Le recensioni della redazione QLibri
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Fango
Periferia romana. Un concentrato di persone, odori, immagini. Decine di zone industriali e palazzi grigi dove a storie di dignità, sopravvivenza e riscatto fanno da contraltare degrado e abbandono.
Una banda di quattro modesti criminali ha deciso di rapinare una banca per fare il colpo grosso. Per svoltare.
Sembra un colpo facile, tutto è stato preparato nei minimi dettagli. Ma qualcosa va storto e le sirene dei carabinieri arrivano più in fretta del previsto.
Nel frattempo un ingegnere, un onorevole, un generale dell’ esercito e il direttore generale di un ente pensionistico si accordano per risolvere a modo loro un problema che affligge il paese.
Ovvero il problema delle pensioni. O meglio, dei pensionati. Ce ne sono talmente tanti da aver superato di gran lunga il numero dei lavoratori e da rappresentare un freno all’ economia. Serve un taglio netto, una scrematura. Qualcuno in grado di selezionarli in base a specifici requisiti, e qualcun altro in grado di eliminarli.
Antonio Manzini, celebre per la serie del vicequestore Rocco Schiavone, mescola noir, tragedia e comicità in questo interessante e concitato romanzo datato 2007.
Il linguaggio mi ha in parte ricordato Ammaniti, mentre i personaggi principali mi hanno fatto tornare in mente il personaggio de “ Lo Zingaro “ del celebre ed emozionante film “ Lo chiamavano Jeeg Robot “, un altro delinquente di periferia alla costante ricerca del botto, del colpo grosso.
Le tematiche affrontate con ironia tragica da Manzini sono molto più profonde di quanto lo stile vagamente splatter e grottesco potrebbe lasciar supporre.
Emerge un curioso scontro tra generazioni. Tra quella dei lavoratori, di età compresa tra i 30 e i 50 anni, e quella degli anziani pensionati descritti nel libro come beati egocentrici, approfittatori.
Come se i giovani non perdonassero alla generazione precedente di aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità e di aver contribuito a creare una situazione di crisi economica scaricando tutto sulle spalle degli attuali lavoratori e contribuenti.
Non mancano riflessioni ciniche su una certa categoria di politici preoccupati a mantenere le proprie posizioni di potere, sul fenomeno dei falsi certificati di invalidità, delle pensioni anticipate o eccessivamente onerose.
I protagonisti però non sono la politica, né l’ Inps, né lo scontro generazionale. Sono gli emarginati, quelli a cui la vita non ha mai regalato niente e che oscillano tra rassegnazione e desiderio di scappare. Piccole marionette prive di senso di comunità, criceti che corrono attorno ad una giostra.
E se guardi solo davanti la giostra non ha vie di fuga, e torna sempre al punto di partenza.
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Alice
La trentasettenne Alice Humphrey mai si sarebbe aspettata che quel lavoro, caduto dal cielo proprio nel momento del bisogno, si sarebbe rivelato un’arma a doppio taglio. Quando infatti il sedicente Drew Cambell le propone di gestire una piccola galleria nel Meatpacking District, la “Highline Gallery”, la donna, che da otto mesi è in stato di disoccupazione, accetta senza porsi troppe domande. Non si insospettisce minimamente del fatto che l’autore delle foto esposte, Hans Schuler, non voglia (e si rifiuti di) apparire, né del fatto che un presunto anonimo benefattore lo abbia preso sotto l’ala, né dell’assenza ed irreperibilità di colui che l’ha contattata, tanto che, anche se ritiene il contenuto delle immagini alquanto opinabili, il suo unico pensiero è quello di, almeno per una volta, avere il merito delle sue imprese. Alice, figlia d’arte di Frank Humphrey, regista, e dell’ex attrice, Rose Sampson, nonché sorella del quarantunenne Ben Humphrey, fratello problematico con precedenti in materia di droga, da sempre cerca di riscattarsi dal marchio di “figlia di papà”. Quale migliore occasione? I preparativi iniziano e si prolungano per appena tre settimane; il lancio della galleria non manca di farsi attendere e sorprende addirittura la stessa direttrice che, per quante aspettative potesse nutrire, non sarebbe mai arrivata ad ipotizzare un così eclatante furore e corsa all’acquisto delle foto. Il giorno seguente, le accuse. Pornografia. Pedofilia. Riuscitasi a mettere in contatto con Drew, si accorda col medesimo per parlare dei fatti il mattino seguente. Giunta in Galleria viene subito colpita da una serie di elementi: le vetrate della medesima sono state interamente coperte da fogli di carta da pacchi, all’interno non riesce ad accendere le luci, tutti gli oggetti che ne caratterizzavano l’arredamento sono scomparsi, ed il suo capo è riverso in una pozza di sangue. La polizia, non tarda, inoltre, a sottoporre alla sua attenzione, una foto che sembrerebbe ritrarla nella posa di un bacio col defunto. Ma come questo è possibile, se, di fatto, ella a malapena lo conosceva ed il massimo del contatto fisico avuto altro non era che il premere le proprie dita sulla carotide per verificarne il battito cardiaco? Che qualcuno stia cercando di incastrarla?
Joann Stevenson, ragazza madre, ha cercato di offrire la migliore delle vite alla figlia quindicenne Becca. Adesso che finalmente è riuscita ad ottenere, tra mille sacrifici, un lavoro stabile e una casa di loro proprietà, è fiera di sé e dei suoi traguardi. Da un paio di mesi, inoltre, va avanti la frequentazione con quel docente che le ha rubato il cuore. Il mondo, quindi, semplicemente le cade addosso quando, al mattino si rende conto che l’adolescente è scomparsa. Cosa le è successo? E perché? Che la sua sparizione sia collegata in qualche modo alla Galleria di Alice?
Hank Beckman è stato più volte reguardito: deve smetterla di seguirlo. Deve farla finita. Eppure lui non può, non può non controllare le mosse di colui che è il colpevole della sua morte. Ellen, la cara sorella, aveva una dipendenza, e lui non se ne è accorto in tempo..
Con “Una perfetta sconosciuta” Alafair Burke, dà vita ad un thriller caratterizzato dall’intrecciarsi ed alternarsi di più trame che, piano piano, riportano ad un mistero unico.
L’opera è intrisa altresì di una penna semplice, chiara, gradevole seppur talvolta tenda ad anticipare troppo. Si legge facilmente ma non conquista per pathos ed intensità risultando a tratti acerba. Il lettore ha la sensazione di trovarsi in una dimensione in cui non è completamente parte, come se vi fosse un vetro tra lui e il contenuto dello scritto. Lo sviluppo degli avvenimenti è buono, seppur prevedibile.
Non solo. Se in un primo momento la lettura prende ed incuriosisce, nel resto il testo è tutto un sali/scendi, e questo proprio perché se da un lato è facile - come anzidetto - intuire le intenzioni della scrittrice (riuscendo così ad anticiparne le mosse), dall'altro, la stessa, "caricandolo" eccessivamente, finisce col renderlo macchinoso.
Nel complesso "Una perfetta sconosciuta" è un prodotto apprezzabile ma non eccelso, un volume con una buona base di partenza ma penalizzato dal "voler mettere troppo", dal "voler far troppo".
Consigliato a chi ama il genere o a chi cerca una lettura senza pretese, piacevole con cui trascorrere qualche ora diversa.
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Tre piani dell'anima
Un libro bellissimo che è anche una grandissima e corale "confessione".
Un romanzo che ci mostra la necessità di raccontare e raccontarsi per potersi liberare di tutti i fallimenti, le psicosi, le paure e le debolezze umane.
E magari trovare anche il modo di pagare per i propri sbagli.
(Perché, a quanto pare, nel giudaismo non è sufficiente pentirsi...bisogna "riparare".)
Una palazzina di tre piani, nei pressi di Tel Aviv.
Al primo piano c'è Arnon, padre furioso e convinto che la sua bambina sia stata oggetto di molestie da parte di un vicino affetto da Alzheimer...(si racconta ad un suo vecchio amico scrittore).
Al secondo piano troviamo Hani con i suoi barbagianni che le parlano dall'albero e lo spettro della follia che non le dà tregua...(scrive una lunga lettera alla sua più grande amica di sempre).
Al terzo piano vive Dvora, vedova e giudice in pensione, alla ricerca della sua strada e del modo per poter espiare le proprie colpe...(dialoga con suo marito morto attraverso una vecchia segreteria telefonica).
Tre vite, tre confessioni, tre voci intime...altro non sono che un'allegoria per rappresentare i tre piani freudiani dell'anima.
Arnon con i suoi istinti e le sue pulsioni abita il piano dell'Es, del principio del piacere.
Hani con il suo essere sempre in bilico tra sogno e verità è l'inquilina perfetta del piano dell'Io, che coniuga desideri e principio di realtà.
Dvora, con il suo essere donna ligia e irreprensibile, abita il piano di Sua Altezza il Super-Io, il censore che richiama all'ordine.
"I tre piani dell'anima non esistono dentro di noi.
Esistono nello spazio tra noi e l'altro, nella distanza tra la nostra bocca e l'orecchio di chi ascolta la nostra storia.
E se non c'è nessuno ad ascoltare, allora non c'è nemmeno la storia".
Una scrittura bellissima, coinvolgente, che si dona al lettore senza filtri, senza artifici...consapevole dell'intensità delle parole pronunciate da personaggi terribilmente umani, giunti ad una fase della vita in cui non possono più custodire i propri segreti, dove il bisogno d'amore, di perdono, di espiazione è diventato così forte da costringerli a mettersi a nudo, consegnandoci tutte le loro fragilità.
Un romanzo, a mio avviso, nettamente superiore a "La simmetria deidesideri" (che pure avevo apprezzato)...tanto da farti desiderare, giunta all'ultimo piano, di poter continuare a salire...
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Le donne possono essere dipinte. Non dipingere.
Alla National Gallery di Londra è esposto un dipinto del pittore spagnolo Isaac Robles. Raffigura una ragazza che regge la testa mozzata di un’altra ragazza. Sembra l’illustrazione di una favola, forse di un racconto biblico. Ma quello che colpisce sono i colori vividi, enigmatici, magnetici: l’ocra e il verde dei campi, il ruggine dei solchi della terra, il livido indaco del cielo.
Questo quadro sparì inspiegabilmente dalla Spagna durante la guerra civile e fu ritrovato trent’anni dopo in una magione inglese. Ed è quest’opera elusiva e seducente, dal significato oscuro e dalla storia misteriosa, a costituire il collegamento tra le due narrazioni che Jessie Burton propone in questo suo ultimo lavoro.
Da un lato la storia del ritrovamento del dipinto nella soffocante e razzista Londra dell’estate 1967, che si intreccia con la vicenda di Odelle, giovane immigrata caraibica, aspirante scrittrice, arrivata da Trinidad per inseguire il proprio sogno. Dall’altro la nascita del quadro nell’affascinante e pericolosa Spagna del 1936, già scossa dai primi lampi di guerra, e la storia della diciannovenne Olive, con il talento e la vocazione per la pittura, ma senza il coraggio di uscire allo scoperto e affrontare i pregiudizi che vedevano l’arte appannaggio del solo universo maschile.
Entrambe le protagoniste, determinate nella propria passione e generose verso la vita, dovranno fare i conti con i pregiudizi della società e la difficoltà di scindere la propria creatività dal bisogno di approvazione. Entrambe troveranno forza e ispirazione dai luoghi e dalle persone che incontreranno lungo il proprio cammino. Personaggi non sempre positivi, ma egoisti, imperfetti, infedeli. Ed è proprio l’ambiguità dei personaggi, oltre al senso di tensione generato dal mistero del dipinto, svelato a poco a poco, ad animare il romanzo fino alla fine.
"Ma esistono davvero l'"intera" storia e la "fama mondiale", ossia il modo giusto di guardare uno specchio? Tutto dipende dal riflesso della luce".
Jessie Burton segue in qualche modo la strada già intrapresa con “Il miniaturista”, proponendoci un nuovo romanzo a sfondo storico. “La musa” è un’opera dall’intento ambizioso, che vuole parlare di arte e creatività attraverso la ricostruzione di due periodi storici. L’idea è di certo valida e non si può non rendere merito all’autrice dell’attenzione per i dettagli e dell’occhio pittorico con cui ha saputo immaginare e descrivere suggestive atmosfere. Ciononostante, la sensazione che rimane, a fine lettura, è purtroppo quella di una certa superficialità sia per quanto riguarda l’approfondimento storico, sia per quanto riguarda la rappresentazione degli stati interiori e la crescita psicologica dei personaggi. Pur rivelando una certa fragilità, rimane comunque un buon prodotto, sincero e originale, apprezzabile soprattutto per la vividezza immaginativa.
“Un'opera d'arte ha successo solo se chi la crea possiede la convinzione necessaria per renderla reale”. In questo Jessie Burton ha raggiunto sicuramente l’obiettivo perché, pur sapendo che né il magico quadro né il pittore Isaac Robles sono mai esistiti, io alla National Gallery cercherei quell’ocra, quel verde e quell’indaco che mi si sono rimasti stampati nella mente.
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Essere l'altra
Quando penso all’amore ho tra le altre cose, l’immagine di una bella coperta calda che mi avvolge, che mi scalda e mi conforta, ma se l’amore è addosso allora questa immagine si modifica e diventa qualcosa di più opprimente, di soffocante.
Sara Rattaro con il suo nuovo romanzo “L’amore addosso” mette in “ballo” molte cose. Se l’inizio può quasi sembrare da telenovela, il messaggio che arriva è bello forte.
La protagonista è Giulia, una donna non proprio nelle mie corde. Un passato pesante che si porta dietro, l’ha resa molto diversa dalla donna che poteva diventare “Tu non l’avresti mai fatto. Sono gli altri che scelgono per te”. Una donna divisa a metà, non solo nel ruolo di moglie e amante ma anche nel ruolo di quella che poteva essere e di quella che non è diventata. Dall’esterno la sua sembra una vita appagante, titolare di un’agenzia di comunicazione, sposata con un uomo facoltoso scelto da lei e circondata da una famiglia compatta. Basta veramente poco per rendersi conto che invece Giulia dentro di se nasconde un mondo.
Sara Rattaro mette in difficoltà il lettore più tradizionalista presentando una storia che fa riflettere e giudicare più volte, arrivando addirittura a “storcere il naso”. Una protagonista che da una parte la scusiamo, dall’altra la accusiamo. Se Giulia avesse avuto una madre meno opprimente, la sua vita sarebbe stata diversa? Se i segreti, anche quelli più innocui si potessero confessare, non si vivrebbe meglio? L’amicizia fra uomo e donna può esistere? Ognuno di noi può dare risposte diverse, anche la Rattaro da le sue e con “L’amore addosso” affronta molti argomenti scottanti.
Un libro che parla di un amore soffocante, di un amore mai condiviso, d’incomprensioni e di scelte sbagliate “Il desiderio è quell’impulso innato che spesso ci mette nei guai”.
L’autrice utilizza una scrittura semplice, diretta e molto chiara, senza l’utilizzo di un linguaggio aulico. All’interno del libro si trovano diverse parti scritte in corsivo, in quelle la Rattaro da il meglio di se.
Un libro che colpisce, che fa indignare in alcune parti e sperare in altre. Un libro più indicato per un pubblico femminile.
Vi lascio con questa frase:
“”Devi portarti addosso un dolore enorme”.
“No, addosso mi porto tutto il suo amore”.
Buona lettura!
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C’è abbastanza odio per tutti
Fino a ieri non sapevo dell’esistenza dell’autrice norvegese Anne Holt che con ben due serie è diventata una delle autrici scandinave più famose. Per colmare questa lacuna mi sono subito messa a leggere “La paura”.
Adocchiando le altre recensioni sono partita un po’ prevenuta nei confronti dell’autrice. Non molti commenti positivi per un’autrice che ha scritto davvero molto.
“La paura” è ambientato principalmente tra Oslo e Bergen, siamo ovviamente in Norvegia e il periodo non è dei più caldi, il Natale è alle porte e la Vigilia si tinge di rosso. Il vescovo Eva Karin Lysgaard viene accoltellata in mezzo alla strada, una donna così amata e rispettata che diventa difficile trovare il movente. Per cercare di rendere il tutto più “chiaro” da Oslo viene chiamato il detective Yngvar Stubø anche perché di cadaveri ne vengono ritrovati più di uno..non sarà però il solo a occuparsi di questa storia, molte menti collaboreranno fra loro.
Non sono un’amante dei thriller troppo forti e gli horror mi fanno proprio paura, quindi quando ho visto il titolo, ero un po’ “impaurita”. Anne Holt mostra molti tipi di paura, come quella di perdere un figlio, di sentirsi in pericolo, di aver perso l’amore e altre sue sfaccettature; ma la sua paura rimane solo su carta, non tocca il lettore. Solitamente per la sera mi riservo sempre letture più leggere per poter “accompagnare” meglio il sonno, il fatto che abbia continuato la lettura di questo testo anche “dopo cena” dovrebbe rendere bene il contenuto dell’opera.
“La paura” è ben scritto, sono abituata ai nordici e anche se questo è poco adrenalinico, la mente del lettore è stimolata e ben attiva, per cercare di capire la giusta pista da seguire. Inizialmente la Holt esagera, disorienta il lettore con storie disconnesse, alternate e “condite” poi con molti protagonisti, con nomi ovviamente impensabili da pronunciare. Ma poi la situazione migliore, quando s’incomincia a capire dove l’autrice vuol andare a parare e così diventa più semplice far tornare i vari tasselli nell’ordine giusto.
Anne Holt mostra la società norvegese, ce ne fa apprezzare la sua solidarietà e la sua apertura mentale; al contempo mostra però anche una Norvegia in cui i tempi stanno cambiando, dove la crisi e gli impieghi “pubblici” non sono poi così diversi dai nostri. Credo che la Holt in questo libro abbia messo qualcosa di se, ho letto la sua biografia ed è difficile non riscontrare qualche collegamento personale con lei, specialmente nella scelta dell’argomento principale del romanzo.
In conclusione, un buon giallo, con una trama interessante anche se la parte centrale, che ho preferito, mette un po’ in ombra il finale che sicuramente è fatto bene ma non incisivo come invece avrei preferito. Impossibile non innamorarsi di Kristiane e Ragnhild, la loro presenza arricchisce la storia.
Buona lettura!
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C’è del marcio in Hamilton Terrace
Eccolo l’Amleto del ventunesimo secolo, eccolo a testa in giù che si muove con cautela, protetto dal rassicurante liquido amniotico, eccolo che osserva a occhi chiusi la realtà che lo circonda e di cui ben presto farà parte. Di essa percepisce gli odori, i profumi e i miasmi. Dà libero sfogo alla sua immaginazione e dà corpo a coloro che ancor prima della sua nascita fanno parte della sua esistenza.
È lui, come l’Amleto shakespeariano, testimone involontario del crimine commesso da sua madre Trudy e suo zio Claude ai danni di suo padre John Cairncross, è lui l’eroe tragico moderno che si dibatte nel dubbio se sia possibile vivere in un mondo corrotto e violento, o se sia meglio non nascere affatto. Essere o non essere, nascere o non nascere è l’interrogativo che egli si pone, di fronte a una realtà dolorosa e inaccettabile. Con la capacità speculativa dell’intellettuale, il nostro feto si chiede se sia possibile conoscere il mondo presente o quello futuro: “Che ne sarà del Medio Oriente, […..] si riverserà in Europa trasformandola una volta per tutte? È ipotizzabile che l’Islam immerga un’estremità febbricitante nel fresco stagno della riforma? O che Israele conceda qualche centimetro di deserto agli sfrattati? Il sogno laico di un’Europa unita potrebbe dissolversi dinanzi a odi antichi, meschini nazionalismi, catastrofi finanziarie, discordia. Gli Stati Uniti andranno incontro a un lento declino?” C’è tanto di Shakespeare in queste pagine bellissime, come c’è tanto dei suoi personaggi nelle figure di Trudy, in parte Gertude, in parte Lady Macbeth, e di Claude, in parte Claudio, in parte Iago. Né si può tralasciare di notare che lo stesso McEwan riconosce a Claude le caratteristiche dell’uomo del Rinascimento, l’uomo nuovo, destinato a divenire il centro di una società completamente sovvertita, dove profitto, interesse, complotto e volgarità regnano sovrani, “un Machiavelli vecchio stampo, convinto di poterla fare franca.”
A questi personaggi negativi, tuttavia, si contrappone il vecchio modello, nel personaggio di John Cairncross, il poeta, studioso di Keats, legato a un mondo fatto di bellezza e di arte. E come in moltissime altre opere di McEwan, anche in questo romanzo si esalta la funzione della letteratura e della poesia, in particolare, a cui è affidato il compito di mettere ordine nel caos di un mondo degradato, al fine di restituirgli la dignità perduta.
La vicenda di Claude e Trudy, così come ci giunge attraverso la descrizione del piccolo nascituro, diviene metafora della condizione del mondo, troppo spesso difficile da accettare. Essere o non essere? Combattere o accettare? La vita prevale sul resto. E “tutto il resto è caos”
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Ogni respiro è una scelta.Ogni minuto è una scelta
Che cos'è la vita di un uomo se non un susseguirsi di scelte? Basta rifletterci un attimo per rendersi conto che ogni istante della nostra vita è una conseguenza di una scelta fatta nell'istante prima.
Certo ci sono scelte quasi automatiche che governano impercettibilmente la routine quotidiana e scelte che invece hanno il potere di innescare una serie di eventi a catena spesso imprevedibili e tali da stravolgere la vita, in senso positivo o negativo.
Anche le persone che incontriamo o sfioriamo nella nostra vita, conoscerle o non conoscerle, viverle o lasciarle andare, dipende esclusivamente dalla scelta fatta in un attimo; pur non rendendocene conto, in un attimo si gioca il nostro destino e quello di chi abbiamo vicino.
E Simon è uno di quegli uomini che preferirebbe evitare le scelte troppo difficili, qualcuno potrebbe definirlo un vigliacco, uno smidollato, lui però vuole solo evitare di complicarsi troppo la vita, preferisce rinunciare a qualcosa, mettere da parte i suoi desideri, le sue ambizioni se conquistarle significa scontrarsi ed entrare in conflitto con altri.
Per questo quando la sua ex moglie cambia il programma per le vacanze natalizie e decide di mantenere i figli con lei, Simon si ritrova solo nella casa al mare del padre dove avrebbe voluto trascorrere il Natale con i figli rinunciando anche alla vicinanza di Kristina, la sua nuova compagna, che già aveva accettato a malincuore l'intenzione di Simon di non presentarla ai suoi figli.
E ha ragione Kristina quando gli rinfaccia la sua pusillanimità e adesso ne paga le conseguenze: pur di non contraddire la ex moglie Simon si ritrova solo, a pochi giorni dal Natale, senza figli e senza Kristina, in una casa lungo la costa francese che di certo non offre molte attrattive nel periodo invernale, freddo e piovoso.
Simon è consapevole di tutto cìò, avverte forte il desiderio di cambiare, sin da giovane quando subiva silenziosamente e passivamente la prepotenza e l'arroganza del padre; ma in tanti anni non è mai riuscito a dare una svolta alla sua vita che probabilmente si sarebbe trascinata inerte per molto tempo ancora se quel giorno, passeggiando lungo la spiaggia, non avesse incontrato Nathalie.
Una ragazza giovane, poco più che ventenne, dall'aspetto trasandato ed apparentemente denutrita per quanto era magra; stava discutendo col guardiano di un appartamento sulla costa che l'aveva scoperta al suo interno e temeva fosse una ladra.
Lei invece cercava solo un rifugio, era spaventata, tremava per il freddo e la fame, e non voleva aiuto dalla polizia.
Simon intuisce che c'è qualcosa di strano in quella ragazza ma è troppo scossa e debole per parlarne, sembrava quasi sul punto di svenire.
Perciò decide di ospitarla almeno per quella notte, non può abbandonarla lì sulla spiaggia nè tanto meno può consegnarla alla polizia per quanto mostra di esserne terrorizzata.
Ecco la scelta decisiva, il bivio che porta la vita di Simon su una strada che non avrebbe mai immaginato di poter percorrere: se non avesse ceduto alla richiesta di aiuto di Nathalie e avesse seguito il suo istinto che lo avvertiva del pericolo imminente, non si sarebbe trovato invischiato in una vicenda intrisa di brutali omicidi, una scia di sangue che sembrava allargarsi a macchia d'olio e che prima o poi avrebbe coinvolto anche lui e Nathalie.
Charlotte Link, autrice di spicco in Germania, ci regala un thriller dal ritmo serrato con una trama che s'inerpica intorno alla vicenda di Nathalie come un ramo di vite intorno ad un traliccio, crescendo di intensità ed arricchendosi progressivamente di nuovi personaggi e storie dai risvolti drammatici, storie di povertà, sfruttamento, disagio e malessere psicologico: storie di vita nate da scelte decisive, cruciali e purtroppo sbagliate.
Tutto scritto in modo scorrevole ma non superficiale, nessun dettaglio viene lasciato al caso soprattutto nel delineare il profilo e la personalità dei vari personaggi.
Piuttosto vorrei criticare il soffietto editoriale in quarta di copertina: 'La scelta decisiva non ha una parola di troppo' (Bild am Sonntag).
Ecco, forse l'unico difetto del romanzo sono proprio le parole di troppo: spesso uno stesso concetto viene inutilmente ribadito più volte tanto da risultare quasi snervante.
Nel complesso, però, l'autrice riesce a mascherare questa imperfezione con la fluidità della sua penna.
"Il presente non sta fermo, avanza ogni secondo. La loro vita invece non lo avrebbe fatto. Era congelata. Nel terrore. Nell'incertezza. Nell'attesa. Ma anche nella speranza. Era questo che li avrebbe tenuti in vita: la speranza. Forse ingannevole, forse perfida. Ma era l'unica cosa che avevano."
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Pronti, partenza...Nulla
Un bar di paese che non ha seguito la modernità dei tempi, rattoppato in una involuzione ormai fatale. Il vecchio bancone e la formica ingiallita dei tavoli, la tendina lisa alla porta ed i vetri opachi solcati da striature scure. Un ritrovo di periferia dove restano in pochi, ma la cui assenza piu’ greve pare essere quella del buon Nullo.
C’e’ un motivo per cui Nullo e’ uscito dal gruppo, una carota fresca e stuzzicante che l’io narrante ci sventola davanti alle fauci asinine, camminando a ritroso fino all’infanzia per parlare di quel ragazzino solitario e dal ventre gonfio. “Panzon” lo chiamavano, con un fare canzonatorio che gli avrebbero riservato per tutta la vita.
La sinossi del libro mi sembrava avesse un non so che di allettante, la copertina mi infondeva un senso di pace nell’anticamera di un panorama cupo e affascinante. Eppure il titolo cosi’ significativo mi avrebbe dovuto avvertire, fermare in tempo: “Vita di Nullo”, nulla, zero.
Il nulla e’ cio’ che ho vissuto leggendo, zero e’ quel che resta di questo scritto piuttosto breve.
Tacendo sulle motivazioni che hanno spinto il nostro buon uomo a sparire, di una banalita’ imbarazzante, credo di avere nella miglior delle ipotesi individuato l’intento dell’autore. Rivivere cioe’ una realta’ di paese degli anni Ottanta, cose di ragazzi, la scuola e poi la Fiat 127, gli stereo, gli impianti a metano e il carburante troppo costoso. Ma dai soli intenti non nascono bei romanzi.
La scrittura e’ scorrevole ma piatta , il corpo del libro ha la fragilita’ ossea della creta in un mattino di sud est asiatico durante la stagione monsonica.
Il personaggio di Nullo non ha il carisma dell’incompreso, che solletica la solidarieta’ alla platea dei lettori. Nemmeno la disperazione della vittima di bullismo, che riscuote l’appoggio ed il tifo del pubblico verso la rimonta. Non posso nemmeno dire di avere trovato sollievo nella benedizione di una mera empatia, che salva l’insalvabile, talvolta.
Nullo, Zero, Nulla e così sia.
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Fiume terra, fiume cielo
Romanzo bipartito con netta preponderanza attribuita alla prima parte”Di qua dalle mura” e un ruolo catartico e risolutivo alla seconda “Di là dalle mura”. Un unico elemento di congiunzione : il fiume, dapprima associato alla terra, poi al cielo. Il fiume: elemento naturale teso allo scorrere, al non ritorno, destinato ad una foce, giunto da una sorgente. Anche Lulù , giovane laureata in agraria, fortemente ancorata alla sua terra, nutrita dalla speranza che essa possa essere salvifica, ha un luogo aspro nel quale è nata, giunge dolorosamente a percorrere il letto della sua vita, partendo torrente irrequieto, irrisolto, e scavandola, la terra, per trovare la sua foce.
Questa è la storia di Lulù, ripercorsa con l’alternarsi della narrazione e delle lettere che Giosuè, il padre, le scrive, da quando lei è partita e lo ha abbandonato, là sull’appennino, perso nel suo sogno utopico di poter fondare una città ideale, avvilito e profondamente deluso dalla corruzione politica e dall’agonia del partito socialista. Lui, solo, ha plasmato la sua Lulù, ha scelto per lei imponendole studi in agraria dopo averla allevata in solitudine all’amore per la terra, ancestrale, atavico. Nora, la moglie, non può, depressa dapprima poi persa nel buio della mente: non è mai stata moglie, non è mai stata mamma. A suo modo, oltre le lacerazioni inferte alla figlia per gli abbracci mancati, per le stranezze comportamentali, per il suo grande abbandono in presenza, anche lei ha trasferito qualcosa alla ragazza.
“Se mi tornassi questa sera accanto” riprende un verso di Alfonso Gatto, tutto lo scritto in realtà è puntellato di citazioni, abilmente mimetizzato in un pensiero creativo che da esse ha tratto origine, si tratta per lo più di versi e una nota finale dell’autrice riporta alle fonti. La scrittura è di certo interessante e il contenuto originale, la Pellegrino è una storica dedita all’”abbandonologia”, scienza poetica alla quale la stessa aveva già dedicato il suo romanzo d’esordio “Cade la terra”. Potrei dire che la sua scrittura esercita il fascino dei luoghi abbandonati a cui manca però quell’afflato vitale che si può cercare di costruire ma che non arriva diretto al cuore. Bella storia, interessante triade di personaggi, aridità emotiva.
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Una Norvegia cupa e ammalata
Eccoci alle prese col secondo capitolo della trilogia ideata dallo scrittore norvegese Ingar Johnsrud, che ha come protagonisti i due detective Fredrik Beier e Kafa Iqbal.
"I cacciatori" è il seguito diretto de "Gli adepti", e racconta un'indagine apparentemente separata dalla prima (e comprensibile anche a chi non ha letto il primo libro), ma che segue un unico filo conduttore.
Posso dire, avendo letto anche il prequel, che l'autore alza leggermente l'asticella della qualità, gestendo meglio e aumentando i momenti di suspence e allontanandosi un po' dagli stereotipi dei quali era pieno "Gli adepti", riuscendo a incuriosire il lettore e spingendolo, per buona parte del tempo, a voler andare avanti nella lettura.
Personalmente, l'autore ha generato in me la curiosità necessaria a voler sapere come si conclude la storia e quindi a leggere il terzo libro. Questa non è una cosa banale, considerando che mostri sacri come Stephen King non ci sono riusciti, ad esempio con la sua ultima trilogia che ha come capostipite "Mr. Mercedes".
Dunque complimenti a Johnsrud.
Beier è prigioniero della sua sofferenza, di un passato che lo tormenta e non gli permette di andare avanti con una vita normale, prendendosi cura dei suoi affetti.
Il ritrovamento di due cadaveri che in apparenza appartengono allo stesso uomo, porterà Beier e Kafa Iqbal a lavorare nuovamente insieme, dopo un inspiegabile allontanamento. Tuttavia, non è il ritrovamento del "doppio cadavere" il vero fulcro di questa storia, né il fattore più misterioso. Ci troveremo nel bel mezzo di intrighi che coinvolgono molte persone importanti, i servizi segreti, lo stato norvegese e la Russia.
Anche in questo sequel, ci troveremo a seguire una storia parallela raccontata in flashback, che ci spiega cosa ha portato ad alcuni avvenimenti del presente senza distogliere troppo l'attenzione dalla storia principale.
"Senza la morte, la vita non avrebbe valore. Le cose eterne non valgono nulla. L'aria, per esempio. Priviamo dell'aria una persona per una minima frazione della sua vita, e tutto svanisce. Bastano dieci minuti, per chiunque di noi. Eppure l'aria non ha valore. Ce n'è talmente tanta che la crediamo eterna."
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L'America ed i suoi sogni infranti...
Tre generazioni, tre piani temporali...e un comune denominatore: Nelson "il Trombettiere" e lo scoutismo.
Wisconsin.
Siamo nel 1962 e iniziamo a conoscere un Nelson tredicenne, durante una delle settimane più difficili della sua vita al campo scout, dove viene continuamente fatto oggetto di scherno e di violenza da parte dei suoi coetanei: essere uno bravo, sempre ligio al dovere, fedele ai principi di giustizia e lealtà, non ti rende popolare né benvisto dai pari...almeno fino al giorno in cui non dovrai calarti e nuotare in una latrina da campeggio per recuperare una monetina.
Nelson lo fa. Nelson non si sottrae mai al suo dovere, fosse anche uno stupisissimo pegno di gioco.
Lui, il trombettiere dalla tromba ammaccata (e pisciata dai compagni), non ha amici...tranne Jonathan, un quindicenne che riesce a concedergli qualcosa che si avvicina all'amicizia.
Nel 1996 ritroviamo Nelson e Jonathan adulti (la vita li ha separati, ma non persi) alle prese con Trevor, il figlio sedicenne di Jonathan...e il tentativo di suo padre di distruggere la sua purezza, il suo sguardo incantato, il suo amore pulito per Rachel...alla vigilia della settimana al campo scout.
Tette al silicone e una cicatrice di cesareo saranno il metodo scelto per l'iniziazione al disincanto.
Ed infine ci ritroviamo nel 2019, ancora al campo, ma stavolta ci sono Rachel e Thomas, figlio di Trevor...ed un Nelson ormai settantenne che si ritroverà ancora a combattere per il giusto, contro un'America che fa acqua da tutte le parti.
Sullo sfondo c'è la guerra in Vietnam, l'11Settembre, l'Afghanistan...
Ogni passaggio temporale rappresenta uno snodo importante per la vita dei protagonisti (qualcosa cambia per sempre) e per una terra che vede sempre piu i suoi sogni infrangersi...
Un romanzo tutto al maschile, sull'amicizia, sul coraggio, sulla crescita, sui rapporti matrimoniali e genitoriali.
Ne viene fuori l'immagine di un' America ferita, senza più sogni, guerrafondaia, che non ha più spazio per gli eroi, né per i boyscout e la loro solidità.
Un bel romanzo...Butler riesce a legarti ai suoi personaggi e ai suoi luoghi in un modo difficile da spiegare: è come se ti avvolgesse in una coperta calda, come se ti facesse entrare dentro una canzone che hai voglia di ascoltare fino alla fine.
Tuttavia, secondo me, non è riuscito a ricreare l'atmosfera intima di "Shotgun Lovesongs"...quella ballata struggente che avrei voluto non finisse mai.
Ma lui è uno bravo davvero.
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Al lupo ! Al lupo !
“ A cantare fu il cane “ è l’ ultimo romanzo di Andrea Vitali, medico originario di Bellano e scrittore di straordinaria prolificità. Si pensi ad esempio che nel 2014 l’ autore è riuscito nell’ impresa di pubblicare sette libri.
Non è stato il mio primo incontro letterario con Vitali, di cui avevo già letto il simpatico “ Galeotto fu il collier “.
L’ ambientazione è la medesima, la graziosa Bellano degli anni ‘30 immersa in un’ insopportabile calura estiva che neanche il vicino Lago di Como riesce a stemperare.
“ Al ladro ! Al ladro “. Il grido di Emerita Panicarli, residente in via Manzoni, irrompe nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1937. Poco dopo il maldestro e noto delinquente locale Serafino Caiazzi viene acciuffato dalla guardia notturna Romeo Giudici in seguito ad uno scontro fortuito.
Cosa ci faceva il Caiazzi nei paraggi di casa Panicarli proprio quando quest’ ultima gridava “ al ladro “ ? Possibile che abbia cercato di addentrarsi in quella casa che tutti sanno essere presidiata da un temibile e vigile cane bastardino pronto ad azzannare chiunque non sia della famiglia ?
Sembra un caso di facile risoluzione per il maresciallo dei carabinieri Ernesto Maccadò. Una ghiotta occasione per l’ ampolloso corrispondente del quotidiano locale Fiorentino Crispini, da tempo a secco di articoli significativi.
A complicare la situazione la scomparsa del giovane paesano Filippo Buonavigna e la presenza temporanea del Circo Astra, la cui fama è dovuta alla conturbante escapologa eritrea Omosupe.
Anche stavolta, il romanzo di Vitali è garanzia di genuino divertimento.
I capitoli brevissimi, l’ ambientazione paesana e una galleria variopinta di personaggi più o meno pettegoli e intrecciati tra loro accompagnano rapidamente il lettore al termine della seppur non breve lettura ( 416 pagine ) con il sorriso perennemente stampato in faccia.
Personaggi comuni in cui ognuno di noi si riconosce almeno parzialmente, testimoni e attori di una piccola realtà paesana dove, specialmente all’ epoca, ognuno sapeva veramente tutto di tutti.
Le vicende narrate sono cariche di garbato umorismo e a sorprendermi di Vitali è ancora una volta l’ abilità nel sapere raccontare una storia, qualunque essa sia. Non meno rimarchevole è la capacità di utilizzare un lessico dalla particolare punteggiatura, frenetico e rapido, impreziosito di alcuni vocaboli desueti e per questo ancora più simpatici.
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Delicato, semplice, essenziale: Kent Haruf!
Le nostre anime di notte - Kent Haruf
Avendo letto e soprattutto, essendomi piaciuta, tutta la precedente trilogia aspettavo questo ultimo libro di Hauf con trepidazione. In Italia si è scatenato una sorta di culto per questo autore e che soprattutto on line assume i contorni di un hype (successo iperbolico) al quale è difficile restare indifferenti e che porta ad una naturale curiosità verso l’opera dell’autore della trilogia della pianura.
Detto questo ho iniziato il libro aspettandomi di trovare Holt e le sue atmosfere (Holt è la cittadina immaginaria inventata da Haruf dove si ambientano tutte le sue storie) e non ne sono rimasto deluso; in questa storia i protagonisti sono un uomo, Louis Waters, e una donna Addie Moore ormai in là con gli anni entrambi vedovi e entrambi soli. Per vincere questa solitudine iniziano a frequentarsi a casa di Addie di sera per parlare guardando le stelle; pian piano la loro relazione atipica inizia a far scalpore nella pur sempre piccola cittadina di Holt e a questo si aggiungerà il piccolo nipote di Addie che verrà parcheggiato dalla nonna da un padre a dir poco discutibile. Bella la forma di raccontare, la semplicità delle parole e dei sentimenti messi in mostra. Si sviluppa subito una certa empatia per i due protagonisti e in seguito una vera e propria simpatia anche per il piccolo ragazzino che è davvero un amore.
Come già detto lo stile di Haruf è semplice e lineare, lui ha sempre detto che voleva scrivera quanto più vicino all’osso dei sentimenti e delle emozioni umane e ci è sempre riuscito. I suoi personaggi sono persone comuni, con storie normali che fanno cose normali e forse proprio per questo piacciono tanto qui da noi in Italia che di super uomini ne abbiamo abbastanza.
Tra le pagine di questo romanzo in molti hanno sentito la fretta dell’autore nel terminare il racconto, una fretta determinata dalla sua malattia che se lo sarebbe portato via poco dopo aver consegnato questo scritto alle stampe. Personalmente ho avvertito ancora di più una certa urgenza di raccontare un periodo della vita, quello dell’anzianità, e un particolare aspetto quello della solitudine che è molto trascurato al giorno d’oggi dove nessuno ammette di essere solo e dove gli anziani sono considerati un peso. Invece da queste pagine traspare una speranza, la possibilitá che anche se il fiore degli anni sia già passato ancora qualcosa di buono può arrivare.L’importante è restare aperti verso gli altri e non dire mai: alla mia età non me lo posso più permettere, soprattutto se si parla d’amore!
In definitiva Le nostre anime di notte è un bel libro, corto, che si legge molto facilmente e che parla al cuore in maniera delicata. Si l’aggettivo giusto per questo libro è delicato!
Ai più attenti non sfuggirà una piccola autocitazione alla vechia trilogia, un sorriso mi si è disegnato in volto a pensare a quei personaggi. Bravo Kent!
E adesso non resta che aspettare la prossima uscita del film tratto da questo libro, con Robert Redford e Jane Fonda che fanno ben sperare per una degna trasposizione cinematografica di un bel libro.
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Favolosamente siberiane
In questa breve raccolta di fiabe il tutto sembra nascere da un lembo di saggezza popolare. Il finale di ogni favola e’ infatti un proverbio o un’usanza tipica che, come un seme fertilizzato nella dura tundra russa, getta le basi per l’arbusto che raccontera’ di lui.
Cosi’ tradizione e leggenda si fondono in brevi componimenti dove il filo conduttore e’ ricorrente.
Nel grande regno della natura siberiana la nobilta’ e’ della gente semplice, che utilizza solo il necessario senza impadronirsi della terra e delle sue risorse. In un mondo dove il potere coincide con la corruzione, l’usurpatore incede, tenta di sopraffare il debole finche’ giustizia non verra' ristabilita con la forza, con l’astuzia o con l’incantesimo.
Si scoprono grandi spazi nei panorami selvaggi, poi sono orsi, guerrieri, principesse e demoni.
Sacro e profano si abbracciano quando il volto dolce e mite di una Madonna non si scompone, mentre la Signora impugna la rivoltella e giustizia i crudeli.
Non c’e’ confine tra l’uomo, la taiga ed il cielo quando la luna si innamora del giovane cacciatore e lui , lupo penitente, ululera’ per l’eternita’ l’amore perduto .
Un modo di viaggiare piacevolmente leggero e rivelatore, quanto c’e’ di un Paese nel suo suo antico folclore. Buona lettura.
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Kerouac per signora
Questo romanzo di Eggers anche se piacevole e ben scritto mi è sembrato meno bello degli altri romanzi, per esempio di Ologramma per il re. Leggendo ho avuto come l’impressione che gli ingredienti non siano stati dosati bene e che manchi qualcosa. L’elemento più interessante è comunque il senso di stanchezza per la società civile con le sue regole, il senso di repulsione per la presenza umana che raggiunge e sporca i posti più incontaminati e la forte attrazione per la natura e per la vita a contatto con la natura con i suoi pro e contro: in sintesi bellezza e pericoli. I pericoli ci sono ovunque: incendi, temporali, fulmini, fiumi, laghi. Ma l’elemento più ambiguo e insondabile resta sempre l’uomo che potrebbe essere diverso da quello che appare o celare intenzioni, perversioni, follia. La protagonista, madre di due figli, fugge in camper verso una zona selvaggia dell’America, l’Alaska, con al seguito i due bambini di pochi anni. Il maggiore Paul ha 8 anni. La donna è in fuga dalla sua professione che l’ha stancata (dentista), dai sensi di colpa (la morte di Jeremy volontario in Afghanistan), dalle cause legali e dall’ex-compagno di cui è arcistufa e che non ama. Bisogna dire che per quanto lei scappi, Carl non ci pensa nemmeno lontanamente a inseguirla. La fuga è soprattutto dalla propria vita, dal tipo di vita, dal tipo di consesso sociale. La richiesta è quella di una vita più a brutto muso con la natura. Lo scopo sembrerebbe quello di riuscire a vivere di quello che la provvidenza mette in tavola, di incontri casuali e stimolanti al di fuori di regole, sempre al limite tra fascino e pericolo reale o eventuale. La cosa più interessante del testo è la parte descrittiva legata ai paesaggi. La storia a me non è piaciuta particolarmente anche se è delicata e potrebbe essere adatta a lettrici donne con figli. Ho letto recensioni in cui si parla di un finale tragico. In realtà nella testa di Eggers il finale non vuole essere assolutamente tragico. Non lo è, anzi. E’ un finale all’insegna della provvidenza e del coraggio e della bellezza di trovarsi a brutto muso con gli elementi e di sfidarli.
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KATIE E IL SUO SOGNO LONDINESE
Katie, o meglio Cat come si fa chiamare, non vuole altro dalla vita che vivere a Londra, adora la città, il traffico, lo smog, la metropolitana affollata, è tutto quello che sogna da sempre.
La ragazza è nata e cresciuta in un piccolo paese in campagna e sta cercando in tutti i modi di diventare una londinese, per questo cambia il suo look, fa credere agli altri di avere una vita sociale molto attiva, posta continuamente foto sui social, dando un’immagine di sé non vera. Si cambia perfino il nome, perché crede che il suo non sia adatto alla sua nuova vita.
Sopporta di tutto, mangia pochissimo, vive in un piccolo appartamento con altri due coinquilini, acquista degli abiti usati o a basso costo e lavora come stagista in un’agenzia di branding e di marketing, dove non viene nemmeno presa in considerazione.
Ma lei ha un obiettivo e cerca in tutti i modi di raggiungerlo anche se, questo significa far vedere agli altri una persona che in realtà non esiste, un’immagine confezionata e studiata a tavolino per adattarsi al mood londinese.
Ma ne vale veramente la pena far tutto questo, per vivere in un mondo che non è il tuo?
Londra, come tutte le grandi città, ha degli aspetti positivi e degli negativi.
Da una parte il mondo patinato, scintillante, le luci delle grandi metropoli, il glamour, la moda, lo sfarzo, e dall’altra le difficoltà di trovare un lavoro retribuito, lo stress,le spese varie e la sensazione di non essere mai all’altezza.
Oltre tutto questo, ci si mette anche il capo di Katie, Demeter, che sembra avere una vita perfetta come quella che anche la nostra protagonista sogna, come tutti i capi è una stronza e si comporterà male con Cat, ma forse anche qui l’apparenza inganna.
Katie, è un personaggio con il quale ho da subito simpatizzato, una ragazza piena di sogni, che vuole con tutta se stessa essere diversa, ma che si scontra con la dura realtà e con le difficoltà economiche. La sua famiglia non è di certo ricca, e quindi forse il fatto di aver vissuto sempre una vita umile le è sembra andata stretta e quindi ora vuole avere la sua rivincita. E’ lei è brava, ma purtroppo capita in un ambiente in cui non è apprezzata e dove lei è considerata come un numero, come la maggior parte dei tirocinanti nel mondo del lavoro.
Questo romanzo è molto attuale, sia come tema, come nel descrivere la condizioni di molti giovani oggi, che hanno talento, hanno studiato ma purtroppo non trovano lavoro e devono rinunciare ai loro sogni.
Sophie descrive in maniera molto realista e in maniera anche sensibile, attraverso il personaggio di Katie, le difficoltà e la lunga gavetta di una ragazza che sogna solo di fare un lavoro e di vivere la vita che sognava da quando era piccola. Mi sono immedesimata in lei, nelle sue speranze, nei suoi sogni infranti, nelle sua voglia di cambiamenti e di adattarsi agli altri e cercare di sembrare diversa da quello che è.
Ma è così importante apparire? In un mondo fatto di social, di selfie, dove conta solamente l’immagine che si ha, quali posti si frequenta, con quali persone si esce e cosa si mangia.
Dove è finita la genuinità, la spontaneità e l’umiltà, persi dietro alcuni like?
Quando Katie perde il lavoro allora tutto le crolla addosso, deve ricominciare da capo tornare a casa dai suoi genitori, rivedere i suoi piani di diventare qualcuno.
Ma per fortuna, la vita forse a volte è imprevedibile…
Katie, però, non si dà per vinta lotta e spera che prima o poi la sua vita trovi la direzione giusta.
La storia è scritta dal punto di vista di Katie, lo stile di Sophie è molto scorrevole e il libro si legge in poco tempo, ho apprezzato moltissimo il fatto che l’autrice non abbia reso il racconto e la storia d’amore, mielosi e sdolcinati anzi il romanzo risulta essere molto divertente e spiritoso.
I personaggi sono ben delineati e caratterizzati, Katie in particolare, è descritta in maniera tale che tutte le sue emozioni, le sue frustrazioni,le sue paure e le sue delusioni vengono trasmesse al lettore, come se fosse lui stesso a viverle. E questo succede solamente con le bravi scrittrici.
Un libro molto ironico, che divertente ma che fa anche riflettere, su quanto noi cerchiamo di essere apprezzati dagli altri, dimenticandoci di quello che siamo veramente.
La vita, come ci suggerisce il titolo, non è perfetta ma in verità non è così per tutti?
Sono le persone che decidiamo di accogliere nella nostra vita, che la rendono speciale e perfetta anche se in realtà non lo è.
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Il Coyote e Beep Beep
Antonio Maria e Maria Antonietta sono i protagonisti della “Commedia nera n.1”, con cui Recami inizia un nuovo ciclo, centrato sugli incubi sociali, con il paradosso del rovesciamento del buono con il cattivo.
I protagonisti sono una coppia che ribalta completamente lo stereotipo maschile e femminile. Maria Antonietta è un commissario della polizia, autoritaria, prepotente, egoista e abbastanza crudele; Antonio Maria è il marito malato, costretto a casa, che dopo aver subito soprusi per anni, vuole dare una svolta alla sua vita.
““Uomini maltrattanti? Uomini maltrattanti? Ma che sta dicendo? È mia moglie che esercita questi tipi di violenza su di me, e a proposito del maltrattamento economico vorrei aggiungere che io è una vita che lavoro in casa, e non mi è stato riconosciuto niente..””
Recami stravolge completamente quello che “solitamente” siamo “più” abituati a vedere; in questo romanzo la situazione viene completamente capovolta raggiungendo anche punte molto alte di grottesco.
L’intento dell’autore è molto chiaro, ovvero quello di presentare la società facendo “divertire” il lettore, creando questa commedia degli “equivoci”. “L’operatrice non sapeva come comportarsi. “Beh, guardi, questo è un numero verde per casi di violenza sulle donne…il nostro centro propone anche un servizio per maschi che vogliono affrontare il loro problema di Maltrattanti, ma non forniamo consulenze, non prendiamo appuntamenti per casi opposti, ove ce ne fossero..la cosa esula dalle nostre competenze..””.
Partiamo dal presupposto che non conosco l’autore e questo è il primo libro che leggo di lui. Un romanzo che nell’arco di una giornata si legge senza problemi, caratterizzato da una penna piacevole, scorrevole e sicuramente ironica e in alcuni casi divertente. Il romanzo, dal mio punto di vista, era partito in maniera profonda, affrontando una tematica davvero molto importante, questo elemento purtroppo si perde dopo poco, quando l’autore (volontariamente) alimenta il grottesco fino all’esagerazione. Qualcuno di voi ha mai guardato i cartoni animati con il Coyote e Beep Beep? Avete presente l’astuzia del Coyote? Beh, Antonio Maria prenderà ispirazione da lui per “liberarsi” di Beep Beep o meglio della sua Maria Antonietta.
Lodevole l’iniziativa dell’autore, ma non posso dire che questo libro mi abbia lasciato qualcosa. Sicuramente piacevole da leggere ma troppo esagerato. Gli eccessi vanno sempre saputi gestire.
Buona lettura!
Daisy & Ethan
Conclusi gli studi di liceo classico, Daisy non esita un attimo sull’intraprendere quella che sarebbe stata la sua strada: la filosofia è ed è sempre stata la sua vita e la sua passione, quindi, perché indugiare? Ed è pronta, la studentessa, ad affrontare quel nuovo percorso che con gli anni universitari sta avendo inizio, complici di ciò anche la riscoperta autonomia di condividere un appartamento con una perfetta sconosciuta nonché il fedele appoggio dei due storici amici compagni di scuola, Alessandro e Noemi. Peccato che Daisy non abbia fatto i conti con quel passato che è sempre pronto a bussare alla nostra porta. Non a caso, è proprio quello che le accade quando i suoi occhi si posano ed incrociano nuovamente con quelli di Ethan, immatricolato presso la facoltà di astronomia e vecchia conoscenza non proprio gradita. Eh si, perché se l’aspirante filosofa all’età di dodici-tredici anni è stata costretta a lasciare la sua città natia è colpa proprio di questo giovane ed aitante ragazzo, colpevole di non aver saputo mantenere un segreto; confidenza che ha portato alla rottura del matrimonio dei genitori della protagonista ed al conseguente allontanamento. O almeno, questo è quel che crede la ormai diciannovenne, ma si sa, non sempre tutto è come appare, non sempre la versione dei fatti che conosciamo è verità assoluta.
Con una penna semplice, basica e non particolarmente erudita, Cristina Chiperi torna in libreria con un volume che apre le danze su quella che si prospetta essere il progetto di una nuova saga. La storia di per sé si fa leggere anche se non risulta essere particolarmente originale essendo la stessa facilmente riconducibile ad opere contemporanee del medesimo filone. Essa è inoltre a tratti percepita quale irreale, inconcreta in quella che è la ricostruzione di luoghi e realtà universitaria.
La difficoltà maggiore è nella parte iniziale, il lettore, infatti, si trova, in questa, di fronte ad un elaborato ancora acerbo, a tratti eccessivamente adolescenziale e farraginoso (basti pensare allo spropositato uso di punti esclamativi che si mixa alla volontà di adottare un linguaggio forbito alla Jane Austen), uno scritto che solo nel suo proseguo prende campo stimolando l’audace conoscitore ad andare avanti.
In conclusione, “Starlight” convince a metà, da un lato si fa apprezzare per la fantasia e per la prova (soprattutto rispetto a tanti altri libri del genere non è volgare, non scade nei soliti temi e in scene di sesso altamente opinabili), ma dall’altro lascia insoddisfatti perché essendo un romanzo in serie non si sviluppa pienamente. Sinceramente ritengo che come volume unico non solo avrebbe colpito maggiormente, ma avrebbe anche saputo meglio evolversi in quella idea di partenza apprezzabile, gradevole. La giovane scrittrice dimostra, comunque, di sapersela cavare, riesce a far sognare e a far staccare la spina, talché è impensabile non attribuire alla sua stessa età il maggiore o minore incidere di gradevolezza di questo primo episodio delle avventure proposte. Sono certa però che negli anni a venire, saprà sorprendere con testi più congrui anche ai più adulti.
Adatto ad un pubblico più giovanile, adolescenziale e femminile che cerca uno testo semplice, da cui non aspettarsi nulla, con cui trascorrere qualche ora in leggerezza sognando, e a chi pur amando il filone non vuole cadere nel grossolano, nel maleducato.
Indicazioni utili
- sì
- no
no = ai più adulti che potrebbero trovare difficoltà a leggere un testo ancora troppo acerbo ed infatantile.
Luce Di Notte, eccola qua.
Luce di notte, trentasettenne napoletana residente nei quartieri “Spagnoli”, di professione avvocato, non è la classica eroina a cui siamo abituati.
Capelli super corti, seno appena pronunciato, jeans e converse, si sommano ad un carattere prorompente, che nulla risparmia al lettore come agli altri protagonisti dell’opera. Perché Luce è un po’ così, un po’ pagliaccio e un po’ bambina, un po’ maschio e un po’ femmina, e come tutti ha paura delle emozioni. Si, le teme, perché ha sempre sofferto della mancanza di quel punto fermo che sarebbe dovuto essere il padre. Ed anche se è stata cresciuta da due mamme, quella naturale e quella “adottiva” della nonna Giuseppina, che si sono prodigate per garantire a lei e al fratello Antonio un futuro, ella ne è ancora in cerca. Al tutto si aggiunge una relazione finita male, un meraviglioso cane di nome Alleria e un vicino di casa filosofo non deambulante, Don Vittorio Guanella.
Dopo anni di galoppinaggio, la professionista è approdata allo studio legale di Arminio Geronimo & Partners, un luogo dove la donna non si piega all’atmosfera maschilista che regna. Al suo primo vero incarico però, le crepe di quella corazza così tanto stratificata e argillinata, vengono a galla. Eh si, perché quando Luce si trova a dover valutare se Carmen Bonavita – separata dal marito che si è rivolto allo studio della protagonista – è una buona madre per il poco più che settenne Kevin, e dunque a decidere se il padre ha buoni presupposti e motivi per intentare una causa di affidamento esclusivo, queste si sgretolano implacabilmente.
In primo luogo resta sorpresa dal bambino stesso: Kevin non assomiglia minimamente ai suoi genitori, anzi, ne è l’esatto opposto. Parla un italiano perfetto, è intelligente, educato, ha voglia di imparare e di studiare tanto che agli occhi di chi guarda sembra lui colui che è investito del compito di educare quel padre e quella madre che non perdono occasione per scannarsi. D’altra parte, Carmen non vuol far altro che preservare, a suo modo, il futuro della sua prole, il destino di quel bambino così diverso dagli altri e con una possibilità da non sprecare, vuol cioè evitare che finisca sulla strada, che finisca con l’essere un “delinquentello” come tanti, che finisca con l’essere risucchiato dall’universo camorristico di cui il padre è a capo. Quest’ultimo, invece, per quanto gli voglia bene, vorrebbe che fosse più simile a lui cosìcché non perde l’occasione propizia che gli è offerta; quella di punire quella moglie sovversiva per l’affronto fatto. E la trentasettenne, conosciuto il ragazzo inizia a riflettere sul suo percorso, su quella voglia di maternità che credeva di non avere, su quei punti fermi che sente di dover mettere, su quella realtà che da oltre trent’anni la circonda ma che grazie allo studio e alle cure amorevoli di due donne, ha sempre evitato, sottovaluto, mai realmente visto.
Ma Marone non ci offre solo una panoramica sulla realtà napoletana, sulle scelte del giusto e dello sbagliato e sulla coscienza e morale che ognuno di noi custodisce nel proprio cuore. L’autore ci porta anche a riflettere su altre costanti, su altri corollari dell’esistenza.
Altro tema che viene trattato è certamente quello dei rapporti familiari. Luce cresce in contrapposizione ad una madre bigotta, che si è immolata ai figli dopo la partenza e poi morte del marito e che si è rifugiata nella religione pur di trovare conforto. Questo porta la donna a chiudersi, lei che ha sempre cercato di insegnare l’onestà, la bontà, il perdono e l’altruismo ai figli, in dogmi dettati e delimitati dal peccato. La sua figura così ferma e solida, così responsabile con due lavori – pulizia delle scale e case altrui la mattina e sarta nel pomeriggio – si contrappone a quella del marito che al contrario è un irresponsabile di prima categoria che investe i pochi risparmi in un carrellino di zucchero filato o similari. Dalla famiglia il napoletano scrivente si sposta appunto alla Chiesa, mettendo in evidenza pregi, difetti e paradossi della stessa.
Altre due figure molto interessanti e di insegnamento sono Kevin e Don Vittò stesso. Il primo perché con la sua innocenza apre gli occhi alla protagonista, il secondo perché le insegna a scegliere, ad incamminarsi sul suo personale percorso senza accontentarsi di vivere sul sentiero più sicuro e semplice. Ed ecco che ritorna anche l’ulteriore tema caro al narratore, il senso della vita, delle occasioni perdute, di quelle ancora da afferrare.
Con “Domani magari resto” Lorenzo Marone ripercorre con dovizia il sentiero che già aveva intessuto con “La tentazione di essere felici” e con “La tristezza ha il sonno leggero” donando al lettore un libro munito della stessa forza empatica e circondato da quell’alone di magia che soltanto gli elaborati firmati con questa penna hanno. Luce, inoltre, è un personaggio ben costruito, stratificato, una protagonista da scoprire un passo alla volta, una donna che per quanto si atteggi a forte è in realtà fragile e alla ricerca di quello sprazzo di felicità che la vita sembra non averle voluto riserbare sin dalla nascita. Inevitabile quella sensazione di deja-vu che l’opera suscita nell’avventuriero conoscitore, eh si, perché la temeraria avvocatessa ricorda Cesare Annunziata, solo che al femminile.
Stilisticamente il testo è inoltre avvalorato e reso concreto da tipiche intercalari del luogo, elementi questi, che si fondono a quelle atmosfere dei Quartieri e a quella realtà della Camorra che travolgono chi legge così come la Di Notte.
In conclusione, un romanzo godibilissimo, che arriva e lascia il segno.
«Io non mi pento di nulla» ho replicato fiera «E fai bene, perché tutto quello che abbiamo fatto è quello che potevamo fare in quel preciso momento della nostra vita. IO credo che alla fine quello che noi siamo davvero è scritto in quello che è stato il nostro percorso. Tutte le altre cose presenti negli elenchi che scriviamo, semplicemente non erano parte di noi, sono falsi obiettivi che mettiamo li per sentirci migliori. In realtà potremmo benissimo non prendere mai una decisione nella vita e lasciarci guidare dall’istinto. Anzi, sono certo che saremmo tutti un po’ meno stressati se ci abbandonassimo al flusso delle cose senza avere la presunzione di poter cambiare questo o quel percorso. E sono sicuro che vivremmo la stessa identica vita che abbiamo vissuto. Quello che siamo è dentro di noi, il resto è tutta sovrastruttura. Superfluo. Siamo maestri nel circondarci di cose superflue» p. 150-151
«[..] Allora anche le cose brutte sono racchiuse in una parentesi, perché pure loro passano. Se c’è una cosa che la vita mi ha insegnato, è che non esistono parentesi tonde o quadre, nessun inciso o intervallo, le cose, belle o brutte che siano, te le trovi all’improvviso davanti, quando vai a capo, e forse è una fortuna, perché altrimenti basterebbe evitare le parentesi per condurre una vita serena. Solo che a salvare gli incisi la frase si accorcia e giunge presto al punto finale. [..] Mi dispiace contraddirti, ma non credo che siamo solo quello che abbiamo vissuto. Il nostro trascorso può intaccarci fino a un certo punto, ma c’è una parte che resta sempre integra, sempre nuova, pronta a ripartire e a indicarci altre strade. E’ dentro ognuno di noi, anche se molti nemmeno sanno di possederla, e sta li in attesa di essere utilizzata per qualcosa di straordinario» p. 246
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L'amore ti rende vivo
Tutte le guerre sono feroci. Alcune sono più feroci delle altre. Non tutte le guerre si combattono lealmente. Alcune sfogano violenza e crudeltà sulla popolazione inerme.
Questo è quanto evoca il titolo dell’ultimo romanzo di Edna O’Brien “Tante piccole sedie rosse”.
Nel 2012 undicimilacinquecentoquarantuno sedie rosse furono messe in fila nel centro di Serajevo, per ricordare l’inizio dell’assedio della città da parte delle forze serbo-bosniache. Seicentoquarantatre sedie erano di dimensione più piccola: ognuna di esse rappresentava un bambino ucciso dai cecchini.
Un titolo, dunque, che evoca una tragedia infinita, un romanzo che parla d’amore, dell’amore sognato, tradito, deluso, dell’amore materno, dell’amore per Dio, dell’amore per la natura.
Nello sfondo di un’Irlanda verde e pacifica, provinciale e borghese si ambienta la prima parte del romanzo che ha per protagonista Fidelma, bella e amata moglie di un uomo molto più anziano, che soffoca con dolore il suo frustrato desiderio di maternità. Ed è nella sua tranquilla routine quotidiana che irrompe prepotentemente la figura di questo straniero che si presenta come guaritore in grado di compiere prodigi. Fidelma diviene Didone, la regina sedotta e ingannata. Ella dà tutta se stessa, con la speranza di avere il figlio desiderato. Ma il prezzo che è costretta a pagare la nostra Didone, la Didone dei nostri tempi, è altissimo perché il suo straniero è ben lungi dall’essere l’Enea di Virgilio. Egli è il feroce assassino di Serajevo.
La violenza genera violenza e Fidelma ne è vittima ella stessa. Perso tutto ciò che costituiva la sua vita serena, abbandona il suo paese e giunge in Inghilterra. Il viaggio nell’inferno dei diseredati costituisce la seconda parte del romanzo.
Di discriminazione sociale e razziale, di sfruttamento e precarietà è fatto il mondo di queste creature che lottano per la sopravvivenza. Alcuni ce la fanno, altri soccombono. Un tema di tragica attualità, soprattutto se si pensa alla ulteriore chiusura voluta dalla Brexit verso una politica di solidarietà.
Un romanzo duro, a tratti feroce, come può solo essere la narrazione di fatti atroci realmente accaduti, una storia che turba e sconvolge le coscienze. Per lo meno di coloro che ancora ne possiedono una.
“Casa, casa, casa. […..]Non immaginate quante parole esistano per dire «casa» e quali musiche selvagge se ne possano ricavare.”
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Esistono gli incidenti?
Per chi fosse alla ricerca di adrenalina, suspense e colpi di scena, posso tranquillamente dire che continuare la lettura di questa recensione e quindi la lettura del libro, è una cosa inutile.
Noah Hawley nel suo libro racconta la storia di una tragedia “Che cosa è successo nei diciotto minuti tra il momento in cui le ruote si sono staccate dall’asfalto e quello in cui l’aereo ha toccato la superficie dell’oceano? C’erano guasti meccanici?”.
Siamo in America è su un jet privato si trovano undici persone: tre fanno parte dell’equipaggio; poi abbiamo i Klipling, (una coppia molto facoltosa), la famiglia Bateman (una ricchissima famiglia), composta dai genitori David e Maggie, una bambina di nove anni e il fratellino di quattro e la loro guarda del corpo; a quest’omogeneo gruppo di ricchi si unisce Scott Burroughs, uno squattrinato pittore che stona un po’ con il resto.
Dopo soli diciotto minuti di volo l’aereo precipita e solo in due si salvano, il piccolo JJ e Scott. Le dinamiche dell’incidente o presunto tale restano ancora oscure, cosa è realmente successo su quel volo? Come mai Scott è riuscito a salvarsi? “Forse è solo un tizio che è salito sull’aereo sbagliato e ha salvato un bambino”?
“Prima di cadere” oltre che raccontarci il presente ovvero il susseguirsi degli eventi, scava anche sui singoli protagonisti, raccontandoci di ognuno di loro il passato ma soprattutto i segreti, fino all’arrivo su quel maledetto volo. Sono molte le teorie avanzate: complotto, terrorismo, arte, incidente o destino? Gli scheletri nell’armadio dei singoli passeggeri sono veramente molti. Tra le persone che si ritrovano a “indagare” risaltano sicuramente la figura dell’ingegnere Gus e l’ingestibile presentatore televisivo Bill.
Hawley cerca più volte di depistare il lettore e sicuramente lo fa arrabbiare quando mostra in maniera piuttosto realista come viene gestita la tragedia dal mondo dei media. La privacy sembra non esistere e quello che sembra ovvio alla fine potrebbe non esserlo. Quante volte da eroi si diventa sospettati?
L’autore riesce a gestire veramente bene la situazione e l’attenzione del lettore non cala pur mancando colpi di scena e situazioni adrenaliniche. In maniera posata, chiara e intrigante (questo elemento non manca) Hawley mi ha tenuto incollata alle pagine, e stiamo parlando di un libro che ne conta ben 463. L’unica pecca la posso trovare sul finale, che viste le aspettative create “si sgonfia” un pochino, questo non incide però sul fatto che l’autore che è al suo quinto libro abbia fatto un buon lavoro.
Buona lettura!
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Il ritorno
Semplicemente bello, amaro, struggente, incisivo.
L'ultimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio brucia come sale su ferite aperte, parla di figli e di genitori, di incontri ed abbandoni.
Lei non possiede un nome di battesimo ma è detta da tutti i paesani “arminuta”, la ritornata.
Scaricata come una merce da chi ha sempre considerato genitori, passata dal calore della propria casa al gelo di un focolare sconosciuto, catapultata in un mondo aberrante per lei, tredicenne vissuta tra coccole, agi e serenità.
La nuova casa è popolata da persone diverse, che parlano solo dialetto, che lottano ogni giorno con un demone chiamato miseria, che si azzuffano per due rigatoni al sugo, che condividono pochi metri quadri tra odori nauseabondi e grigiore.
Quello narrato dall'autrice è un salto nel vuoto come solo può essere lo sradicamento di un'adolescente, un evento complesso da immaginare e da rendere a parole; eppure l'effetto prodotto dalle immagini dipinte è poderoso, tanto da provocare uno stillicidio doloroso dalla prima all'ultima pagina.
La voragine emotiva narrata è generata dall'intreccio dell'assenza improvvisa e immotivata di coloro che ti hanno cresciuto e amato e dall'apparire altrettanto veloce di due persone che scopri averti generato e ceduto e di fratelli e sorelle estranei.
E' complicato parlare di temi forti e scottanti di questo tenore, sottolineando gli stati d'animo di ogni personaggio e delineando le infinite sfumature legate ad uno sguardo, ad una lacrima, ad un gesto quotidiano.
Grande prova di scrittura dell'autrice abruzzese, dotata di una penna affilata e tagliente come una lama, una scrittura sintetica che riesce ad intrappolare su di un rigo emozioni, lacerazioni e sogni infranti.
Un tema pesantissimo, come il mondo che crolla sulle fragili spalle di un'adolescente, scopre altri nervi scoperti, come le dinamiche familiari ambientate negli anni Settanta in un contesto rurale e genuino. Altro merito dell'autrice è di aver fotografato un pezzetto di Italia, contestualizzando la storia nel suo natio Abruzzo, riportando alla nostra memoria immagini in bianco e nero di una nazione tra crescita e difficoltà, dove non tutti potevano permettersi una giornata in spiaggia ed un piatto di frutti di mare.
Un'Italia di braccianti e di operai che fatica a portare il pane a tavola, che appare arida e priva di sentimenti, ma sotto una scorza dura ci sono cuori che battono per le disgrazie ed i dispiaceri che la vita porta sempre con sé.
Tante le lacrime eppure tanta dignità nel corso di tutta la narrazione, evitando la ricerca di sensazionismo ma facendo assaporare genuinità e naturalezza, senza artifici.
Un romanzo senza vincitori, c'è chi ha scelto e chi ha subito, ma tutti insieme ingrossano le fila dei vinti.
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Un manuale in forma autobiografica
Per affrontare la lettura dell’ultimo libro di Murakami Haruki, “Il mestiere dello scrittore”, bisogna aver ben chiaro cosa si intenda per “autobiografia” al fine di stabilire se quest’opera possa a pieno titolo essere considerata autobiografica.
A questo proposito è opportuno fare riferimento al testo di Philippe Lejeune “Le pacte autobiographique”. Qui, infatti, vengono elencati gli elementi essenziali che costituiscono l’opera autobiografica. Fondamentale tra questi è la coincidenza tra narratore personaggio e autore, che propone un racconto retrospettivo di fatti che riguardano la sua vita e ne delineano la personalità.
Nel "Mestiere dello scrittore" Murakami, in realtà, osserva questa regola, pur non abbandonandosi a dettagli sulla sua vita privata, egli, anzi, ne parla solo di tanto in tanto, di sfuggita, per concentrarsi invece sulle circostanze che hanno determinato la nascita dello scrittore di fama, e sulle aspirazioni giovanili, sulla tenacia con cui l’obiettivo è stato raggiunto. Nessuno spazio per il “gossip”, dunque, in quest'opera, che si propone piuttosto come un sorta di manuale che contiene una personale visione di come si possa eventualmente diventare scrittore e in qualche caso raggiungere il successo. L’interesse di questo libro, al di là della curiosità legittima che può suscitare nel lettore ammiratore di Murakami, consiste nel quadro sociale e culturale che l’autore delinea come retroterra della sua formazione di artista.
Egli dunque inizia con il definire le qualità proprie di uno scrittore e si sofferma su cosa significhi essere romanziere, sull’importanza del linguaggio e su come migliorare lo stile per far sì che l’opera diventi un “classico”, perché solo i classici sono destinati a durare nel tempo, grazie alla loro originalità. L’originalità è infatti elemento essenziale, come l’immaginazione che, come disse Joyce, equivale alla memoria. Secondo Murakami è fondamentale per uno scrittore attingere alla memoria: “[….] non ha importanza se pensate di non aver abbastanza materiale per scrivere un romanzo, non rinunciate. Basta che spostiate di poco il vostro punto di vista, che vi ispiriate diversamente e capirete che il materiale è lì, tutto intorno a voi.”
Non mancano esortazioni a curare il fisico oltre che lo spirito, per raggiungere l’equilibrio ideale per scrivere. Molto interessanti sono le pagine dedicate alla scuola, dalle quali si evince che in Giappone i limiti dell’istituzione scolastica sono simili a quelli più volte rilevati in molti paesi europei.
È ovvio che ogni considerazione sull’arte sia in stretta relazione al mercato al quale essa si rivolge e Murakami analizza le ragioni del suo successo, non trascurando gli eventi storici e sociali verificatisi nei paesi in cui la sua popolarità si è affermata con maggiore vigore.
“Il mestiere di scrittore” può definirsi dunque un manuale autobiografico che non si limita al tema specifico inerente la scrittura, ma si estende ad aspetti interessanti per un più vasto pubblico di lettori.
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Acta contra sextum
Difficile leggere qualcosa che lasci più nauseati, delusi, arrabbiati come leggere di pedofilia.
A meno di non leggere di pedofili che sfruttano la propria posizione di privilegio come educatori e padri spirituali, approfittando della fiducia di ignare famiglie che affidano loro i figli proprio per farli crescere in un ambiente sicuro e protetto.
A meno di non leggere di pedofili contro cui la giustizia ordinaria nulla può fare perché avvolti da un’inattaccabile rete di omertà e protezione, contraria a qualunque valore etico e morale.
A meno di non leggere “Lussuria”, la nuova, documentatissima, inchiesta con cui il giornalista de l’Espresso Emiliano Fittipaldi, dopo “Avarizia”, torna a denunciare i vizi della curia. Sotto la lente d’ingrandimento, appunto, il sesto peccato capitale.
Questo saggio parla di scandali e crimini sessuali che hanno coinvolto la Chiesa cattolica nell'ultimo ventennio e lo fa in modo semplice e rigoroso, attraverso fatti, nomi, date e immagini di documenti ufficiali. Nulla è concesso ai facili paternalismi o al morboso voyeurismo. Fittipaldi non si addentra nelle storie o in scabrosi dettagli perché ciò che vuole far emergere non sono le vicende di vittime e carnefici, ma le responsabilità delle autorità ecclesiastiche preposte a prevenire, indagare, punire.
Fittipaldi documenta i comportamenti omissivi e autoassolutori di chi ha operato sistematici occultamenti volti a salvaguardare la reputazione e il patrimonio della Chiesa piuttosto che la salute fisica e psichica dei minori. Racconta di continui spostamenti di pedofili di parrocchia in parrocchia per evitare scandali e dei tentativi di corruzione per comprare il silenzio di vittime e famiglie, comportamenti apparentemente in contrasto con la nuova “linea intransigente” dichiarata da Papa Francesco, ma nei fatti premiati con prestigiosi incarichi (addirittura tre dei nove cardinali appartenenti al gruppo di porporati che consigliano il pontefice sul governo della chiesa universale sono coinvolti in controverse storie di insabbiamenti). Parla infine della distanza effettiva tra le promesse di tolleranza zero del nuovo corso bergogliano e la difficoltà di declinarla e imporla nei documenti ufficiali, che ancora oggi esonerano i vescovi dall'obbligo di denunciare i presuli alla magistratura ordinaria e di deporre o esibire documenti per aiutare il corso della giustizia civile.
Quello che sconvolge, ultimata la lettura, è il relativo silenzio da parte dei media su tali questioni. Solo la conoscenza può evitare che vittime e famiglie, per paura o per vergogna, lascino che questi crimini rimangano taciuti e impuniti. Solo l’opinione pubblica può scandalizzarsi per le omissioni, l’indifferenza, l’assenza di punizione e chiedere di più. Essendo un tema di grande attualità e importanza civile, consiglio di certo la lettura di questo testo, ricco di documenti e informazioni, per conoscere una verità di fatti e responsabilità che vanno ben oltre le dichiarazioni mediatiche.
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QUALCOSA , TROPPO, NIENTE
Romanzo dal tono fiabesco con protagonista una principessa che si affaccia alla vita e ne scopre le complessità insite in primo luogo in lei e riflesse nei fatti, negli incontri, nelle scelte, nelle relazioni che arricchiscono, complicano, suggellano la sua crescita. Quasi un piccolo frammento di romanzo di formazione, una lettura che ritengo particolarmente adatta per i piccoli lettori dai dieci ai tredici anni, più avanti il modulo fantastico basato su elementi fiabeschi potrebbe far storcere il naso ai più grandi i quali potrebbero trovare scontate le suggestioni che lo scritto sa innescare.
Una principessa nasce e si impone alla vita e alla famiglia con strepiti e urla fin dai primi giorni: è eccessiva, le vien dato il nome “Qualcosa di troppo”, appare fin da subito in perenne conflitto con il suo universo emozionale di ben difficile gestione. È il suo percorso di crescita, la via è segnata, dovrà affrontare un prematuro dolore, la scomparsa della mamma, e imparare a canalizzare il suo io, a circoscriverlo, a conoscerlo, ad accettarlo. Chi di noi è esente da tale tirocinio formativo? Interessante iniziazione con una serie di prove da affrontare , declinate attraverso le più classiche funzioni proppiane, e l’immancabile supporto dell’aiutante magico. Tutte le situazioni richiamano le sfide che i nuovi tempi impongono ai ragazzi di oggi, sottoposti come non mai a pressioni e stimoli che innescano un’accelerazione nella crescita non corrispondente all’età anagrafica, al loro sviluppo psico-fisico, al loro benessere. Pressioni e stimoli che sono tutti sovrabbondanti, ridondanti, fastidiosi e seriali e che stanno producendo purtroppo aberrazioni all’evidenza di tutti. In particolare è presente una velata critica alla necessità di affermazione dei giovani che trova sfogo sui social, paragonati qui a lenzuola esposte al balcone e zeppe di stati d’animo, di sbandieramenti circa la pienezza del proprio vissuto, di fondo, specchio evidente di tristi solitudini. È presente inoltre la riflessione circa i pericoli dell’amore quando non vissuto dalle giovani ragazze come un sentimento di amorosa corrispondenza ma secondo moduli che attingono a profili quali la salvatrice, la dipendente , l’affermata incapace di auto affermarsi al di fuori di un rapporto a due. Utili riflessioni per un universo femminile in crescita, per instillare attraverso una lettura semplice e fresca qualche pillola di educazione all’affettività coinvolgendo allo stesso modo l’universo maschile in crescita, ancora più depauperato, secondo il mio punto di vista.
Il qualcosa che siamo noi, il troppo di cui lo riempiamo, il niente che riconduce alla piccolezza della nostra esistenza e alle bassezze di cui la nutriamo, la scomparsa della noia e la paura della solitudine sono infine spunti di riflessione adatti a tutte le età che si possono ritrovare in questo piacevole libretto snello ma estremamente curato nell’ aspetto grafico, in una forma mista sempre più in auge con la commistione dei linguaggi: il letterario e l’ iconico che si avvale, in questo caso, delle efficaci illustrazioni di uno dei più quotati fumettisti italiani, Tuono Pettinato.
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Jakob Dekas
Bolzano, primavera 1999. Il Pubblico Ministero Jakob Dekas è in ferie quando viene richiamato in servizio a causa del ritrovamento, a distanza di un brevissimo lasso temporale, del corpo di due donne, venute a mancare in circostanze simili. Di fatto, entrambe erano due libere professioniste – una è una dentista, l’altra un architetto – ed entrambe erano solite partecipare a c.d. “cene sociali”, è dunque impossibile per gli inquirenti escludere un collegamento tra i due decessi. Che Dekas e la sua squadra si stiano in realtà trovando di fronte ad un omicida seriale? Questa è la domanda che pende sulle loro spalle. Come pensare diversamente, d’altra parte, quando il cadavere della Sauer – l’odontoiatra – a seguito di uno strangolamento è stato trovato riverso sul letto con evidenti segni di colluttazione, mentre quello di Claudia Von Dellemann, di anni 31, sul divano senza alcuna traccia di lotta o di difesa? Che sia veramente una ischemia la causa della morte di quest’ultima? Oppure dietro questa si cela ben altro? E cosa significa quel taglio di capelli che marca ciascuna vittima? Alla Sauer, l’assassino, li ha certamente recisi prima della morte (verosimilmente come feticcio, tanto che il ciuffo è stato recuperato in strada, in un cassonetto, poco distante dall’abitazione della donna), al contrario, a Claudia, sono stati tagliati successivamente alla dipartita ma di questi ancora non vi è traccia. Perché questa differente sequenza temporale? Perché questo “marchio”?
A complicare ulteriormente il quadro vi è anche la doppia vita condotta da Claudia, di giorno architetto e di notte prostituta di alta borgata, nonché il suo essere stata, per un periodo, compagna di avventure sessuali di Dekar stesso. Ed ancora, cosa nascondono i sintomi di quel bambino su cui la pediatra Lena è chiamata a prestare la sua opera? E l’avvocato Oliver Baumann a quale gioco sta giocando? E chi è La Murena? Qual è il suo ruolo in questa intricata matassa che l’equipe della Procura è chiamata a risolvere? E Martina Seppi, più che collega di studio della Von Dellmann, cosa nasconde?
Con “Nessuno muore in sogno”, Katia Tenti dà vita ad un giallo piacevole, sufficientemente intrigante, dai giusti tempi narrativi e di facile lettura. L’avventuriero esploratore, infatti, si troverà di fronte ad un enigma affatto scontato da risolvere, un caso cioè dove ogni tassello del puzzle si ricongiunge a quello mancante senza fretta e dove nulla è come appare, rimescolandosi, le “carte”, sino alla fine. Un secondo capitolo, questo, cioè, ove è percepibile una netta maturazione della penna dell’autrice, penna che in quest’ultima opera è molto più accattivante e fluida rispetto a “Ovunque tu vada”, primo episodio della saga.
Dal punto di vista dei personaggi devo ammettere però che il protagonista, Dekas, non è proprio fedele alla realtà. Questo è stato, forse, eccessivamente, romanzato (soprattutto sotto il profilo espressivo-linguistico), probabilmente per renderlo più appetibile al lettore. Buone le ambientazioni, caratterizzate altresì da peculiarità e abitudini che le rendono vivide e tangibili, nonché lo sviluppo dell’intrigo.
In conclusione, “Nessuno muore in sogno” si offre al grande pubblico sotto la veste di un romanzo non impegnativo eppure non scontato, ed al tempo stesso gradevole e scorrevole tanto da rendersi appetibile sia agli amanti del genere che a quelli che ne sono estranei. Una buona prova.
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CHEZ KRULL
Scritto nel 1938 e dato alle stampe l’anno successivo,”La casa dei Krull”, torna ora in lingua italiana grazie ad Adelphi che continua a ripubblicare le opere del belga. Il romanzo oggi parrebbe quasi profetico rispetto alle sfide inclusive richieste alle nostre entità statali, ma prima alle nostre menti e ai nostri cuori, dai continui flussi migratori, dal cosmopolitismo crescente, dalla stessa globalizzazione. Eppure , preferisco darne una lettura prettamente letteraria e non politica, geopolitica, antiamericana, non c’è bisogno … all’occorrenza basta guardare casa nostra. O meglio entriamo a casa dei Krull accompagnati da un cugino tedesco che sta arrivando in taxi e che con la sua presenza, con la sua condotta o più semplicemente con il suo sguardo lungo, mette a repentaglio delicati equilibri consolidati nel tempo eppure fragili come un vetro filato.
I krull sono dei crucchi, abitano in un paese del nord della Francia, in una dimora al limitare dell’abitato, lungo una triste prospettiva scandita dalle chiuse di un canale navigabile. Possiedono un emporio e Cornelius, il capofamiglia, ha un laboratorio annesso nel quale si dedica all’intreccio del vimini. È la moglie a gestire la merceria che viene frequentata, insieme alla mescita per la compravendita di alcolici al banco, soprattutto dalle mogli dei cavallanti, i quali con le loro famiglie vivono in chiatte semigalleggianti al limite della società. I vicini di casa dabbene preferiscono servirsi altrove. La famiglia si completa di tre figli: un giovane laureando in medicina e due ragazze, dedite al cucito e allo studio del pianoforte. L’arrivo del cugino Hans, figlio del fratello di Cornelius, rompe la monotonia di una casa nella quale tutto pare essere cristallizzato e coincide, dopo poco tempo, con il barbaro assassinio di una ragazzina. In un crescendo di tensione la famiglia si ritrova coinvolta nell’omicidio, vero capro espiatorio di una comunità che fatica ad integrare il diverso. Protagonista assoluta della rappresentazione- lo scritto vive di una teatralità necessaria e assai funzionale- è la gente, quell’insieme di identità indefinite capace di tutto, cui fa da contraltare proprio il giovane Hans che con il suo fare disinvolto, con la sua superiorità mentale, con la sua furbizia da mascalzone, mantiene integra la propria identità schierandola apertamente non dalla parte del decoro civile. Paradossalmente sarà colui che, a conti fatti, uscirà integro da una vicenda capace di sconvolgere un’intera famiglia, quella dei suoi parenti più prossimi. Al contrario il cugino, suo coetaneo, schiacciato da un vissuto di inadeguatezza, dovrà ricostruire la propria identità, forse già scritta …
Essenziale, perfetto, lucido, spietato, il romanzo si attesta come l’ennesima prova di bravura nella quale i tratti incisivi sono i movimenti scenici , gli ambienti perfettamente descritti, la fusione di questi due elementi usati indirettamente per rappresentare pensieri, emozioni, tensioni, silenzi , rumori , tutti fondamentalmente sospetti.
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L'involuzione della specie
Il passo non troppo incisivo, schematico, asciutto che caratterizza la penna di molti autori giapponesi contemporanei si imprime anche su questo romanzo di Shuichi Yoshida, autore di successo in patria.
La trama e’ piuttosto semplice , un nucleo di sospetti che si conta sulle due dita, un’assenza piuttosto drastica di suspense.
Chi cerca il poliziesco canonico, auspicando nel modus operandi di scrittori occidentali , sappia che in questo volume di giallo trovera’ poco piu’ che la copertina. Resta una lettura scorrevole, che utilizza il delitto come espediente per parlare d’altro.
Trovo che il nucleo del libro sia piu’ che altro sociologico, una disamina della societa’ contemporanea giapponese. Ne emerge, in conformita’ peraltro con quello che avviene in tanti altri Paesi, una panoramica piuttosto inquietante . Giovani che all’aggregazione preferiscono l’isolamento, comunicando e conoscendosi attraverso chat e gruppi virtuali. L’autore parla di un impoverimento dei valori, dove la gogna mediatica non conosce vergogna e l’apatia della gente impera.
Il fenomeno e’ amplificato da Yoshida attraverso la contrapposizione della vecchia generazione alla nuova. La madre affranta dal dolore inginocchiata di fronte ad un altarino , il vecchio padre che non ha la forza di alzare la serranda della piccola bottega di barbiere e non si dà pace. Non puo’ trovare un senso a quella sua bambina che frequentava sessualmente sconosciuti incontrati su internet. Alle risatine di scherno della gente inclemente e malvagia che col pettegolezzo rifiuta di assecondare il dolore della sua tragica perdita. Monta la rabbia sempre piu’ folle per quel ragazzo viziato che l’ha maltrattata, abbandonata al buio. A cui l’anziano piegato dalla fatica e dal pianto chiede null’altro che una sola, misera, sacrosanta parola di scusa, ma torna al mittente l’ennesimo ghigno sprezzante.
Diffuso come thriller, io credo la sua forza sia invece umana, nella sua accezione negativa.
Senza lode e senza infamia, fa pensare e non sono pensieri incoraggianti quelli sull’involuzione della specie. Buona lettura.
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“La vita non assomiglia affatto agli scacchi”
“La vita non assomiglia affatto agli scacchi [......] . La vita è come il poker o la briscola: il giocatore può essere un campione, può essere un brocco, ma vincere o perdere dipende anzitutto dalle carte che hai in mano.” Questa è solo una delle molte significative riflessioni in cui si imbatte il lettore dell’ultimo romanzo di Raul Montanari, “Sempre più vicino”. Si, perché qui siamo di fronte a un’opera che, al di là della trama piacevolissima e ben costruita, al di là di una prosa impeccabile e una vena umoristica non trascurabile, apre un dibattito ampio, tanto ampio quanto doloroso.
Protagonista del racconto è Valerio, un giovane laureato in procinto di conseguire una seconda laurea, desideroso di costruirsi una vita autonoma e economicamente indipendente, anche per segnare le distanze da un padre grossolano ed egoista che lo aveva allevato senza particolari tenerezze dopo l’abbandono di una madre egocentrica e superficiale. Valerio non è il solo giovane intorno al quale si dipana la storia: accanto a lui troviamo Simon, l’amico storico, l’amico di sempre, aspirante scrittore, ed Elena e Viola. Ognuno di loro rappresenta, in modo diversificato, la difficoltà di essere giovani nel mondo contemporaneo. Ed è infatti questo il punto centrale del romanzo. Siamo di fronte a una generazione a cui è stata tolta la speranza di un futuro, a cui è negato coltivare un sogno. Ciò perché l’eredità ricevuta dai più vecchi non ha saputo fornire le basi per un avvenire stabile e economicamente sicuro. E qui si imporrebbero considerazioni di carattere politico, sociale e culturale di non poco interesse. Lo scetticismo del personaggio Valerio nei confronti degli studi che si accinge a completare è, per esempio, sicuramente indice di quella sfiducia ormai diffusa tra i giovani nell’utilità dell’istruzione, con grave danno per la società nel suo insieme.
È con grande abilità che Montanari costruisce intorno a questo tema centrale una storia dai risvolti noir, che avvince e diverte, che consente al lettore di “vedere” al di là della lettura. E infine, nella migliore tradizione del romanzo picaresco, perché in definitiva la storia di Valerio altro non è che la storia di una crescita e, in quanto tale, una crescita dolorosa, ogni capitolo è preceduto da un sommario degli eventi che seguiranno. Proprio come, uno tra tanti, nel Tom Jones di Henry Fielding,
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On the other side
"Il passaggio" rappresenta l'ennesima avventura di Michael Connelly e del suo ormai pensionato detective Harry Bosch.
Con un ritmo incalzante e una trama abbastanza coinvolgente e interessante, Connelly riesce a ridare un po' di brio al suo personaggio più rappresentativo, dopo le ultime uscite abbastanza deludenti.
I personaggi sono caratterizzati molto bene e riescono a suscitare sia empatia che disprezzo (nel caso dei soggetti negativi della storia). Soprattutto i due protagonisti, Bosch e l'avvocato Haller, contribuiranno a rendere vivo il contesto e la storia nella quale si muovono, che non va mai per le lunghe e tiene il lettore incollato alle pagine. Certo, non si tratterà di un racconto originalissimo, ma con la miriade di storie che ci sono in giro quanti autori possono vantare questo diritto?
Bosch si è quasi rassegnato alla sua vita da pensionato: la sua unica occupazione è rimettere in sesto una vecchia Harley Davidson e cercare di entrare nelle grazie della figlia ormai prossima al diploma. Peccato che quando il dovere chiama, Bosch non sia capace di ignorarlo.
Quando il fratellastro e rinomato avvocato Mickey Haller gli offre un lavoro, ovvero scagionare un suo cliente che ritiene accusato ingiustamente dell'omicidio di una donna, Bosch si mostra palesemente contrario, almeno all'inizio. In una vita intera, si era sempre trovato dalla parte dell'accusa, e passare alla difesa era considerato un vero e proprio tradimento, sia dalla sua coscienza che dai suoi ex colleghi. Ma quando si ritrova a osservare i dettagli del crimine e nota più di un particolare sospetto, comincia a farsi strada la prospettiva che un assassino si trovi a piede libero a discapito di un innocente, e perciò l'anima del detective torna a farsi sentire. Si rimetterà in carreggiata, sfoggiando sul campo tutte le sue grandi capacità di deduzione e la sua esperienza, seguendo una scia di morte e misteri che sembrano legati da un unico filo conduttore.
Ritmo serrato e una storia che susciti un buon interesse sono ingredienti fondamentali per un buon thriller, e stavolta Connelly ci è piaciuto.
"Lascia perdere, Haller, questa storia imbarazzante. Qualsiasi avvocato di difesa dice quello che stai dicendo tu. Non c'è cliente che non sia innocente. Sono trent'anni che sento la stessa solfa ogni volta che entro in un'aula di tribunale. Ma sai una cosa? Non c'è una sola persona che mi pento di aver ficcato in galera. Eppure tutti in un momento o nell'altro si dichiarano innocenti."
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Un giallo sociale, divertente e amaro.
Torto marcio - A. Robecchi
Un giallo che va oltre i soliti confini del romanzo di genere, una fotografia della Milano che non esce sulle copertine patinate delle riviste e delle persone, i cosidetti ultimi, che la popolano.
Non ho letto i libri precedenti di Robecchi, quelli della serie con Monterossi protagonista arrivata al quarto capitolo, e dopo aver letto quest’ultimo mi è venuta una irrefrenabile voglia di recuperare le precedenti puntate.
La trama gira intorno a tre storie principali che partono separate per poi, in qualche modo contorto, intrecciarsi e portare al gran finale. Abbiamo il gruppo investigativo della questura guidato dai sovrintendenti Carella e Ghezzi che indagano sugli omicidi che stanno impazzando nella Milano di oggi, abbiamo il famoso autore televisivo, amante di Bob Dylan, Monterossi che insieme al suo fidato amico Oscar cercano un anello di inestimabile valore e infine abbiamo un gruppo di ragazzi appartenenti ad un collettivo comunista che si batte per il diritto alla casa. Questi sono i tre filoni di cui sopra: il primo, quello che racconta di Carella e Ghezzi, è il filone più esilarante che mi ha fatto molto divertire e mi ha letteralmente trascinato nella lettura del romanzo. Un’armonia tra i personaggi, una splendida complicità e un’ottima divisione dei ruoli con alcune sorprese che lasciano il segno come la splendida signora Rosa. Andando avanti nel romanzo si ha il piacere di visitare una Milano di periferia, dove vivono i vinti, coloro per i quali la scala sociale non ha preso la direzione sperata, le persone che combattono per cose basilari come il diritto di avere un tetto sotto al quale vivere. Ed è proprio questo il particolare merito del romanzo, e cioè di portare in superficie un annoso problema di cui non si parla mai abbastanza e che spesso rappresenta terreno fertile per movimenti e politici populisti. In questa maniera Robecchi porta il suo racconto oltre i confini del giallo trasformandolo anche in una sorta di denuncia sociale.
Inoltre abbiamo un ottimo racconto delle tecniche di investigazione con le procedure rese molto realistiche e descritte in maniera precisa, niente super uomini che risolvono tutto da soli ma un lavoro di squadra che mostrato così sembra quasi uno spot per arruolarsi in polizia dato che sembra molto stimolante pur senza inventarsi nessuna sofisticata diavoleria, purtroppo sappiamo che la realtà non è così ed è molto più prosaica.
Spostando la lente dal gruppo investigativo a Monterossi cambia molto il registro letterario infatti le atmosfere cambianno e si allegeriscono, il protagonista è un affascinante autore televisivo in perenne conflitto con se stesso e in continua ricerca di dischi di Bob Dylan; ciò nonostante resta costante la critica al sistema giornalistico della TV della sofferenza, per capirci quella TV di cui la nostra Barbara D’urso è leader e di cui spesso ci vergogniamo per la estrema cinicità e mancanza totale di buon gusto e sensibilità. Una critica mai velata e sempre precisa che mostra un dietro le quinte molto verosimile di tali programmi abbastanza discutibili.
In definitiva il romanzo Torto marcio è veloce, simpatico e ti porta facilmente alla dipendenza in quanto riesce a instaurare fra il lettore e i personaggi un solido legame, un’affezione particolare. La costruzione della trama e gli incastri creati sono efficaci e funzionali alla scorrevolezza del testo; le battute tra i protagonisti, gli equivoci e i momenti di divertimento sono molti e ben sparsi nel testo, comunque ben bilanciati con i momenti di tensione e suspance che fanno accelerare il racconto in maniera decisa. Una bella prova che a detta di molti fa toccare un nuovo picco alla produzione letteraria dell’autore.
Sono estremamente soddisfatto per la scoperta di questo autore e ne consiglio vivamente la lettura anche a chi non è amante del genere ma cerca semplicemente una buona e intelligente storia da leggere.
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UN ROMANZO CON POCHE IDEE
Landon, è il protagonista di questa storia, un bravo ragazzo, semplice, che si è trasferito a New York per seguire la sua ragazza, Dakota, che lo ha prontamente lasciato per vivere la sua vita. Nothing more-Dopo di lei, non è un libro, ma una serie di pensieri e riflessioni che Landon fa sulla sua vita, su quanto la grande mela, sia diversa dal suo piccolo paese d’origine, di quanto gli manchi la sua famiglia. Si divide tra l’amore per la sua ex, o forse è solo desiderio, e l’attrazione per Nora, un’amica della sua coinquilina. Detta così potrebbe anche sembrare una storia, solo che la nostra Anna Todd, continua per tutto il libro a raccontare di come Landon si senta spaesato nella sua nuova vita, di quanto sia indeciso nella sfera privata, di quanto abbia sofferto nel suo passato quando nessuno lo considera. Questo personaggio non ha un’evoluzione, ma subisce tutto quello che gli succede, alcune volte mi sono chiesta se questo ragazzo sia vero, se possa esistere veramente. Mi sembrava surreale, tutto in questo libro sembra finto, senza alcun senso. L’autrice non ha idee, ma prende un personaggio già presente nella sua serie più famosa “After” e lo riprende sperando di avere lo stesso successo dei precedenti libri. Quello che più mi ha spaventato è lo stile della Todd, semplice, anzi semplicissimo quasi elementare, mi sembrava di leggere una serie di pensierini così basilarI, che non mi aspetto in un romanzo. Sono veramente queste, le storie che le adolescenti vogliono leggere? Criticare non fa mai bene, ma qui ci sono veramente molti punti deboli, prima di tutto il libro è noioso, Landon è anche simpatico a tratti, ma rimane fermo non tentando di cambiare la sua vita. In molti punti l’autrice ci parla del caffè, di quanti caffè si bevono i protagonisti, di cosa fanno durante il giorno, di cosa mangiano, insomma il nulla. Anna Todd, non sa coinvolge il lettore, non lo rende partecipe della vita dei protagonisti, ma questo rimane ai margini solo come spettatore, freddo e distante. Inevitabile è stato anche trovare nel testo, il riassunto o comunque dei cenni che rimandano ad “After” , che a mio avviso sono inutili e non arrichiscono la storia. Landon, alcune volte, in poche pagine ripete gli stessi concetti e pensieri, la storia si arena e non prosegue. Il protagonista non sa scegliere, tra l’ex e Nora, l’amica della sua coinquilina. L’ex ragazza, è un’ oca giuliva che vuole avere la sua libertà, ma allo stesso tempo è gelosa di Landon e non lo vuole lasciare andare. Mentre Nora,è una donna sicura di sé che fa colpo su Landon,che lo attrae fisicamente, ma non si capisce ancora se tra loro può nascere qualcosa di importante .La narrazione è pesante anche perché la storia è raccontata unicamente dalla parte di Landon e forse avrebbe aiutato la doppia versione da parte di un altro personaggio. Questo dovrebbe essere un romance ma non c’è nessun elemento che lo possa far assomigliare ad un testo d’amore. Inoltre, l’impaginazione è orribile, caratteri grandi, margini larghi, alcuni errori nel testo, ripetizioni che appesantiscono il libro. Verso la fine del romanzo la storia inizia a prendere forma, ma per capire qualcosa in più bisognerebbe leggere il seguito. Credo che questo romanzo sia partito da una buona idea che poi si è stata sviluppata male.
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E per cena... coniglio!
E sì, è proprio insopportabile questo gaucho insopportabile!
Non conoscevo Bolano e perciò non sapevo cosa aspettarmi. Il primo racconto è breve e molto carino e parla della fascinazione dell’amico Jim per i mangiafuoco. Fascinazione che porta a una situazione particolare e forse paradossale ma interessante. Segue il racconto che dà il nome alla raccolta. Sembrerebbe una storia biografica con la figura del protagonista, Pereda, padre di Bebe il letterato di successo, che il lettore immagina sia il padre di Bolano. La storia sembra vera e plausibile, ci sono anche riferimenti al famoso default argentino. Ci sono anche però elementi particolari. Per esempio la pampa dove va a stare Pereda è piena di conigli. Questi conigli sono creature curiose e non fifone come vorrebbe la loro fama. Corrono a vedere la vacca (non hanno mai visto una vacca), sembra che vadano incontro alle persone, sono più curiosi che spaventati, finiscono spesso in padella. Naturalmente la base dell’alimentazione della popolazione locale è il coniglio. Ma il punto che mi ha fatto scervellare sulla possibilità dell’esistenza di un simile coniglio, è quando Bebe porta nella pampa il suo editore a fare un giro a cavallo e un coniglio gli salta al collo azzannandolo e ferendolo in modo preoccupante compiendo un salto in alto di almeno un paio di metri.
Il racconto successivo è carinissimo, con un’indagine topo-poliziesca. Anche lì per capire che il poliziotto era un topo mi ci è voluto. Ho passato un po’ di tempo a meditare sulle strane abitudini poliziesche argentine e sulla stranezza di quei crimini ascrivibili quasi sempre a serpenti e predatori. Ma a parte il topo il racconto è molto avvincente così come l’indagine la cui conclusione temo sia legata a considerazioni sulla razza topina generali e non a semplice divertimento. Mi pare ci siano delle frecciate al sistema di polizia argentino distribuite in vari racconti. Come ci sono frecciate e anche sciabolate rivolte al mondo della cultura e dell’editoria. Cultura? Forse la parola non è appropriata. L’autore dà sfoggio di tutta la sua insopportabilità nella descrizione dei colleghi scrittori e del sistema editoriale.
“Gli scrittori attuali non sono più, come bene faceva notare Pere Gimiferrer, dei signorini pronti a fulminare la rispettabilità sociale e tanto meno un branco di disadattati ma gente che viene dalla classe media e dal proletariato ed è decisa a scalare l’Everest della rispettabilità, desiderosa di rispettabilità.
Sono biondi e bruni figli del popolo di Madrid, sono gente di classe medio-bassa che spera di finire i suoi giorni nella classe medio-alta. Non rifiutano la rispettabilità la cercano disperatamente. Per raggiungerla devono sudare molto. Firmare libri, sorridere, fare viaggi in posti sconosciuti, sorridere, fare i pagliacci nei programmi di cronaca rosa, sorridere molto, soprattutto non mordere la mano che dà loro da mangiare, presenziare alle fiere del libro e rispondere di buon grado alle domande più cretine, sorridere delle peggiori situazioni, fare la faccia intelligente, controllare la crescita demografica, ringraziare sempre.”
In fin dei conti è tutto folklore, l’uomo di cultura si è trasformato in opinionista scritturato dai talk show televisivi, il bene e il risparmio sono intimamente legati, la velocità delle immagini ha la meglio sulla durata e Borges è stato crocefisso. Viva Letelier e l’Allende e tutto il romanzo d’appendice!
“E’ nel romanzo d’appendice la salvezza del lettore (e tra parentesi, dell’industria editoriale). Chi l’avrebbe mai detto. Sempre lì a pontificare su Proust, sempre lì a studiare le pagine di Joyce appese a un filo e la risposta era nel romanzo d’appendice. Ah, il romanzo d’appendice. Ma siamo pessimi a letto e probabilmente faremo un altro passo falso. Tutto porta a pensare che non ci sia via d’uscita”.
Nel caso qualche editore volesse leggersi la raccolta, mi raccomando: cave coniglio. Non sia mai che ne saltasse fuori uno direttamente dalle pagine del libro per azzannarlo alla gola. Dopo questa lettura non mi meraviglio più di niente!
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zzzzzzz...
Il detective in pensione Bill Hodges viene chiamato sulla scena di un delitto per una consulenza. Si tratta dell'invito fatto dall'amico Pete, ex compagno di squadra, più per curiositò che per dare una mano alle indagini. Una madre, infatti ha ucciso la figlia paralizzata dal collo in giù e si è suicidata. Caso chiuso. La figlia è una delle vittime di Mr Mercedes, un folle che si è gettato su una folla di disoccupati con l'auito facendo danni rilevanti. Alcuni anni dopo ha cercato di farsi esplodere ad un concerto gremito di ragazzine. Ridotto ad un vegetale da Hodges e dalla sua banda di investigatori dilettanti adesso si trova nell'ospedale cittadino ed apparentemente è innoquo. Buona parte di questi fatti sono successi nei volumi precedenti.
Veniamo a "fine turno". Ossessionato da Brady, Hodges ha la sensazione che in qualche modo abbia messo lo zampino anche in questo atto, dopotutto il suicidio, assieme all'informatica sono una delle sue fisse. Si prende del tempo per indagare e trova una Z scritta su un muro ed uno Zappit. Si tratta di un giochino elettronico piuttosto datato e poco coerente con le padrone di casa. Tanto basta per far partire le indagini, scoprire l'esistenza di un progetto di induzione al suicidio del maggior numero di adolescenti possibili, l'individuazione dei complici piò o meno consapevoli di esserlo e la scoperta dell'ideatore di tutto questo.
Le ragioni per cui ho deciso di chiamare questa recensione ZZZZZZZ sono diverse. Innanzitutto perchè questa è la lettera che viene lasciata come firma sui luoghi dei delitti.
Poi, perchè il modo in cui le vittime sono indotte al suicidio mi ricorda il rumore delle zanzare che ti ossessionano durante la notte. Sempre lì fino a diventare a momenti un suono di fondo di cui quasi ci dimentichiamo e a momenti qualcosa che ci manda al manicomio.
Infine, perchè alcune delle scene che avrebbero dovuto dare maggiore tensione a me sono sembrate piuttosto soporifere. Troppe descrizioni, troppi pensieri da parte dei protagonisti, tanto da far passare la voglia di sapere come va a finire.
A parte questo, nel complesso il libro mi è piaciuto abbastanza. Le indagini di Hodges sono credibili, precise e rigorose anche quando si accorge che il colpevole più incredibile piano piano sta diventando quello più plausibile. La scelta di fare del suicidio degli adolescenti uno dei protagonisti avrebbe potuto rivelarsi piuttosto antipatica. Dopotutto questo non è un saggio, ma un libro di svago. E' stato inserito talmente bene nel contesto da non dare fastidio e l'idea di fornire il numero del telefono in aiuto ai potenziali suicidi probabilmente è una furbata, ma chissà per qualcuno può essere stato un servizio pubblico.
Visto il contenuto delle ultime pagine suppongo che, come annunciato, questo sia veramente l'ultimo volume su mr Mercedes. Consiglio di leggere anche i due precedenti, perchè i personaggi e i fatti sono talmente tanti che conoscere il passato aiuta ad apprezzare di più il presente.
Nel complesso la trilogia mi è piaciuta, però condivido il parere di quanti dicono che King stia perdendo lo smalto. Ancora un buon scrittore, ma quello di vent'anni fa era un'altra cosa.
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Non del tutto soddisfatta
Terzo atto della saga “Le Sette Sorelle” e pur non avendo letto gli altri, la Riley non mi lascia in “balia delle onde”, ma subito mi fa entrare nella storia. Le Sorelle sono tutte figlie adottive di Pa’ Salt, il quale le ha trovate ognuna in un luogo diverso. Dopo tutti questi anni d’idillio ad Atlantis (Svizzera), alla morte del padre (molto sospetta), ogni sorella ha ricevuto una lettera e delle coordinate per risalire alle proprie origini. Questa volta tocca alla “Sorella Ombra” ovvero a Asterope (nome legato alla costellazione delle Pleiadi) ma da tutti chiamata Star.
Star ha un rapporto di dipendenza reciproca con la sorella CeCe, al punto che pur avendo quasi trent’anni oltre a vivere insieme, dormono ancora nella solita camera. Le parole di Pa’ Salt, sono chiare, vuole che Star prenda in mano la sua vita anche perché “La quercia e il cipresso non crescono l’una all’ombra dell’altro”.
Star decide di seguire il consiglio e il primo indizio la porta davanti l’ingresso di una libreria che vende libri antichi e appena varcata la soglia, si trova davanti lo stravagante Orlando. Il secondo indizio è un nome, Flora MacNichol, cosa avranno in comune le due?
La Riley alterna passato e presente, se da una parte siamo nel 2007 con Star e il suo cambiamento interiore per uscire finalmente dall’ombra, dall’altro siamo nel 1909 e stiamo per conoscere la storia di Flora anche lei vissuta per molto tempo nell’ombra.
Sicuramente alle appassionate della saga, il mio voto avrà fatto un po’ storcere il naso, ma posso dire che la valutazione è motivata. Inizialmente l’approccio al romanzo è stato molto positivo, questa “Sorella” proprio mi piaceva; amante dei libri, della botanica e della cucina, davvero molte affinità con la sottoscritta. Ma quando andiamo a togliere queste passioni, quello che rimane è una ragazza che non ha mai vissuto la sua vita pur avendo ventisette anni. Una donna che fino a quel momento ha sempre condiviso tutto con la sorella e “di punto in bianco” decide di staccarsi da lei rimanendo però ambigua e senza mai affrontare di petto la situazione. Star si nasconde dietro gli altri, si espone poco in prima persona e se adesso non è la sorella a decidere per lei, ci pensano gli altri. Non ho visto il salto “dall’ombra alla luce” così netto. Amo le protagoniste schiette, le ambiguità non sono per me. Per quanto riguarda poi Flora, la mia delusione è stata quasi maggiore. Una donna che è sempre vissuta nell’ombra e ne ha passate molte, nel momento in cui doveva veramente far vedere di che pasta era fatta cede al compromesso e preferisce chiudere gli occhi invece di affrontare la realtà.
Se avessi dovuto valutare solo la prima parte del romanzo, il voto sarebbe stato sicuramente più alto. Parliamo di un romanzo di ben 640 pagine, che fino a metà mi aveva incantato e incuriosito. La Riley era riuscita a creare quell’atmosfera giusta che mi piaceva, con tutta quella campagna inglese sullo sfondo e il profumo dei libri antichi. Ma a un certo punto il suo saltare dal passato al presente invece di aggiungere, toglieva, lasciandomi insoddisfatta. Alcuni anni fa lessi “Il giardino degli incontri segreti” e rispetto a quello sicuramente la scrittrice è maturata ma manca ancora qualcosa.
A Hollywood hanno già deciso che questa diventerà una serie Tv, fossi in lei mi sentirei un po’ condizionata e probabilmente lo è anche lei..
Dopo oltre 600 pagine tira via sul finale. Partita bene ma arrivata male. Se ancora ci fosse qualche dubbio sulle protagoniste..alla semplice domanda di una giornalista che gli chiedeva quale personaggio preferisse, la Riley ha risposto Orlando e Mouse…strano perché le protagoniste erano ben altre.
Buona lettura!
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Cyra e Akos
Tutti i pianeti della galassia sono attraversati dalla corrente. Essa scorre attraverso ogni fiore che sboccia nel ghiaccio donando la sua luce a testimonianza del suo potere. Thuvhe è uno dei Pianeti che compongono il sistema stellare; è un luogo abitato da due popolazioni tra loro rivali, i pacifici Thuvhesiti, cultori dei fiori del silenzio, e gli Shotet, guerrieri di origine nomade. Tra gli abitanti di questa realtà esistono i cd “predestinati”, coloro cioè che sono muniti di fati. Questi ultimi hanno un significato estremamente particolare poiché, con il loro essere, sono in grado di mutare le vite e le sorti dei rispettivi proprietari.
Cyra Noauvek shotet, sorella di Ryzek, nonché Akos Kereseth, thuvhesita, lo sanno molto bene. Entrambe ne hanno subito gli effetti; il giovane, venendo rapito in tenera età dalla casa natia, sita in Hessa, insieme al fratello Eijeh, e la ragazza essendo condannata, a causa – oltretutto – del suo dono, a diventare lo strumento di tortura per eccellenza del fratello, il quale vuole in ogni modo evitare che il suo “percorso”, con esito infausto, si realizzi. Ma non sono solo i fati a renderli speciali; sono anche i loro doni a contraddistinguerli dalla massa. E se Cyra ha la capacità di percepire il dolore e di infliggerlo col tocco delle proprie mani, Akos è in grado di interrompere il flusso della corrente e dunque di dare sollievo all’intima sofferenza della stessa.
Cyra è piegata dal senso di colpa, non vorrebbe utilizzare il suo potere quale arma, ne tantomeno vorrebbe servire lo shotet per scopi meschini ed oscuri, ma è anche ben consapevole della propria incapacità ed impossibilità a sottrarvisi. Il maggiore sa dove far leva per ottenere i suoi servigi, sa esattamente quali tasti toccare per placare ogni animo ribelle della consanguinea. Ed è proprio quando le sorti sembrano aver fatto il loro corso, che le carte delle medesime vengono a rimescolarsi. Dall’incontro dei due protagonisti, nulla sarà più come prima, alcunché sarà così scontato e/o immutabile e l’avventura avrà inizio…
Con “Carve the mark. I predestinati”, torna in libreria con un’opera piacevole, contraddistinta da un’idea di partenza buona e ben strutturata, Veronica Roth, autrice della celebre saga di Divergent. La stessa è caratterizzata da uno stile semplice e dalla tanto amata alternanza di narrazione (peculiarità che abbiamo già rilevato essere propria della penna di molteplici scrittrici contemporanee, Roth compresa), elementi questi che rendono, almeno nella prima sezione dello scritto, la lettura farraginosa. La storia prende campo e si sviluppa pienamente soltanto a partire dai 2/3 del volume e cioè dal momento in cui, superate le premesse, entriamo nel vivo delle vicende.
Per quanto i presupposti per riuscire vi siano, mi duole dover dire che lo scritto non brilla particolarmente per originalità essendo intriso di tratti che inevitabilmente lo ricollegano a pellicole cinematografiche e/o pubblicazioni contemporanee (e passate). Taluni tratti comuni sono innegabili, infatti. L’americana, inoltre, non si stacca dalla tipologia di personaggi adolescenziale, – che si concentra nuovamente nei 16/17 anni – né dal binomio povertà/ricchezza, con la quale l’abbiamo conosciuta, sminuendo così in parte quella crescita che poteva percepirsi nella sua penna. Se infatti dal punto di vista descrittivo e narrativo questa risulta maturata, il carattere dell’età, la riconsacra al pubblico più giovane, ed è un peccato, perché Akos (in particolare) e Cyra si fanno amare dal pubblico.
Comunque, nel complesso il testo si fa apprezzare, incuriosisce, cattura, funziona. Non può definirsi una lettura indimenticabile, ma certamente è adatta a chi cerca un libro semplice, solido, di facile scorrimento, e con cui trascorrere qualche ora lieta.
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no = a chi preferisce opere più concrete
De Luca.
Bologna. Il corpo di Mantovani Stefania in Cresca, classe 23 agosto 1922, viene rinvenuto privo di vita nell’appartamento usato dal marito, Mario, per le serate da scorribande con amici e “amiche”. Del caso viene investito l’ex commissario De Luca, il quale partito da Roma, si ritrova a lavorare per i servizi e a dirimere un mistero molto più oscuro ed intricato di quel che potevasi pensare ab initio.
Di fatto, il poliziotto, si riscopre di fronte un delitto non isolato, un omicidio – e non un suicidio come potevasi pensare – cioè, collegato ad altri decessi le cui indagini sono state archiviate con inspiegabile rapidità. Ma chi aveva interesse a far cadere nell’oblio dette morti? Qual è inoltre il ruolo di quella voce tanto suadente quanto roca e profonda di Claudia/Franca, personaggio femminile tanto affascinante quanto enigmatico? E quello del Fiorentino Giannino? Può davvero fidarsi, De Luca, di questo ragazzone-ragazzino, manipolato e sfruttato dai servizi eppure furbo e con gli scrupoli morali e l’allegria di un bambino che frigge di fronte ad un giocattolo nuovo?
Con “Intrigo italiano. Il ritorno del Commissario De Luca”, Carlo Lucarelli dà vita ad un giallo sottile, lineare privo di particolari colpi di scena e dall’epilogo intuibile, ma al tempo stesso accattivante e fluente. L’autore, infatti, ben mixa le componenti storiche con quelle del caso che, snodandosi negli anni ’50, è munito di tutte le caratteristiche necessarie per rendere concrete le vicende e permettere al lettore di sentirsi parte integrante di quella fase. Sulla scia del periodo Fascista, giunto a conclusione ma non ancora dimenticato e per questo oggetto di reminescenze su chi per ragioni di sopravvivenza non aveva potuto sottrarsi dal farne parte, De Luca in primis, e sulla scia della guerra Fredda, ove spie russe si connubiano perfettamente con quelle americane ed italiane, i fatti si faranno sempre più incalzanti per risolversi ,infine, in quello che è un vero e proprio intrigo tutto italiano.
Stilisticamente la penna di Lucarelli non delude risultando essere munita di quella verve magnetica che gli è propria. Lo scrittore riesce inoltre a dar vita ad un testo che è perfettamente leggibile da tutti, tanto da chi conosce dell’ex commissario, quanto da chi vi viene in contatto per la prima volta
In conclusione, non indimenticabile ma certamente da leggere. Una buona prova.
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A ciascuno la propria verità
Orhan Pamuk è il cantore per eccellenza della terra turca, tutte le sue opere traggono ambientazione e linfa dalle tradizioni e dalla cultura di cui lui stesso esprime tutte le sfaccettature.
L'ultimo romanzo porta in scena padri e figli, mutuando il tema dai testi classici del mondo occidentale e da quello orientale, intrecciando la vita reale con quella fiabesca e leggendaria come solo la penna di questo autore riesce.
Padri e figli uniti e divisi dal destino, si ritrovano e si perdono al ritmo di una danza crudele, illusione e consapevolezza come due facce di una medaglia, vendetta e tragedia, disgrazia accidentale o cecità fatale.
L'incursione nella narrazione dei miti letterari di tutti i tempi non può mancare, con l'apporto di una carica di magia e di saggezza, con tante immagini che ben si adattano alle epoche moderne.
Lo strano scherzo del destino riservato ad un padre e figlio della Turchia del ventesimo secolo, sembrano ricalcare le orme di un passato tragico condiviso da altri protagonisti che la mano di Pamuk porta sulla scena con estrema naturalezza, creando un'amalgama passato-presente, leggenda e realtà, consona e tangibile.
Il costrutto narrativo è ottimamente congegnato e nonostante la prima parte del romanzo sia scandita da un ritmo lento, esplode poi in una cavalcata di intrecci ed eventi che donano pathos e legano il lettore alle pagine fino all'epilogo, dove tutto prende forma e significato.
Belle ed intense le pagine pregne di riflessioni e paralleli sui rapporti umani, siano essi uomo e donna, madre e figlio, padre e figlio.
Ancora una volta Pamuk ha dato un volto alla sua terra, anzi più di uno, cantando la vita dell'ingegnere Cem diviso tra essere figlio alla ricerca di un padre ed essere un padre alla ricerca di un figlio; eppoi lei, la donna dai capelli rossi, amante e madre, gioia e dolore, lacrime e sorrisi, figura enigmatica inizialmente destinata a svelarsi con intensità struggente.
Pur non raggiungendo le vette de “Il mio nome è rosso”, questo è un buon romanzo, dai molteplici contenuti e spunti di riflessione per chiunque cerchi sostanza in una lettura.
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Non smettere di cercare
Dopo i fiori, il miele e i profumi, la casa editrice Garzanti si “getta” sulle pietre, dando la possibilità alla scrittrice Parenti di farsi leggere anche su carta. Questa possibilità non viene assolutamente sprecata dall’autrice lucchese che con grazie si conquista un posticino vicino alle sue colleghe di genere.
Siamo a Milano e la piccola Luna e il suo amichetto Leo stanno scoprendo, grazie al nonno di lei, l’importanza delle pietre. Con un alternarsi di presente e passato scopriremo che le pietre hanno una loro voce nascosta e solo chi ha il dono di sentirle ne può capire l’importanza.
Per il nonno Pietro, loro sono i suoi due diamanti che per trovare la luce dovranno scavare e non arrendersi e soprattutto non dovranno mai e poi mai “smettere di cercare”. Ma la vita non sembra seguire il binario che i due si sono prefissati e spesso seguire la via più semplice, sembra anche la più giusta.
Di Chiara Parenti avevo letto un eBook davvero molto divertente ed ironico; in questo romanzo invece ho trovato una scrittrice molto più matura, con una storia intensa da raccontare. Pur essendo partita con una dose non indifferente di scetticismo, la storia e le proprietà delle pietre mi hanno subito affascinata catapultandomi in un altro mondo, quello dove ““Luna, tu hai un dono”. Gli sfuggì un sospiro. “Senti le pietre, come senti le persone””.
La Parenti ci presenta una protagonista che come dice il nome, affronta varie fasi della vita. Toccherà il cielo, poi si eclisserà, ma l’importante è tornare a essere se stessi e brillare di nuovo.
Un romanzo bello da leggere, sicuramente più ideale per il genere femminile, e preparatevi, una volta iniziato sarà difficile da abbandonare. Non sono solo i colori, le dimensioni e le proprietà delle pietre a incuriosire, ma tutta la storia che ognuna di essere si porta dietro; i giacimenti, le loro origini, le terre dove sono nate e le mani che le hanno cercate. L’autrice riesce a renderle tangibili e leggendo la sua intervista a fondo pagina si comprende come sia riuscita a rendere tutto ciò possibile, perché è lei la prima a crederci.
Dimenticavo, ogni capitolo inizia con la descrizione di una pietra e delle sue proprietà..sinceramente ha fatto venire la voglia anche a me di approfondire l’argomento..
Inevitabile è la riflessione che la scrittrice manda: meglio una vita tranquilla e prevedibile con un quarzo o lasciarsi travolgere da un diamante, sapendo bene i rischi che si corrono?
Lo consiglio, ne sono rimasta piacevolmente colpita e spero di poter leggere presto altro di lei. È difficile abbandonare Luna, Leo, nonno Pietro (meraviglioso), Giada e tutti gli altri, siete stati davvero piacevoli compagni per questo viaggio di lettura e avete scaldato il cuore di una romantica.
Vi lascio con questa frase:
““Preparati, tesoro, perché da un viaggio non si torna ma come si è partiti”. Il nonno sorrise e dietro quel sorriso enigmatico intuisco che ci sono molte più cose di quante non mi abbia detto a parole. “E non preoccuparti per i bagagli, non servono a niente. Basta solo che tu dispieghi le ali, cavalcando il vento della paura. Devi mollare tutto e lanciarti nell’avventura, solo così potrai assaporare la sensazione meravigliosa della libertà. E dopo averla conosciuta, posso assicurarti che non saprai più come farne a meno””.
Buona lettura!
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Più che caos, calma assoluta
In tutta onestà mi trovo un po’ in imbarazzo nello scrivere questo commento sull’ultimo romanzo di Patricia Cornwell, da qualche settimana disponibile in libreria. Infatti, sebbene sia il primo thriller che leggo di questa autrice, ovviamente mi era nota la sua fama e l'enorme successo di critica e pubblico che da vent’anni riscuotono i romanzi con protagonista Kay Scarpetta. Mi sono quindi avvicinata a questa lettura con una certa aspettativa, mista alla curiosità di fare la conoscenza con questa famosissima anatomopatologa che tanti anni fa ha dato il via a un nuovo tipo di letteratura giallistica, fatto di camici e analisi di laboratorio, da allora imitatissimo.
Perché imbarazzo quindi? Perché purtroppo devo dare testimonianza di un’esperienza di lettura assai faticosa e poco coinvolgente, a tratti francamente noiosa.
La storia fatica ad ingranare, anzi probabilmente sarebbe meglio dire che non ingrana mai. Dopo duecento pagine di innumerevoli dettagli sulle modalità con cui allestire la strumentazione per l’analisi della scena del crimine, la nostra conoscenza sugli omicidi è di fatto la stessa fornita dalla lettura della quarta di copertina. Senza contare poi i minuziosi particolari relativi alla famiglia della protagonista che risultano vagamente inutili, se non irritanti. A che pro, ad esempio, elencare tutte le automobili disponibili nel garage del marito? Possibile inoltre che le uniche caratteristiche di tutti i famigliari di Kay Scarpetta siano l’essere intellettivamente prodigiosi, straordinariamente belli o incommensurabilmente ricchi? Davvero non c’era nient’altro da dire che ci permettesse di conoscerli meglio ed entrare in sintonia con loro?
E’ evidente che tra me e la famiglia Wesley-Scarpetta non sia nata una particolare simpatia ma credo che ciò dipenda essenzialmente dalla totale mancanza di umanità che i personaggi hanno mostrato nel corso delle pagine. “Buoni” e “cattivi” hanno fatto la loro parte seguendo un copione piuttosto prevedibile, ma a rendere così difficile la lettura non è stata la trama non particolarmente avvincente ma il fatto che la storia non abbia mai lasciato trapelare i sentimenti, il carattere, le motivazioni, la vita di nessun personaggio. E allora rimangono solo bustine di plastica contenenti prove da cui ricavare la verità, ma senza la componente umana ad animare la storia di chi persegue il male e di chi lo combatte, poco resta alla lettura.
Pur essendo di fondo un romanzo ben scritto, che denota un certo mestiere, non mi sento davvero di consigliarlo se non ai seguaci della famosa dottoressa, curiosi di conoscere l’ultima sua avventura. Per tutti gli altri, credo sinceramente che vi siano thriller migliori, probabilmente anche attingendo alla precedente produzione di quest’autrice.
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Amore e morte a Barcellona
Sapete chi erano i bastaixos? Erano i cosiddetti 'scaricatori di porto', per la maggior parte schiavi impiegati per carico e scarico merci presso il porto di Barcellona e furono rappresentati persino in un bassorilievo della Cattedrale di Santa Maria del Mar perchè, nonostante la loro condizione di estrema povertà, contribuirono alla costruzione di quella immensa cattedrale trasportando sulla propria schiena le pietre provenienti dalla cava e senza ricevere alcun compenso; proprio per questo, la Cattedrale del Mare è la cattedrale dei bastaixos.
E sapete che re Martino il Giovane, malato e prossimo alla morte, per garantire che il trono rimanesse sulla stessa linea maschile legittima del casato di Barcellona, prese in moglie la giovanissima e vergine Margherita di Prades nel tentativo di avere da lei un erede; peccato però che il re, oltre che affetto da una grave malattia che gli procurava continua sonnolenza, era anche molto grasso pertanto i medici di corte suggerirono di sollevarlo con un meccanismo ad argano mentre alcune donne avrebbero provveduto ad indirizzare il suo membro nella giusta direzione.. purtropppo, ahimè, senza alcun risultato.
Ed avete idea delle tecniche utilizzate per la costruzione delle galee o per la distillazione del vino tramite un rudimentale alambicco con produzione della miracolosa aqua vitae?
Queste e tante altre curiosità sulla storia e sui costumi di vita nei territori iberici della Corona d'Aragona potranno essere soddisfatte dalla lettura de 'Gli eredi della terra': mastodontico affresco della società catalana a cavallo del XIV secolo e, in particolare, della città comitale di Barcellona, protagonista indiscussa di questo nuovo romanzo di Ildefonso Falcones che, immagino, abbia ben sperato con tale fatica di replicare il grande successo editoriale conquistato col suo primo romanzo storico 'La cattedrale del mare', di cui 'Gli eredi della terra' rappresenta il seguito.
Siamo nel 1387, 4 anni dopo il completamento della Cattedrale del Mare. E la Cattedrale è ancora una volta testimone di un tragico evento: mentre le sue campane ancora annunciano la morte del re Pietro il Cerimonioso, mentre una moltitudine di gente è ancora accalcata nella piazza principale per la celebrazione funebre attendendo l'arrivo dei nuovi nobili, coloro che avrebbero preso il governo della città, alcune grida si levano sulle altre rivolte verso Arnau Estanyol, lì presente, e denunciandolo come traditore.
Alcuni provano timorosamente ad opporsi: Arnau Estanyol è non solo uno dei più stimati notabili di Barcellona ma è anche amministratore del Piatto dei Poveri, un'istituzione di beneficenza a sostegno di tutti i bisognosi della città e a cui egli stesso partecipa in modo attivo raccogliendo l'elemosina per i poveri; ma poco valgono le qualità morali e la rispettabilità di un uomo se le accuse di tradimento gli sono rivolte da un nobile, il conte Puig, erede di quella famiglia Puig che Arnau aveva umiliato e risparmiato alla morte diversi anni prima.
Sono essi i nuovi padroni della città e nessuno osa contraddire la loro parola: solo un ragazzino di appena 12 anni, Hugo Llor, figlio di un umile marinaio deceduto in mare, si scaglierà in difesa di Arnau contro le guardie che lo circondano per dar subito seguito all'ordine di impiccaggione voluto dal nobile.
Ma cosa può una goccia di coraggio in un mare di indifferenza e paura? Hugo sarà pestato a sangue e l'ultima immagine che vedranno i suoi occhi prima di perdere conoscenza sarà il corpo penzoloni di Arnau dalla forca.
Hugo diventa quindi il successore di Arnau nel ruolo di protagonista di una storia che prende vita tra le strade di Barcellona, nel quartiere della Ribera, vicino ai cantieri navali dove Hugo ancora ragazzino lavora come aiutante di un maestro d'ascia genovese, sognando di intraprendere egli stesso quell'attività tanto apprezzata in una città come Barcellona, centro di un florido commercio mercantile.
Un sogno destinato ad infrangersi ben presto contro un muro fatto di angherie, di prepotenze ed ingiustizie che la gente più umile subisce ad opera della nobiltà e contro cui molto spesso non può difendersi in alcun modo a causa di un sistema giudiziario basato sul vassallaggio che annulla di fatto ogni diritto ai ceti più disagiati.
Ed è quel senso di disperazione che colpisce i deboli, seguito dal desiderio di vendetta e dal disprezzo verso i prepotenti da parte di quei pochi che non vogliono soccombere e rinunciare alla loro dignità di uomini, che impregna le pagine dei romanzi di Falcones.
Così come è palpabile anche la denuncia nei confronti della chiesa cristiana, sia per l'atteggiamento oppressivo e crudele verso le minoranze musulmane ed ebree - tremendo il racconto dell'eccidio nel ghetto ebraico di Barcellona nell'agosto del 1391 - sia per la corruzione dilagante in tutto l'ambiente ecclesiastico, dai conventi in cui giovani suore subiscono violenze di ogni tipo occultate nel silenzio e nell'omertà sino alle sedi vescovili e dell'alto clero dove le questioni legate alla spartizione del potere e le ambizioni terrene hanno sicuramente più rilevanza rispetto alle dispute teologiche o, peggio ancora, alle lamentele della moltitudine povera e disadattata.
Ma se tutto ciò nel primo romanzo di Falcones, 'La Cattedrale del Mare', ha il sapore della novità, del mai letto, conferendo alla trama una tensione narrativa sempre molto alta, ne 'Gli Eredi della terra', complice forse la maggiore prolissità, la carica emotiva si affievolisce e la scrittura sembra a tratti sciatta e rallentata.
E' come l'elettrocardiogramma di un moribondo, con un tracciato praticamente piatto per tutta la durata della sua agonia, lunga quasi mille pagine, con qualche picco sporadico solo nei capitoli finali.
Persino gli intermezzi erotici in cui gli amanti consumano incontri clandestini e fuggevoli, se nel primo romanzo sono ben calati nel contesto della storia arricchendo il ventaglio di emozioni suscitate nel lettore, in questo secondo romanzo appaiono chiaramente forzati e persino ridicoli nella loro banalità.
Ho concluso, perciò, la lettura di questo romanzo profondamente amareggiato e deluso nelle mie aspettative: è ormai divenuto raro da parte di un autore replicare il successo di una propria opera con dei seguiti che si dimostrino all'altezza dei primi.
Tuttavia, 'Gli eredi della terra' pecca nella sua veste romanzata in modo proporzionale a quanto invece eccelle in veste di narrazione storica. Infatti, ciò che certamente non manca in questo libro è una ricostruzione dettagliata ed estremamente minuziosa del periodo storico medievale nel capoluogo catalano: le vicende di Hugo e dei vari personaggi che gli ruotano intorno si amalgamano ed intrecciano con gli eventi più importanti, politici e religiosi, che hanno caratterizzato quegli anni. E soprattutto, pregio indiscusso dell'autore è la capacità di ricostruire su carta la città aragonese del XIV secolo con un dettaglio impressionante tanto che, se fosse possibile essere trasportati indietro nel tempo, quei luoghi, quelle strade, le antiche mura, gli orti, le bancarelle del mercato e finanche i rumori e gli odori di vino, spezie e mercanzie varie ci sembrerebbero familiari.
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Paurosamente nella media
Trovarsi a leggere determinati autori genera sempre una sorta di attesa e di influenza positiva, soprattutto quando parliamo di grandi penne come Wilbur Smith. Tuttavia, durante la lettura de "La notte del predatore", andando avanti tra le pagine si fa gradualmente spazio l'idea di avere a che fare con un thriller spaventosamente convenzionale, che è abbastanza carente in molti aspetti in cui il suo autore aveva saputo distinguersi nelle sue precedenti fatiche.
La trama risulta coinvolgente solo in pochissimi e brevi tratti, è priva di suspance e non riesce mai ad intrigare. Sembra la versione romanzata di una serie di fatti di cronaca contemporanea. Da Wilbur ci si aspetta di meglio, e non vorrei che questo fosse solo il primo passo verso un declino che ha colpito altri grandi scrittori, tra i quali spicca Stephen King. Che Smith sia la prossima vittima della voglia di vendere a qualunque costo?
Capiamoci, "La notte del predatore" non è pessimo, ma rappresenta comunque un mezzo passo falso.
"La notte del predatore" è il terzo romanzo del ciclo che ha come protagonista Hector Cross, il capo di un'azienda di mercenari che è anche un importante socio di una società petrolifera.
Cross si appresta ad assistere all'esecuzione capitale del suo peggior nemico, Johnny Congo, pregustando una vita tranquilla con la sua fidanzata Jo Stanley e la figlia di tre anni. La rocambolesca fuga di Combo però, sconvolgerà i suoi piani tranquilli, costringendolo a rientrare in azione per proteggersi dalla sofisticata vendetta dell'evaso. Combo ha infatti come unico obiettivo quello di rovinare l'uomo che l'ha sbattuto nel braccio della morte e che ha ucciso l'unica persona alla quale avesse mai tenuto veramente.
Vi troverete di fronte ad operazioni militari in piena regola condotte da professionisti sprezzanti del pericolo, a intrighi finanziari e giudiziari, e a donne che al solo vedere il nostro protagonista saranno disposte a concederglisi senza remore, senza che lui se lo faccia ripetere due volte.
Personaggi un po' scialbi e trama non abbastanza coinvolgente.
Wilbur, che mi combini?
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Schizofrenia globale
Il romanzo Il simpatizzante, premio Pulitzer 2016, mette il dito su una ferita ancora aperta nel cuore americano: la guerra in Vietnam. L’autore lo sa fare con intelligenza in modo critico (ma nel finale la critica si diluisce e si disperde). In realtà quello che nella prima metà è un romanzo saggio sulla guerra in Vietnam e sui suoi retroscena diventa andando avanti soprattutto un Orwell ambientato nel passato e nel presente, cioè nell’attualità. Il romanzo porta il lettore a guardare il mondo con occhi disincantati, spietati, cinici senza trovarci un’ombra di umanità.
Il romanzo parte con il bellissimo incipit: Sono una spia, un dormente, un fantasma, un uomo con due facce. E un uomo con due menti diverse, anche se questo probabilmente non stupirà nessuno.
Il Capitano, l’io narrante, ci racconta di se stesso, un uomo con una natura doppia, padre europeo e madre vietnamita. Un uomo diviso dall’amore per la madre e dall’odio per il padre ( un prete che ha abusato della madre-ragazzina tredicenne). Diviso dalla sua razza che lo considera un bastardo, dai suoi parenti che lo trattano da inferiore. Ha al mondo due soli amici e un deserto affettivo e sociale da cui sa solo di voler emergere a ogni costo. “Promettimi che sarai migliore di tutti loro”, gli chiede la madre. Questo desiderio di farsi avanti è la molla che lo spinge, una molla spietata puntellata dall’odio più che dall’amore per la madre. Mai una volta il Capitano sembra muoversi all’insegna dei sentimenti. E’ sempre la sua mente divisa a dettare le regole del gioco, a suggerire cosa conviene e non conviene fare. Unica eccezione il rapporto con gli amici.
Il Capitano, fuggito dal Vietnam in America grazie a un alleato dell’esercito americano, analizza alla perfezione la società americana affetta dalla stessa schizofrenia,che affligge anche lui: l’ipocrisia ovvero la doppiezza. La società americana mostra una faccia amichevole e sorridente ma ha una mente nera e le mani sporche di sangue. Il Capitano odia questa società perché assomiglia molto a suo padre che spiegava alla gente i sermoni e la parola di Dio che non applicava. L’odio per il padre biologico si estende dalla società alla religione cattolica e alla parola di Dio (considerato una estensione del suo padre biologico). Il romanzo è pieno di citazioni religiose a scopo non religioso anzi allo scopo opposto di smontare/irridere il senso religioso. Quale ideologia potrebbe cullare l’odio per religione e per il capitalismo meglio del comunismo? Perciò il Capitano è una spia, un dormiente, un simpatizzante comunista. Lavora per il Vietnam del Sud ufficialmente ma fa la spia per il Vietnam del nord. In un certo senso per allontanarsi dal padre ne segue le orme ricalcandone la doppiezza. In fondo, gli verrà detto a un certo punto, basterebbe scegliere: tra nord e sud del Vietnam, tra capitalismo e comunismo, tra bene e male, tra essere un soldato o un amico. Ma di fatto il peccato originale del Capitano è non scegliere. Vivere nel solco di due vite vivendo sia l'una che l'altra a scapito degli affetti che non si può permettere perchè farebbero oscillare la sua identità. Unico suo lusso sono quei due amici.
Il Capitano è un Bastardo. Un Bastardo non solo dal pdv del DNA ma soprattutto dal pdv del comportamento con i suoi simili. Manda a morte i due personaggi migliori dal pdv umano del romanzo: un ufficiale gaudente e Son, il personaggio a lui più simile (come origini) ma in una versione idealista. Il Capitano è diviso anche interiormente: agisce ma ha una Coscienza, non trova piacere a tradire, spiare, uccidere. Il suo senso di colpa si esplicita nella insolita capacità di parlare con alcuni morti e fare beneficienza alla vedova.
In ogni caso avrà modo di espiare le sue colpe.
Il romanzo è intelligente, lucido, spietato. Mancano i sentimenti e gli ideali e in 500 pagine la mancanza del cuore pesa, nonostante l’autore compensi bene con la sua intelligenza brillante. Il mondo descritto è invivibile e insopportabile. Lucido il riferimento all’arte a al suo scopo didascalico e propagandistico. La visione del mondo è spietata a 360 °C. Non salva nessun uomo e nessuna ideologia. Il romanzo è freddo ma non disperato. Ha la freddezza di chi è ben consapevole che per sopravvivere occorre un coltello tra i denti ed è ben deciso a usarlo. In un certo senso una simile storia non riconcilia con il mondo e con l’umanità ma nega l’umanità. Afferma il nulla come unica cosa più importante della libertà e dell’indipendenza. Nega i sentimenti. E’ un romanzo raggelante. Forse esiste l’amicizia, ma il paio di amici che ci sono in 500 pagine non scaldano il cuore.
A me sono sembrate di troppo le ultime dieci pagine ( un po’ didascaliche) che accompagnano il lettore in modo superfluo, smorzando l’effetto del romanzo. Avrei terminato il tutto lasciando il lettore con indosso gli abiti leggeri e alla rovescia del niente, abiti che solo un Bastardo o un uomo senza faccia può indossare.
Un romanzo bello ma gelido che non riconcilia con il mondo e con la vita, anzi… Ne emerge un mondo disumano e senza speranza dato che l’unica speranza è sopravvivere. E i buoni ( Son) non ce la fanno. Ma forse non ne vale la pena.
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Scomode verità
Raccolta di tredici racconti pubblicati nel 1974 e ora apparsi, per la prima volta, in Italia. Si tratta di storie brevi affidate ad un narratore esterno, in pochi casi, la maggior parte invece orchestrati da una voce narrante in prima persona, femminile, rigorosamente. Sono storie intense e dolorose, sapientemente gestite da un registro stilistico sobrio, rigoroso, efficace, una scrittura che in modo asciutto racconta la realtà dei fatti, pochi, mentre va a infrangersi nel composito universo emotivo femminile fatto di sensazioni, emozioni, reazioni, ma soprattutto relazioni. La Munro è una maestra nel restituirci quel sentimento negato, offuscato, quell’universo di pensieri che agitano le nostre menti, e parlo da donna, intrecciandosi, dissolvendosi, alimentandosi, nel nostro cuore, nel nostro umano sentire, quando siamo figlie, mamme, sorelle, mogli, amanti, zie, nonne.
Ogni racconto apre una breccia temporale che procede a ritroso, si parte da un pretesto narrativo contemporaneo per andare a ripercorrere il passato: uno sguardo retrospettivo che non genera soluzioni, non porta conforto, non risolve conflitti anzi li rinnova, nell’atto stesso del raccontarli. In alcuni casi si restituisce un frammento di infanzia (“La barca trovata”, “Giustizieri”), personalmente mi sono parsi i testi meno riusciti; in altri si percepisce il peso della vecchiaia ( “Una cosa che volevo dirti da un po’”,”Marrakesh”, “Vento d’inverno”), sono quelli che ho prediletto, in altri cogliamo donne nella piena maturità ma ancora profondamente irrisolte (“Materiali”, “Come ho conosciuto mio marito”, “Perdono in famiglia”,”Dimmi se sì o no”, “La dama spagnola”, “Cerimonia di commiato”, “L’Ottawa Valley”).
Solo un racconto si focalizza su un protagonista maschile, non mi è piaciuto affatto.
Si tratta insomma della restituzione di verità nascoste, di sentimenti, spesso malsani ma così frequenti e umani, di verità scomode lasciate affiorare affinché un penna magistrale potesse coglierle, essenzialmente, senza gravarle di ulteriore peso, tantomeno di quello del giudizio. Ci ritroviamo tutte, penso. Il difficile è ammetterlo.
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Simbolismo, ironia e delirio onirico.
“Dio era morto, al pari di Marx e di John Lennon. E noi eravamo famelici” Così il protagonista dei due racconti di Murakami Haruki scritti negli anni ottanta e solo recentemente pubblicati da Einaudi con il titolo “Gli assalti alle panetterie”, allude alla caduta delle ideologie e al dissolversi dei sogni. Ciò che resta è la fame, una fame che è la manifestazione fisica del male che istiga a delinquere. “Non era la fame a spingerci a fare il male, no. Il male si trasformava in bisogno di cibo per istigarci a delinquere.” Ed è questa sensazione di vuoto, prima di piccole dimensioni, poi via via più grande fino ad raggiungere proporzioni abissali, che spinge i protagonisti a compiere il primo assalto alle panetterie. Tra croissants fragranti, appena sfornati, con il sottofondo della musica di Wagner, i due amici minacciano il panettiere, che lungi dal terrorizzarsi propone di dar loro tutto il pane che vogliono, se solo si fermano ad ascoltare la musica di Wagner. É palese l’ironia di Murakami, che oppone la magica funzione terapeutica della musica alla sciocca aggressività dell’uomo. Il male, così neutralizzato estingue la fame, il vuoto viene colmato, la fantasia rinasce.
Il secondo racconto, con al centro lo stesso protagonista, ormai sposato, si sviluppa intorno al medesimo tema del vuoto e della fame. Qui compagno nell’iniziativa di assaltare un McDonald’s non è più l’amico di cui si sono perse le tracce, ma la moglie, anche lei assalita da una fame insaziabile in una notte d’insonnia. Il vuoto, questo abisso che sembra attrarre e spaventare al contempo è rappresentato dall’immenso cratere di un vulcano che giace in fondo al mare e sul quale il protagonista si affaccia dalla barca ondeggiante su cui immagina di navigare. È questa la dimensione onirica del racconto, dovuta alla volontà e alla capacità dell’autore di tenere il lettore sospeso tra realtà e immaginazione. Anche in questo secondo racconto ogni violenza viene neutralizzata dall’appagamento di una fame apparentemente inestinguibile.
Due racconti assai suggestivi che anticipano alcuni dei temi del futuro grande Murakami. Un’edizione Einaudi assai curata soprattutto grazie alle bellissime illustrazioni di Igort, uno dei più importanti disegnatori italiani.
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"Sott'er celo de Roma"
Ero curioso di sapere come sarebbe stato leggere uno degli autori italiani contemporanei più internazionali. Quel che mi sento di dire è che, probabilmente, Donato Carrisi è uno di quegli autori fruibili da chiunque, un po' come Jeffery Deaver o Michael Connelly, per intenderci. Forse è a questo che è dovuto il suo successo.
Con "Il maestro delle ombre", Carrisi ci ripropone il frate penitenziere Marcus, in una Roma devastata dal maltempo e da un blackout.
La lettura è scorrevolissima e la trama intrigante fin dal principio, mai noiosa e carica di colpi di scena (anche se alcuni risultano abbastanza prevedibili).
Immagino che Carrisi possa essere ormai annoverato tra i grandi scrittori di thriller contemporanei, anche se forse gli manca ancora qualcosa per essere perfetto.
"Il maestro delle ombre " ha inizio con il nostro protagonista, Marcus, imprigionato in una cella inusuale, il Tullanium. Ha perduto la memoria, ma lungo la sua strada troverà degli indizi che lo porteranno alla ricerca di un bambino sparito nove anni prima, indizi scritti di suo pugno, come se avesse previsto la propria amnesia. Roma, nel frattempo, è devastata dal maltempo e il Tevere minaccia di uscire dei propri argini, mentre un blackout forzato staglia ombre scure sulla capitale, preannunciando la follia che si riverserà per le strade al tramonto. Sciacallaggio, vandalismo, vendette, rancori. È in questo scenario che Marcus, insieme alla sua vecchia fiamma Sandra, dovrà seguire la scia di indizi e affrontare una serie di ostacoli non indifferenti: l'ispettore Vitali, uomo dalle oscure mansioni che si erge al di sopra delle leggi, e la Chiesa dell'eclissi, organizzazione misteriosa e senza scrupoli che vede nel blackout l'adempimento di una profezia vecchia di secoli, pronunciata dal Papa Leone X. Una profezia che nasconde misteri macabri e ancora irrisolti.
"Era la dittatura della tecnologia, pensò Vitali. La gente ne stava sperimentando le conseguenze. Ti rende l'esistenza più facile ma, in cambio, ti sottomette. Credi di averne il controllo, invece ne sei schiavo. Adesso erano liberi. Ma la libertà li spaventava. Non sapevano gestire la nuova situazione, e così diventavano un pericolo gli uni per gli altri. "
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Michael Connelly
Intra ecclesiam nulla salus
Roma, 1624. Per le sorti ed il futuro della Chiesa Cattolica è un momento delicato.
Il cielo sopra Campo de’ Fiori sembra riflettere ancora le fiamme che bruciarono Giordano Bruno all’ inizio del secolo. Nel frattempo la Chiesa ha occhi e orecchie puntati in direzione delle idee non convenzionali di un fisico e astronomo di una certa fama, Galileo Galilei. La crescente diffusione della stampa e di ideali eretici minacciano l’ integrità della Controriforma stabilita in seguito al Concilio di Trento.
In una notte fredda e buia avviene un delitto. Il corpo di un religioso viene trovato schiacciato in un torchio tipografico, nella bottega di uno stampatore. Ha la bocca piena di fogli scritti. Ed è un membro dell’ Indice, una Congregazione che funge da strumento di censura verso testi e libri ritenuti anticlericali, sobillatori.
Si capisce subito che il movente dell’ omicidio può essere religioso. Ma il periodo è turbolento, e manca poco al prossimo Giubileo. Serve l’ intervento di un inquisitore in grado di indagare nel silenzio, “ senza il chiasso dei birri “.
Uno come Girolamo Svampa, frate domenicano dal passato oscuro e dal carattere ombroso, insensibile, scontroso. Una sorta di Sherlock Holmes del Secolo di Ferro.
“ Ama dar ragione solo a sé stesso “. Lo Svampa prende le distanze dal metodo inquisitorio e dalla cultura del sospetto. Giudicare in base al sospetto equivale a commettere un peccato mortale. Soltanto il passato ha carattere di certezza, osservandolo con razionalità si possono ricostruire eventi già accaduti grazie alle prove e ai rapporti di causa ed effetto tra le coincidenze.
Il compito di aiutare Fra’ Girolamo in questa ardua impresa spetta al fedele bravo Cagnolo Alfieri, e al segretario dell’ Indice, Padre Capiferro.
E se la realtà dovesse farsi fin troppo opprimente, lo Svampa può sempre contare su una boccetta di laudano che porta sempre con sé, un composto a base di alcol e oppio capace di offuscare i pensieri più soffocanti.
L’ ambientazione dona al romanzo fascino ed originalità e compensa una trama fitta e ben congegnata ma di non immediata e facile comprensione.
Immagino che le vicende dello Svampa avranno un futuro, è evidente che la creazione di questo personaggio ha avuto una “ gestazione “ elaborata e lunga nella mente di Marcello Simoni, che con uno stile ed una scrittura raffinati ha saputo creare un protagonista forse non capace di rapire il lettore in quanto ad emotività, ma dal sicuro potenziale letterario.
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Sepulveda torna alla Storia e non delude.
La fine della storia - Luis Sepulveda
Un libro denso di storia, un libro che chiude una storia, che insegna la Storia e ne fa la sua protagonista.
-“...non si sfugge alla propria ombra. Non importa dove stiamo andando, l’ombra di ciò che abbiamo fatto e siamo stati ci perseguita con la tenacia di una maledizione. No, non possiamo sfuggire all’ombra di ciò che eravamo.”-
Un Sepulveda che dopo la trilogia dell’amicizia (“Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare"; "Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico"; "Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza") torna a raccontare le gesta di Juan Belmonte, il personaggio con “Un Nome da torero” (titolo del precedente romanzo in cui compare), e mette fine almeno per il momento alla sua storia facendogli giocare la partita finale. Come ogni eroe che si rispetti anche il nostro, ormai ritiratosi in pensione a godersi la sua vecchiaia, deve rientrare in azione per risolvere una situazione a cui solo lui sembra in grado di porvi rimedio e, non appena accetta, la Storia invade le pagine del romanzo ed eccoci trasportati a cavallo del ‘900 trasportati da un continente all’altro.
Sepulveda è un grande scrittore e anche in questa occasione lo dimostra, i personaggi sono ottimamente scolpiti, ce li si può immaginare in carne e ossa per come sono ben descritti: l’oligarca russo grasso e imbolsito, il funzionario svizzero gracile e tremolante, gli ex agenti cileni nemesi e alter ego del protagonista, i cosacchi dipinti con le loro contraddizioni storiche e infine Victoria, che anche senza parlare brilla nelle pagine con i suoi sguardi magnificamente descritti.
Salti temporali tra un passato nostalgico e un duro presente, salti geografici tra Russia, Cile, Nicaragua e altri posti di guerriglia tutti per inseguire la protagonista indiscussa, quella Storia con cui Sepulveda sembra avere un conto aperto, quella Storia recente del suo amato Cile con a capo l’odiato Pinochet autore di crimini verso l'umanità che non si fa mai male a ricordare per quanto siano efferati e aberranti.
Il romanzo scorre via facilmente, i fatti si succedono veloci e le pagine volano via forse fin troppo velocemente; ho avuto l’impressione che a volte si tendesse a semplificare un po’ troppo a favore della narrazione in modo da non appesantirla eccessivamente che comunque porta ad un gran finale che riscatta le piccole pecche incontrate.
-“Perché alla fine tutto si può cancellare, tranne quell’ombra.”-
Una lettura consigliata perché quando il romanzo si mescola con la Storia e lo scrittore è uno come Sepulveda ne esce sempre qualcosa di buono che lascia qualcosa che sedimenta dentro.
-“...nessuno di voi due deve ringraziarmi di nulla,capo. Siamo compagni.”
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La Mafia della Costa.
La trentaseienne Lacy Stoltz, single in carriera presso la Commissione disciplinare Giudiziaria, la cd CDG, ed il collega Hugo Hatch sono chiamati, in questa nuova avventura proposta da John Grisham ad affrontare un caso senza eguali per la loro sezione. Tutto ha inizio quando un uomo, dal nome fittizio Greg Myers, mettendosi in contatto con i medesimi dichiara di voler sporgere, per poi di fatto sottoscrivere, una denuncia contro la Giudice Claudia McDover, magistrato statale chiaramente corrotto ed in contatto con Vonn Dubose, apparentemente incensurato, di fatto capo di una della bande criminali più prospere e radicate della Florida, la cd. “Mafia della Costa”. Quest’ultimo, in particolare, è colui che tiene le fila del clan indiano dei Tappacola, smuovendo per mezzo dei Casinò siti sul loro territorio, contanti, immobili nonché proventi illegali di ogni genere e consistenza. Ricavi che spartisce, in buona parte, con la sua giudice personale. D’altro canto, quale miglior modo per ottenere i propri scopi se non quello di avere una donna di legge al proprio servizio, una cinquanasettenne avida e ambiziosa che non si è fatta il minimo scrupolo nei diciassette anni di servizio (dal mandare in carcere un innocente all’intascare mazzette da sperperare con Phyllis Turban, ex compagna di specializzazione, anch’essa come Claudia con matrimoni falliti alle spalle nonché amica intima), pur di soddisfare ogni capriccio? Quarantacinque giorni hanno a disposizione i due avvocati della CDG per svolgere le indagini necessarie a sostenere l’accusa, quarantacinque giorni per raccogliere tutte le prove possibili prima dell’insabbiamento, prima che la McDover smuova i suoi legali nonché trasferisca i suoi capitali, prima che Dubose si allerti ed entri in scena.
E più i due legali vanno avanti nel dissotterrare misteri e più le circostanze si fanno pericolose. Hugo ne pagherà, a caro prezzo, le conseguenze. Ormai il vaso di Pandora è stato scoperchiato, Lacy non può far altro che andare avanti e rendere giustizia a chi per troppi anni se ne è visto privato.
Con “L’informatore”, Grisham si diletta a solleticare la curiosità de lettore con un caso che abbraccia tanto la figura degli avvocati quanto quella della corruzione dei garanti della giustizia. Seppur segua la linea classica presente nei suoi romanzi, in questo capitolo, sin dalle prime battute, constata e presuppone della colpevolezza del magistrato, tanto che l’enigma si fa avvincente ed appassiona, da un lato, per quel che riguarda il modo in cui la CDG riesce ad incastrare “i cattivi” e, dall’altro, per quel che ruota attorno alla figura dell’informatore, “talpa” che non fa altro che utilizzare Myers, e un ulteriore soggetto, quali portavoce, essendo la sua posizione talmente vicina alla McDover da non poter far altro che adottare ogni livello di prudenza. Di conseguenza, il lettore, conoscendo sin dal principio del caso da risolvere e delle problematiche relative, non viene affascinato dallo sviluppo di questo, bensì dall’azione delle varie squadre d’azione coinvolte.
Stilisticamente l’opera è rapida, si legge in meno di due giorni facendosi apprezzare tanto per l’intreccio narrativo quanto che per l’enigma. Contenutivamente risulta però essere “sottotono” rispetto agli altri scritti dell’autore, risulta cioè essere privo di quel quid pluris che generalmente lo contraddistingue.
In conclusione, una lettura piacevole, non impegnativa con cui trascorrere ore liete, ma nemmeno eccelsa ed indimenticabile.
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