna i palchi televisivi, è stata composta in poco più di tre mesi. E purtroppo si nota.
La storia si dipana lungo questi ultimi quarant'anni, periodo che gode i frutti del boom economico, col mito del benessere, anzi della ricchezza, in cui i figli crescono viziati e supponenti in piena crisi di valori e in una società in cui il denaro e la corruzione hanno ricadute pesantissime sull'ambiente e sull'ecosistema. Il trionfo del consumismo e dell'irresponsabilità.
Il testo di Corona si pone come denuncia di tutto questo ; una volta sarebbe stato definito 'd'impegno civile'. Procedendo nella lettura, ci si accorge che coinvolge anche l'aspetto esistenziale dell'uomo, la dimensione del senso. Insomma, si tratta di un libro scritto con le migliori intenzioni.
Però ... l'opera letterariamente non è riuscita.
Probabilmente un'affrettata stesura ed esigenze editoriali forse pressanti hanno contribuito a non perfezionare una scrittura spesso molto carente : convenzionale, piena di 'luoghi comuni', ad un livello basso-televisivo, per cui si parla di "un padre (...) che non arriva a fine mese", di "imprenditori senza scrupoli" e di "politici prezzolati e senza scrupoli" ; poi si dice che "un tizio coi suoi soldi può comprarsi mezza Sardegna" e "le famiglie sono spesso la rovina dei figli". Il peggio è che ad usare questo 'stile' non è il protagonista del racconto; bensì il narratore stesso, che possiamo identificare con l'autore!
Talvolta però, quando si descrive l'amato paesaggio di montagna, succedono momenti di grazia narrativa : il linguaggio diviene gradevole, perfino poetico. C'è anche da aggiungere che la seconda parte del romanzo è percettibilmente migliore della prima. Ogni tanto c'è una citazione tratta da autori noti : qualche perla di saggezza che scivola fra gli accadimenti.
Si tratta dunque di una fiaba, per cui non tutto deve essere verosimile. E, come tutte le fiabe, presenta un finale volto a far riflettere, finale che ovviamente non vogliamo svelare. Non possiamo però sottrarci dal ricordare una frase emblematicamente lapidaria dello scrittore americano De Lillo, che qui ci pare significativa, secondo cui "il denaro parla a se stesso".
Il caso Bella Elliott
Mi sono lanciato nella lettura di questo libro, carico di aspettative e di curiosità. È un periodo in cui vengono lanciati tanti scrittori esordienti nel mercato internazionale, annunciandoli come dei veri e propri "crack". Fiona Barton con il suo "La vedova", era tra i più osannati, basti leggere le entusiastiche opinioni fatte dai vari giornali, sparate tutte in copertina.
Devo smettere di prendere i proclami dei giornali però oro colato. Sì, perché questo libro e al livello di una media produzione di un autore, tanto per citarne uno, come Jeffery Deaver. Forse essere paragonati a un grande maestro del thriller come lui può essere una lusinga, ma in questo caso non lo è del tutto.
Se deve sfondare il mercato internazionale e meritare di farlo, a un esordiente non basta questo, mi deve stupire, intrigare, incollare alle pagine. Non mi aspetto un capolavoro, ma almeno qualcosa che sia al di sopra della media. "La vedova", è nella media.
Non fraintendetemi, è un buon libro, scritto bene, scorrevole, con una trama intricata e abbastanza inconsueta, e durante la lettura lascia un pizzico di voglia di capire come andrà a finire. Tuttavia, tutti questi fattori non sono portati al punto da rendere il libro memorabile.
Bella Elliott, una bambina di due anni, viene rapita mentre è da sola a giocare nel giardino di casa. La madre l'ha persa di vista per un attimo, troppo presa dalle faccende di casa. Dopo una serie di indagini da parte della polizia, con a capo l'ispettore Bob Sparkes, tutti sospetti ricadono su Glen Taylor. Glen è un semplice impiegato di una ditta di trasporti, ma il suo furgone blu viene visto aggirarsi nelle vicinanze della casa di Bella proprio il giorno del rapimento. Inizierà la guerra della polizia per incastrare il "mostro", che in questa lunga persecuzione avrà sempre al suo fianco la devota moglie, Jean.
La loro vita sarà travolta: polizia, giornalisti, televisione, non gli daranno un attimo di pace. Quando il presunto mostro muore, investito da un autobus, l'accanimento non si spegne, ma si concentra unicamente sulla fresca vedova.
E se lei sapesse la verità? Se fosse stata costretta dal marito a tenere la bocca chiusa? La storia ripercorre, tra flashback e flashforward, il percorso che porterà a scoprire la verità su Bella Elliott, su Glenn Taylor e sulla vedova Jean Taylor.
"Invitare a pranzo i nostri genitori ci piaceva, ci faceva sentire grandi. C'è chi entra nel mondo degli adulti quando trova il primo impiego, o quando va a vivere da solo; io invece ho sentito di esserci entrata grazie pranzi della domenica."
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Questa non è l’estate dell’amore
J. K. Rowling si ripropone ai lettori nelle vesti del giallista Robert Galbraith con il terzo episodio della serie dedicata all’ombroso investigatore privato Cormoran Strike e alla sua simpatica e intraprendente assistente Robin.
Nei meandri di una Londra che si agghinda a festa per le nozze reali del 2011 si cela un misterioso e pericoloso assassino, che non solo si diverte a uccidere e smembrare giovani donne, conservandone pezzi come macabri trofei, ma lo fa secondo un piano di vendetta disegnato nei minimi dettagli. Un piano che ha una vittima d’eccellenza: Cormoran Strike.
Quando Robin riceve un pacco contenente una raccapricciante gamba di donna, Strike comprende subito che questa volta, ad essere finito nel mirino di un folle killer, è proprio lui. Ma il colpevole non può essere un uomo qualunque, va ricercato nel suo passato. E lui conosce solo tre uomini che hanno un’indole tanto feroce e violenta e, soprattutto, un conto aperto nei suoi confronti da saldare. Uno dei tre è l’assassino. La polizia indaga ma il tempo scorre veloce e non si può più aspettare perché la posta in gioco è davvero alta per Strike: la propria reputazione, l’incolumità di Robin, il futuro stesso dell’agenzia investigativa, messa duramente alla prova dalla cattiva pubblicità attirata da questa vicenda. E allora, che indagine sia.
Il talento narrativo dell’autrice è sicuramente riconoscibile. Mette subito in campo gli elementi necessari ad infiammare la curiosità del lettore, per poi accompagnarlo con la sua fluida ed elegante penna in un viaggio di seicento pagine in cui racconta a poco a poco le storie dei possibili colpevoli, dissemina con estrema lentezza gli indizi da raccogliere tra appostamenti, intuizioni e interrogatori e rivela molti tratti dei protagonisti principali, addentrandosi nei momenti più oscuri e difficili del loro passato.
Il risultato è sicuramente un libro godibile e intrigante a cui però manca a mio avviso qualcosa: il ritmo è fin troppo blando, la suspense a tratti scarsa mentre l’atteso epilogo si esaurisce, al contrario, in una manciata di affrettate e vagamente insoddisfacenti pagine. Da apprezzare invece la capacità di orchestrare i diversi elementi dell’indagine, lo stile e, soprattutto, l’abilità nel caratterizzare e descrivere i personaggi. Pur non avendo letto i precedenti capitoli di questa saga, è stato facile affezionarsi ed entrare in sintonia con i protagonisti: Strike e Robin sono più di un investigatore e della sua assistente, prendono vita e spessore, anche interiore, e non possiamo che affezionarci a loro, aspettando le prossime avventure per scoprire come si evolveranno le loro storie, non solo professionali.
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Amedeo Consonni
La morte di Amedeo Consonni, ex tappezziere protagonista di rocambolesche avventure nonché nonno premuroso del piccolo Enrico, viziato e deliziato da innumerevoli kinder pingui e cotolette alla milanese, è un qualcosa di inaspettato per tutti gli abitanti del condominio così come per tutti i suoi cari. Quello che maggiormente stupisce, non è tanto il fatto che sia passato a miglior vita, ma il come. Egli infatti è venuto a mancare per cause sopraggiunte, non per morte naturale.
Ma chi è/era Consonni? Amedeo è un uomo normale, vedovo e pensionato. Le sue giornate sono allietate dalla fidanzata, non amata dalla figlia dell’uomo, Angela Mattioli, che è però momentaneamente assente dalle giornate dell’anziano poiché recatasi a Bruxelles per aiutare la propria discendente. In realtà molteplici sono le ragioni del suo allontanamento, il compagno se ne rende conto e più ne prende consapevolezza più riscopre una inattesa libertà. Tutto ha inizio per caso, da sempre è abituato ad una routine scandagliata che inaspettatamente si trova ad interrompere con quelle colazioni a base di cappuccio e cornetto al bar, attimi in cui il suo sguardo si posa su Svetka, cameriera che gli dirà essere laureata in lettere, essere venuta in Italia per un Erasmus e di poi infatuata della stessa al punto tale da non voler più tornare a casa, di cui pian piano si innamorerà finendo con l’essere travolto dagli eventi, da una spirale di circostanze impensate. Cosa si nasconde nel passato di questa giovane Ceca dagli occhi azzurri? E una volta dipanato il mistero, quali saranno le conseguenze dello (e per lo) stesso?
Con una narrazione chiara ed esaustiva, Francesco Recami, torna alla letteratura con un romanzo ricco di personaggi e storie che si intersecano, costruiscono e completano tra loro, uomini e donne con piccole gioie e grandi disgrazie che non rappresentano altro che la trasposizione su carta di quella che è la quotidianità di ognuno di noi. La vita sappiamo bene essere imprevedibile, sappiamo bene essere caratterizzata da alti e bassi; nel suo elaborato l’autore ci riporta questo dato ma ci dimostra anche quanto talvolta basti così poco per mutare l’intero corso di quello che sembra essere già prestabilito.
E se nella prima parte l’opera non brilla, non prende il volo per originalità risultando a tratti “ordinaria”, nella seconda si offre al lettore con tutte le sue qualità. Non una lettura indimenticabile, ma certamente piacevole e adatta a questo periodo di caldo estivo.
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Sorridi, sei su Candid Camera
La coscienza che le vie dell'insoddisfazione siano infinite vuole che nessun libro appena aperto sia una certezza. Pero' se l'autore e' stato affrontato piu' volte con esito eccellente, un minimo di aspettativa e' umanamente concepibile.
Durante la lettura di "Tre giorni e una vita" ho dovuto controllare il risvolto di copertina con impressa la biografia temendo un caso di omonimia , invece no, si tratta del medesimo Pierre Lemaitre di "Alex" e di "Ci rivediamo lassu'" a firmare questo romanzo.
Piu' che del lavoro di uno scrittore affermato direi che il testo si connota come una bozza - bruttina - di un dilettante allo sbaraglio.
Della sinossi invitante resta ben poco nel testo, che si sviluppa rasoterra nella dilatazione del nulla , questo libro e' l'assioma di quanto zero per zero porti a zero. Certamente una buona narrativa puo' nascere anche da una trama inconsistente, ma allora l'estro della penna e' necessario.
Suspense assente d'eccellenza visto che i meccanismi della scomparsa del piccolo Rèmi sono noti fin dalle prime pagine , per un un omicidio e successive inconsistenze che l'autore descrive in modo piatto, anonimo, insipido, imperturbabile, noioso. La prima meta' del testo e' carente di discorsi diretti che lasciano il lettore amaramente passivo, un misero intransitivo a vagare in periodi mediocri.
La seconda parte , una dozzina di anni dopo, vorrebbe probabilmente scuotere la narrazione aggiungendo un po' di pepe e l'effetto sorpresa , mentre invece ci ritroviamo imbottigliati alla fiera della banalita'. Nell'arena manca Mangiafuoco ma abbondano siparietti scontati intervallati da frasi tra parentesi e punti di sospensione.
Salverei giusto le due o tre pagine finali, per il resto credo sciogliero' la tensione della lettura scrollando le foglie da questo talamo di ortiche, non posso credere sia l'ultimo romanzo di Lemaitre, deve essere uno scherzo, ridiamoci sopra.
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Al femminile
Nel panorama letterario internazionale spiccano le opere di autori israeliani: David Grossman, Yehoshua A. B., Amos Oz, solo per citare i più noti, ai quali si affianca la voce femminile di Zeruya Shalev che con all’attivo cinque romanzi, un libro di poesie e una pubblicazione per bambini, risulta essere una delle autrici contemporanee di lingua ebraica più lette al mondo.
Le premesse per leggere un suo libro ci sono tutte, anche se non si conosce il più famoso “Quel che resta della vita”, il titolo dell’opera ultima e la breve trama riportata in quarta, incuriosiscono al punto giusto.
Il romanzo catapulta il lettore nella vita di Iris, direttrice scolastica, quarantacinque anni, un marito e due figli. Una mattina come tante, nel salone di casa, prima di essere inghiottiti dalla quotidianità, Michi, il marito, ricorda distrattamente a Iris il decimo anniversario dell’attentato che per poco non la strappò alla famiglia. Improvviso si sveglia il dolore, dapprima fisico, prepotente, violento- sarà necessario ricorrere a consulto medico- poi dell’animo, ferito e non guarito da uno strappo emozionale violento subìto in piena adolescenza. Il medico che la visita si rivela essere il suo Eitan, il primo amore, colui che la abbandonò di punto in bianco, smessi i sette giorni di lutto per la morte della madre assistita amorevolmente anche da Iris. Il riconoscersi, il cercarsi, il tentativo di recuperare il tempo ormai perduto per sempre sono i motivi conduttori della narrazione, abilmente intrecciati alla rappresentazione di un quadro familiare in decadenza. Il rapporto tra i coniugi è solido ma intristito da radicate posizioni che li portano a essere due esseri in perenne lotta, i loro due figli, un maschio e una femmina in piena adolescenza, complicano il quadro con le loro urgenze, le loro identità, i loro percorsi di crescita. La famiglia ha subìto, tutta, l’attentato, ne è stata travolta, sconvolta, a fatica si è rimessa in piedi e si è trascinata. Sono rimasti sull’asfalto, insieme alle vittime, sentimenti ed emozioni: l’urgenza li ha cancellati, cristallizzati e nessuno comunica. Tutto è taciuto, tutto è vissuto, tutto è perduto. Un grande pericolo corso dalla figlia maggiore permette infine il recupero, non del passato- è andato-, ma del presente come attimo da vivere nella sua pienezza senza necessariamente catapultarsi verso il futuro.
La narrazione si avvale di uno stile fluido, a tratti ironico, ricco dell’emotività femminile e delle sue fragilità. Colpisce la capacità di penetrare nel profondo dell’animo della protagonista, ci si sente partecipi delle ansie, delle paure, del delirio di onnipotenza che talvolta ci assale mettendo al tappeto noi stesse e chi ci gravita attorno. Io almeno mi ci riconosco, purtroppo. Belle le fragilità e la potenza della donna e della madre. D’altro canto la narrazione scorre liscia e prevedibile verso il finale che risulta armonico e pacificatore strappando anche qualche facile lacrima. Complessivamente una bella storia ma come tante in circolazione; pochi i riferimenti socio- culturali , a parte qualche veduta sul sistema scolastico israeliano che è descritto di riflesso e restituisce un ritratto all’avanguardia, e rari cenni alla delicata situazione politica e all’integrazione del mondo arabo con quello ebraico. Avrei gradito uno spessore maggiore, in questo senso.
Lo consiglio sicuramente a tutte le donne, è una scrittura decisamente al femminile.
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Senza amore non siamo niente
Leggere questo libro è stata per me un’esperienza attraverso l’amore, i sentimenti e il tempo.
L’amore corrisposto, quello che ci manca, quello che ci fa essere delle persone migliori e quello che ci rende più felici. Alex è il protagonista di questa storia, è un ragazzo che ha tutto, una carriera ben avviata, il successo, i fan e soprattutto fa un lavoro che gli piace e che era il suo sogno, il cantante.
Come spesso accade quando si è all’apice della carriera, arriva un momento in cui non si riescono più a trovare nuovi stimoli, dove tutto sembra uguale e dove quello che fino a poco tempo fa ti faceva sorridere ora non riesce più a farlo.
Ad Alex, manca l’ispirazione per scrivere ancora, per un nuovo album, nemmeno l’amore dei fan riesce a colmare il vuoto che sente e che prova.
Il ragazzo pensa spesso ad una ragazza Greta, che per lui è stata un colpo di fulmine, la loro storia d’amore non è nemmeno cominciata, ma Alex è tormentato dal rimpianto e da quello che ci poteva essere e non c’è stato.
Da quello che capiamo loro si incontrano sui social e la ragazza è più giovane rispetto ad Alex, timida e inesperta, decide di non rischiare e lasciare tutto per Alex e vivere insieme il loro amore.
Il libro è pervaso dal tema dell’amore e dal fatto che il cantante ripensi sempre a Greta, oltre che al racconto dei loro incontri, alle lettere che lui le ha scritto e non le ha mai inviate e al forte senso di amarezza che prova Alex, per non aver provato con tutte le sue forze a conquistare il cuore della ragazza.
Le lettere, come anche le foto che Alex posta in rete, sono delle vere e proprie poesie moderne che ci fanno capire che un amore è difficile da dimenticare, ma che però ci si deve provare per riuscire a ricominciare.
E’ possibile dimenticare un amore?
Se come dicono, il cuore ha una memoria, non riusciremo mai a cancellare quello che abbiamo sentito, provato in quel determinato momento con la persona che noi ritenevamo giusta per noi.
“Senza amore non siamo niente” questo è un po’ il succo del libro e quello che l’autore cerca di comunicarci attraverso questa storia.
L’amore è la forza che ci anima, che ci fa sorridere,che ci fa gioire delle piccole cose che facciamo con la persona che amiamo e che ci fa superare le difficoltà rimanendo uniti.
Alex ha una possibilità per cambiare il suo rapporto con Greta e con il futuro, questa parte naturalmente è romanzata e alquanto fantascientifica, naturalmente nessuno di noi può tornare indietro per sistemare le cose. A Parigi, Alex incontra una singolare ragazza Nirvana che porta con sé un tubo di bolle di sapone, in grado di riportare indietro le lancette dell’orologio, in un determinato momento per cambiare il corso di quel giorno in cambio di un anno della propria vita.
Questo può essere anche visto come una metafora che in realtà ci fa capire, che il valore di una persona lo riconosciamo solo quando non è più accanto a noi e alcune volte arriviamo troppo tardi per cambiare le cose.
Se come Alex, avessimo questo tubo di bolle di sapone dove andremo? Quale giorno sceglieremo per cambiare le cose? Ma c’è anche la possibilità che il presente non sia più quello che abbiamo oggi, che alcune cose non rimangano le stesse e allora che fare? E’ meglio rischiare o rimanere nel dubbio?
E se tornassimo indietro ne varrebbe veramente la pena?
L’autore ci dice che “nella vita abbiamo due amore, uno possibile con cui costruire, uno impossibile con cui vivere in sogno ciò che avrebbe potuto essere” e qui ci colleghiamo al fatto del tempo che corre troppo veloce che non torna indietro e che le occasioni non tornano mai due volte, e anche se tornassero non sono mai identiche alle prime ma si presentano in una forma differente mai uguale.
Alex, come Massimo e come tutti noi, abbiamo incontrato nel nostro percorso di vita una Greta al maschile o al femminile, un amore non vissuto, tormentato, ma che non abbiamo dimenticato che sta ancora lì con noi nel nostro cuore.
“L’amore è uno di quei rari combattimenti che finisce pari.”
E’sempre giusto seguire la strada del cuore? O alcune volte è meglio seguire la ragione e quello che ci dice la testa?
Sta a noi decidere.
L’autore ha uno stile veramente particolare, riempie il lettore di parole, che in un certo senso lo stordiscono, lo disorientano ma che lo pervadono anche di bellezza per il bel scritto, per i romanzi che non pensano ti possano sorprendere come questo.
E ‘ un vero narratore d’amore, di quell’amore che non credi possa ancora esistere, in una società dove i rapporti sono sempre più veloci e dove i sentimenti non sono di certo importanti, leggere queste pagine da un senso di speranza verso l’amore.
Alcune volte Massimo ci dà dei consigli amorosi, quasi fossimo davanti a un manuale di vita sull’amore, ma lo fa sempre in punta di piedi senza salire in cattedra, rimanendo umile mettendo in campo anche le sue esperienze.
Dietro il personaggio di Alex sicuramente si nasconde l’autore, che lo anima, gli dà vita ma che in fondo non è molto lontano da se stesso.
Alex è un personaggio credibile, pieno di fragilità e insicurezze si ritrova nel pieno del successo ma si rende conto che è da solo, senza una persona che gli voglia bene, che ci sia nei momenti di felicità e in quelli di crisi.
Il protagonista rimane, o almeno cerca, di essere sempre indipendente, libero e di fare le sue scelte in base alla propria coscienza e al proprio cuore.
Una critica da fare è che in alcuni punti il libro risulta troppo mieloso e la figura di Greta viene idealizzata fin troppo, e alcune volte Alex, mi sembrava un babbeo che non riusciva più a ragionare per l’amore di questa ragazza.
Voi come vi comportereste se aveste la possibilità di tornare indietro e cambiare un giorno solo della vostra vita?
Lo fareste o no?
Consiglio questo libro perché fa bene al cuore, perché in un mondo di violenza, l’amore può essere ancora la nostra salvezza.
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Quando la pensione è un nuovo inizio.
Questo libro non mi ha lasciato nulla.
Non voglio fare una critica spietata perché il romanzo, nel complesso, non è scritto male; la storia è anche interessante. Tuttavia, conclusa la lettura (che in alcuni punti ho faticato a portare avanti) è come se non avessi letto nulla.
Hieronymus “Harry” Bosch è il protagonista di questo romanzo di Michael Connelly, l'ultimo della serie del detective più esperto dell’Unità Casi Irrisolti della Polizia di Los Angeles.
Nonostante sia un detective che indaga su casi “freddi”, questa volta Bosch deve indagare su un caso “caldo”, caldo come il cadavere del Mariachi che muore per avvelenamento del sangue a causa del proiettile che l'ha colpito dieci anni prima e l'ha paralizzato.
A questa indagine si sovrappone quella che Bosch conduce in segreto con la sua nuova partner Lucia Soto, una giovane di origini messicane soprannominata “Lucky Lucy”, arrivata al dipartimento per merito: i due indagano su un misterioso incendio di un asilo in cui morirono molti bambini.
Nonostante non abbia letto gli altri romanzi della serie, a parte alcuni riferimenti al passato del protagonista, non ho avuto problemi nella lettura.
Ammetto che è il primo romanzo che ho letto di questo autore: spero davvero che gli altri testi non siano così. Avevo già sentito parlare di Connelly e del suo detective, quindi quando mi è stata proposta questa lettura ho accettato più che volentieri.
Mi avevano parlato di un detective tormentato, arrogante, sfacciato, che si impegna totalmente per risolvere i propri casi, rischiando anche la propria pelle. Invece ho trovato un uomo rassegnato, triste, ormai prossimo alla pensione. La carriera del grande detective sta ormai volgendo al termine e non si capisce se per Bosch sia un dispiacere o un sollievo.
La lettura di questo romanzo è stata una leggera delusione. Non per la storia, non per lo stile: è un romanzo che non colpisce, scorre lento in più punti, a volte è anche ripetitivo.
Non esalta, non stupisce, non crea suspence come invece un thriller dovrebbe fare.
Non c'è nemmeno una vera analisi psicologica del protagonista: nei libri gialli e thriller in genere l'autore cerca di presentare al meglio il proprio protagonista.
In questo romanzo invece, probabilmente perché l'ultimo pubblicato di una serie, Bosch sembra quasi una marionetta priva di emozioni: parla, agisce, ma, a parte alcuni casi isolati, non sembra essere davvero consapevole delle sue azioni e delle sue emozioni.
Leggerò sicuramente un altro libro della serie: spero (e voglio) ricredermi su Connelly e la sua creatura. Se qualcuno ha già letto altre avventure di Bosch e sa quali sono le migliori, me lo dica perché vorrei davvero leggere un thriller americano avvincente.
Probabilmente questo romanzo è solo una fase di passaggio (mi sembra che negli Stati Uniti sia già uscito il seguito): è una transizione tra il passato e il futuro del detective. Può darsi che sia un modo per preparare il lettore alle nuove avventure di un Bosch ormai pensionato.
Purtroppo, se è così, si tratta di un esperimento poco riuscito.
Quindi, che dire se non “buona lettura?” :)
"Restarono in silezio per qualche minuto. Bosch ripercorse tutti i punti chiave del caso ancora una volta, e non riuscì a demolirli. Era solo una teoria, ma stava bene in piedi. Anche se non significava che per forza fosse andata davvero così. Ogni caso presentava domande senza risposta e capi sciolti, quando si arrivava ai moventi e alle azioni. Bosch pensava sempre che, partendo dal fatto che l'omicidio fosse un'azione irrazionale, non poteva essere spiegato da un'ipotesi del tutto ragionevole. Era quella comprensione che gli impediva di godersi i film e le serie televisive sui detective. Li trovava poco realistici per il fatto che davano al pubblico ciò che chiedeva: tutte le risposte".
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On the road, con sosta al Jay's bar
“Ascolta la canzone del vento” e “Flipper,1973”, i brevi romanzi di esordio di Murakami Haruki, sono parte di una ideale trilogia della quale finora era stata tradotta e divulgata solo la terza parte con il titolo “Nel segno della pecora”. Si tratta di due racconti logicamente collegati, che si snodano intorno alla figura dello studente inquieto che aspira a diventare scrittore e a quella del Sorcio, giovane afflitto dalla solitudine e disilluso dalla vita.
Sono qui già presenti molti dei temi che Murakami affronterà nelle opere successive, più mature e complesse. Nella prefazione alla edizione pubblicata da Einaudi, lo stesso autore racconta come sia nata la sua avventura di scrittore e quali siano state le difficoltà da affrontare per riuscire nel suo intento. In questa prospettiva la figura dello studente di “Ascolta la canzone del vento” contiene numerosi elementi autobiografici. Non c'è dubbio che un’opera vada valutata a prescindere dalle influenze che la biografia dell’autore abbia potuto esercitare su di essa, ma spesso risulta arduo scindere completamente la sfera personale da quella artistica. Ed è così che il giovane studente assomiglia molto al giovane Murakami affascinato dalla musica angloamericana, dal cinema di Hollywood, dai classici degli scrittori europei. Il suo viaggio ideale, gli incontri che condivide con il Sorcio nelle pause trascorse al Jay’s bar, altro non sono che un procedere on the road verso una crescita non priva di dolorose esperienze. Le donne, in entrambi i racconti, non costituiscono relazioni stabili e permanenti. Esse si dissolvono, si allontanano, a volte muoiono, nessuna si fermerà, nessuna diventerà un punto di riferimento. In un succedersi di sentimenti difficili da gestire con equilibrio, ecco che il barman Jay assume una funzione da analista e terapeuta. Una volta ancora Murakami sembra aver risentito dell’influenza del cinema americano, delle scene in cui i personaggi scambiano pochissime ma significative battute col barman che serve loro abbondanti e numerosi drink. Non ci si meraviglia se a volte a questo straordinario autore giapponese sia stata rimproverata la sua predilezione per la cultura occidentale. In un paese come il Giappone, la cui storia è ben nota, non tutti sono disposti ad accettare un atteggiamento così aperto verso gli Stati Uniti. Le frequenti citazioni degli eventi della storia americana che in parte scandiscono i racconti di Murakami, possono sembrare un tentativo di sovrapporre la storia di un paese ad un altro. Ma le cose probabilmente non stanno così. I giovani protagonisti di Murakami appartengono spesso agli anni settanta, sono eredi dei mutamenti e dei sogni degli anni sessanta di cui l’America prima degli altri paesi si fece portavoce. Si tratta di una generazione che in Giappone fu in bilico tra il tragico ricordo di Hiroshima e il sogno di libertà trasgressiva rappresentato da Dean Moriarty. È forse qui il vero coraggio e la vera originalità di Murakami: aver dato voce alla sua fantasia, a volte persino sconfinando in una sfera surreale, superando i limiti che la storia pretende di imporre. In questa prospettiva va inteso il dialogo con il flipper, divenuto una sorta di “astronave” umanizzata. Il flipper racchiude in sé i sogni, le sfide, le esaltazioni di un’epoca magica, un’epoca giunta alla fine, dalla quale con rammarico e nostalgia ci si deve inevitabilmente separare, perché essa rappresenta il passato, mentre l’individuo è proiettato verso il futuro. Non a caso nelle ultime pagine di “Flipper, 1973”, Murakami cita Tennessee Williams: “Il passato e il presente sono quelli che sono, del futuro possiamo solo dire che è probabile.”
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