Le recensioni della redazione QLibri
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Un altro Gesù
Meglio chiarirlo subito: Gesù non è il protagonista di questo nuovo romanzo di J.M. Coetzee, o perlomeno non direttamente.
Come già nel precedente romanzo dello stesso autore, L'infanzia di Gesù, il bambino che ritroviamo ora in età scolare si chiama David, mentre Simon ed Ines sono i suoi genitori o, meglio, i suoi tutori poichè David non è nato dalla loro unione: 'Ma io sono nato dalla pancia di Ines?'
Tuttavia, credo che proprio nel titolo, in particolar modo nel riferimento al nome di Gesù, sia la chiave di lettura di questo romanzo che definire sibillino sarebbe poco: se si leggesse d'un fiato, senza ragionare, senza soffermarsi sui dialoghi cercando di scovare possibili allusioni, questo libro potrebbe deludere tante aspettative.
E probabilmente se non fosse stato scritto da Coetzee, premio Nobel per la letteratura nel 2003, sarebbe passato inosservato e pochi avrebbero tentato lo sforzo mentale necessario per cogliere un messaggio, un significato più profondo tra le pagine del libro.
Ammesso che esso esista, poichè nessuno potrà confermare se esatta o meno la personale interpretazione che ciascun lettore potrà costruirsi (se non l'autore che dubito, però, potrà mai intervenire in soccorso).
A coloro che decidessero di intraprendere questa lettura suggerisco, quindi, di non lasciarsi sopraffare dalla sensazione di smarrimento, confusione e incertezza che vi attanaglierà dalla prima pagina sino all'ultima: a fronte di uno stile di scrittura essenziale, ridotto ai minimi termini ma assolutamente limpido, pulito, si percepisce sin da subito e quasi a contrasto la presenza, seppur sfuggevole, di un contenuto rilevante e di maggior spessore, mascherato da allegorie la cui esegesi è comunque soggettiva e non sempre immediata.
In quest'ottica, allora, la lettura del romanzo di Coetzee può risultare più interessante.
Personalmente, come accennato prima, ritengo fondamentale il suggerimento presente nel titolo, ossia il binomo Gesù-David che aleggia per tutto il romanzo.
D'altro canto, afferma Simon a proposito del piccolo David: 'i nomi non sono importanti, sono semplicemente una comodità, proprio come i numeri sono una comodità. Non c'è nulla di misterioso. Il ragazzo di cui stiamo parlando potrebbe anche chiamarsi sessantasei ed io novantanove. Sessantasei e novantanove avrebbero funzionato altrettanto bene, come David e Simon, una volta che ci fossimo abituati. Non ho mai capito perchè il bambino che ora chiamo David trovi i nomi tanto importanti, il suo nome in particolare'.
Il bambino, infatti, sa con certezza che David non è il suo vero nome e lo rimarca sempre ogni qual volta si presenta a qualcuno: 'Non è il mio vero nome'. Così come sottolinea sempre che Simon e Ines non sono i suoi veri genitori.
Simon infatti aveva conosciuto il piccolo David su una nave mentre sbarcava nella città ignota di Novilla e, pensando che si fosse smarrito, lo aveva accompagnato e guidato alla ricerca della madre, incrociando poi sulla propria strada Ines che a parere di Simon poteva essere la madre del bambino, pur non avendola mai vista.
Quindi un padre ed una madre per David scelti per caso e dal caso a Novilla. Come a Betlemme.
E nessuno di loro ricorda esattamente chi fosse e cosa facesse prima di giungere a Novilla su quella barca, hanno coscienza di una vita precedente a quella attuale, un'esistenza di cui però non portano alcuna memoria, se non la certezza che ci sia stata e che sia terminata prima del loro arrivo in barca in quella città:
"Varcare l'oceano su una barca lava via ogni ricordo e tu cominci una vita tutta nuova. E' così. Non c'è passato. Non c'è storia. La barca attracca al molo e noi scendiamo giù per la passerella e ci troviamo immersi nel qui e ora. Comincia il tempo. Cominciano a ticchettare gli orologi."
In un certo senso, David diventa un altro Gesù, profeta di una filosofia, di una teoria sull'esistenza umana che non può essere dimostrata ma solo accettata, come fosse una nuova fede religiosa.
Le analogie sono tante: come infatti non riconoscere nella spiccata intelligenza di David, nel suo acume fuori dal comune che lo porta a rifiutare i metodi di insegnamento classici della scuola pubblica, la stessa straordinarietà di Gesù quando dibatteva con i dotti del tempio? E lo stupore di Maria e Giuseppe dinanzi a quel comportamento così anomalo per un bambino non è forse lo stesso provato da Simon e Ines?
O come non riconoscere in Simon e Ines, quando decidono di abbandonare Novilla per evitare che David sia rinchiuso in un centro correzionale, la stessa premura di Giuseppe e Maria quando portano in salvo Gesù appena nato dalle ire di Erode?
E infine l'atteggiamento pietoso e comprensivo di David verso Dmitri, inserviente presso l'Accademia di danza e colpevole dell'assassinio della splendida maestra Ana Magdalena di cui era follemente innamorato, non è simile al comportamento così poco convenzionale e rivoluzionario di Gesù quando parla e porta conforto alla donna peccatrice e samaritana, facendo emergere un'ideale di giustizia e un metro di giudizio ben lontano da quello degli uomini?
Ma allora cosa vuole dirci Coetzee? Qual è il suo messaggio? La mia risposta è: ci chiede un atto di fede, un altro atto di fede, coraggioso e radicale come quello richiesto da Gesù ai suoi discepoli, quando ha proposto loro di dimenticare il passato, abbandonare tutto e tutti, anche la famiglia, per seguire lui iniziando una nuova vita in Dio.
E se siamo capaci di credere al Vangelo, se siamo capaci di interpretare le sacre scritture ed affidarci alla visione cristiana del mondo, perchè non accettarne un'altra, diversa ma forse simile nella sua astrattezza?
"Dal giorno in cui arriviamo in questa vita, ci lasciamo alle spalle l'esistenza precedente. La dimentichiamo ma non del tutto. Della nostra esistenza prededente ci rimangono delle tracce, non ricordi nel senso comune della parola ma quelle che potremmo chiamare ombre di ricordi. Poi, man mano che ci abituiamo alla nostra nuova vita, anche quelle ombre svaniscono fino a che non dimentichiamo del tutto da dove veniamo e accettiamo quella che vedono i nostri occhi come l'unica vita esistente. Il bambino, però, il bambino piccolo, porta ancora in sè l'impressione profonda di una vita precedente, ricordi di ombre che non ha parole per dire. E le parole gli mancano perchè, insieme al mondo che abbiamo perso, abbiamo perso anche la lingua capace di rievocarlo."
Questa concezione trascendente dell'esistenza umana, di ispirazione neoplatonica, che si pone come obiettivo il raggiungimento di un più alto livello di spiritualità per l'uomo, anche grazie alla pratica di arti nobili come la musica e la danza, viene enfatizzata dall'atmosfera quasi surreale che permea tra le pagine del romanzo.
Molte sono le domande, i dubbi sollevati dal piccolo David che coinvolgono ad ampio spettro vari aspetti della vita umana, la nascita, la famiglia, l'amore, la giustizia, la morte.
Tanti perchè a cui Simon, la sua guida, ancorato ad una visione sensibile e razionale della realtà, fornisce una risposta spesso evasiva e comunque insoddisfacente che l'autore rende ancor più misera e poco apprezzabile riferendosi a Simon sempre con un 'lui' - dice lui, Simon - accentuando così l'incertezza e la pochezza delle sue affermazioni.
Un monito, quasi, per chi si avvicina a questo romanzo rigido nelle proprie idee e con una mentalità poco aperta a nuovi orizzonti; occorre elevare la propria anima per entrare in sintonia con la musica dell'universo, e danzarla, come farà Simon:
'Lui obbedisce. Fa fresco nella sala; lui sente lo spazio, alto sopra la sua testa. C'è solo la musica. Braccia tese, occhi chiusi, ondeggia in un lento cerchio. All'orizzonte comincia a sorgere la prima stella.'
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GUERRE ZOMBIE...PERFETTE PER UN FILM
Come definire questo romanzo? Non è possibile annoverarlo in qualche categoria pre-confezionata, non è una commedia (perché è ironico ma non fa ridere), non è thriller (c’è violenza ma non muore nessuno) …
È una narrativa contemporanea non schematizzabile.
La storia è quella di Joshua, un professore di inglese per stranieri in una Chicago dove sembra che di cittadini americani non ce ne siano. Tutti i personaggi, Joshua che è di origine ebraica, la fidanzata Kimiko che è di origine giapponese, l’amante Ana che è bosniaca, così come “l’amico” Bega, sono “stranieri” in terra americana. Tranne il padrone di casa di Joshua, Stagger, un reduce della guerra del golfo armato di katana e Guns N’ Roses sparati a volume assurdo.
E sono tutti uno più squinternato dell’altro.
Joshua insegna inglese a un gruppo di immigrati svogliati e disillusi, nel frattempo scrive sceneggiature per il cinema, ne ha scritte a centinaia, mai finita una, mai venduta una, ovviamente, un po’ la quint’essenza dell’inconcludenza di una certa generazione di trentenni americani. Ogni settimana si riunisce coi suoi colleghi in improbabili workshop che si concludono inevitabilmente in sbronze colossali al bar.
La fidanzata Kimiko al contrario è solida, precisa, sa sempre cosa fare e cosa dire, limpida, chiara, emancipata, un’ancora di salvezza nell’esistenza sconsiderato del nostro protagonista.
Che si fa solleticare dalla sua allieva Ana, bosniaca sposata in secondo nozze con un reduce della guerra jugoslava (anche lui con diciamo grossi problemi comportamentali), con una figlia adolescente e sconsiderata…e proprio questo breve ma inteso incontro sessuale con Ana scatenerà una serie di rocambolesche situazioni, spesso violente, spesso quasi esilaranti, con uno Stagger armato di katana a fare da giustiziere…con scarsi risultati.
Ma nel frattempo prende corpo forse la prima vera sceneggiatura che il nostro Joshua riuscirà a vendere al mondo del cinema…Guerre Zombie… dove un improbabile eroe armato fino ai denti combatterà in una guerra all’ultimo sangue contro degli zombie, con tanto di scene splatter.
Un romanzo interessante, scritto in modo diretto e senza fronzoli, è interessante l’alternanza tra un capitolo della storia di Joshua e una capitolo della sceneggiatura di Guerre Zombie, tanto che alla fine forse ci si chiede quale sia la vera sceneggiatura per il cinema: i pochi giorni di follia vissuti da Joshua o la guerra del maggiore Klopstock?
Non mi stupirei se qualcuno, tipo i fratelli Coen, un giorno ne facessero davvero un film perché la storia si presta come dialoghi, come tempi della narrazione, come luoghi…
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Sinfonia di un crimine
Il papà del "collezionista di ossa" ci riprova e ancora una volta fa centro. Da un autore di questo livello non ci si può aspettare niente di meno che un romanzo di buon livello e le aspettative non sono andate deluse. Mi sembra che il primo volume della serie , come spesso succede continui ad essere il migliore. Però, come è altrettanto frequente non ho trovato quella stanchezza quasi noia che di solito c'è quando le produzione seriali sono abbastanza corpose.
In una giornata come tante a Manhattan si presenta qualcuno di nuovo. Dalle apparenze si tratta di un serial killer nuovo fiammante. Gli elementi ci sono tutti: un rapimento in pieno giorno, davanti agli occhi esterrefatti di una ragazzina, la firma lasciata sul luogo del reato. In questo caso è un cappio fatto con la corda di un violoncello, Infine il video dell'impiccagione della vittima caricato in rete. E' giusto che anche i delinquenti si adeguino alla tecnologia,
Un Lincoln Rhyme e una Amelia Sachs prossimi a delle nozze che sembrano più temere che aspettare con ansia vengono attratti dentro le indagini. La scena cambia all'improvviso e ci troviamo a Napoli dove il nostro killer è andato in trasferta. Sembra che tra Spaccanapoli, i quartieri spagnoli e la zona rurale campana si sappia muovere altrettanto bene che tra i grattacieli della grande mela. Il suo primo rapimento, con tanto di laccio lasciato a terra non può che attirare l'attenzione dei migliori investigatori italiani. Al loro fianco arriva anche Rhyme con la sua squadra. A fatica riesce a fare breccia dentro il muro eretto dalla procura italiana, che alla fine cede ad insistenze e competenza.
La richiesta fatta da parte delle autorità statunitensi di indagare anche su un'accusa di stupro rivolta a un cittadino americano complica le cose. Ancora di più le complicano gli esiti delle indagini scientifiche portando a uno scenario abbastanza incredibile fatto di segreti, doppi e tripli giochi,
Lyncoln è sempre il solito preparato arrogante, ma incisivo e difficilmente colto in fallo. Fermo sulla sua sedia a rotelle dirige la sua Amelia che gli fa da braccio armato raccogliendo prove e partecipando ad irruzioni e arresti. Al loro fianco gli investigatori italiani che fanno una discreta figura, ma forse hanno a disposizione più mezzi di quelli di quelli che ci sono nella realtà.
Dall'altro lato Deaver ci affianca al killer, diventato "il compositore". Con lui apprezziamo la bellezza della musica intesa non nel modo più classico, ma anche come il rumore fatto da dei tacchetti sull'asfalto o dalle zampe di un topo sul cemento. Ci fa gioire con lui per i risultati ottenuti, ci insegne come attuare le torture. ma, come sapremo più tardi non ci racconterà tutto , ma solo quello che scegli di farci sapere.
Come ho giù anticipato non ho trovato molto realistico il finale. Poi guardo un telegiornale e mi chiedo se Deaver non sia a conoscenza di informazioni che a me mancano. In effetti la situazione italiana, soprattutto con riferimento al problema profughi è descritta in modo così dettagliato da farci capire che l'autore ha fatto bene i compiti a casa.
A proposito delle descrizioni di luoghi, cibi, abitudini sono indubbiamente dettagliati. forse fin troppo soprattutto per un italiano che sa giù di che cosa si parla. però trattandosi di un volume con respiro internazionale anche questa pedanteria, questo fare da maestrina forse ha il suo perché.
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E'davvero come sembra?
Estate 1993. Irene viene trovata morta dopo giorni di intense ricerche. Una giovane vita spezzata nei peggiori dei modi. Uccisa, e il suo corpo sembra essere stato vittima di crudeli violenze.
Chi avrebbe potuto compiere tali atrocità? Chi avrebbe potuto voler fare del male a una giovane tanto amata e ben voluta? Bella, intelligente, una vita perfetta davanti.
Ma è davvero così?
“La ragazza sbagliata” è un noir italiano con protagonista Dario Corbo, giornalista divenuto famoso negli anni ’90 per i suoi articoli sulla morte di Irene e che anni dopo si ritrova, per necessità di soldi soprattutto, a scrivere un romanzo sulla ragazza accusata dell’omicidio di Irene.
Nora Beckford, il suo caschetto nero alla Uma Thurman in “Pulp Fiction”, il collarino nero e le Dr. Martens.
Nora Beckford che “non era mai passata del tutto inosservata. Aveva intorno una certa aura di privilegio, si capiva che era diversa […] Quando ti degnava di uno sporadico sguardo, sembrava stesse sempre per dire >”
Tutte le vicende, nel passato e nel presente, avvengono in Versilia, descritta dall’autore del romanzo in una intervista come “un microcosmo che ti permette di passare dall’orizzontale, il mare, al verticale, le montagne, in tre chilometri e la visione del mondo si ribalta”. Tutta la storia viene raccontata in prima persona da Dario Corbo, giornalista caduto in disgrazia, che sotto la guida di una donna magistrato, Lavinia Monforti, indaga anni dopo per capire se Nora ha passato 15 anni in carcere per un errore.
Allora, per prima cosa devo ammettere che ho fatto fatica a concludere la lettura del romanzo. Non perché la storia non sia interessante, al contrario. L’indagine dal punto di vista di un giornalista è una scelta molto particolare. Siamo abituati a seguire i casi di detective, poliziotti… In questo caso abbiamo un giornalista che, desideroso di fare carriera, farebbe di tutto per trovare la “notizia”.
Forse è proprio per questo che ho avuto difficoltà a terminare la lettura. Direi proprio a causa di Dario Corbo. Dalle prime pagine, non solo non mi sono affezionata al personaggio, ma ho proprio sentito una vera repulsione. Non mi capitava da molto per il protagonista di un romanzo.
Non ho mai parteggiato per lui, non ho mai provato pietà per le situazioni in cui si è trovato (l’assenza di soldi, la separazione dalla moglie, il rapporto con il figlio…).
Tra i personaggi, forse ho apprezzato maggiormente nella sua presentazione generale Lavinia Monforti, il magistrato, “una rossa dal cuore nero”. Donna forte e sicura di sé, non esita a mettere in difficoltà Dario Corbi con i suoi discorsi e le sue congetture: “Lo chiami horror vacui – continua – O se vuole anche quell’idea fissa, tipicamente maschile, che un buco esista soltanto per infilarci qualcosa. Ecco, quando le risposte certe non ci sono, arriva la smania di trovarne una purché sia. Anche se infilare la tua verità in quel buco è solo un atto di violenza. E’ così che funziona, mi dia retta”.
A parte il mio scarso amore per il protagonista, conclusa la lettura, posso dire che l’ho apprezzata.
E’ un giallo italiano che si legge volentieri. L’autore Giampaolo Simi ha uno stile piacevole, con numerose frasi che mi hanno costretto a interrompere la lettura per pensare.
Ho avuto solo alcune difficoltà all’inizio per capire i continui salti temporali, dai giorni nostri agli anni ’90. Ma già dopo le prime pagine ci si adatta velocemente allo stile del romanzo.
Quindi, che dire se non “Buona lettura”? :)
“Provo tenerezza per gli oggetti concepiti per non diventare mai antichi, ma solo decrepiti, molto presto. Mi chiedo se le storie che chiamiamo, per semplicità, d’amore, non possano avere un destino simile. Prima sono il futuro, ma quando qualcos’altro ce le fa sembrare obsolete, a che servono? Non resta che liberarsene e dimenticarle il prima possibile”
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un linguaggio creativo che ambisce alla conoscenza
“Nessuno scrive quello che è ma ciò che vorrebbe essere.” (p.13)
Ad un anno dalla morte di Péter Esterházy (Budapest, 14/04/1950 - Budapest, 14/07/2016), scrittore e matematico, discendente da una delle più nobili e antiche famiglie ungheresi, Feltrinelli pubblica “Esti”, uscito per la prima volta in Ungheria nel 2010 e ora tradotto anche in italiano da Giorgio Pressburger.
Péter Esterházy è uno degli scrittori ungheresi più conosciuti all'estero e le sue opere sono state pubblicate in più di 20 lingue; ha vinto premi in Francia, Austria, Germania, Slovenia e Norvegia. Nel suo paese, tra i numerosi riconoscimenti conferitigli, si segnala nel 1996 il prestigioso Premio Kossuth mentre in Italia, nel 2013, gli è stato assegnato il Premio Mondello Autore straniero.
“Esti” è un omaggio a Kornél Esti, un famoso eroe ungherese frutto dell'ingegno di Dezso Kosztolányi, è il soprannome dell'autore quando frequentava l'università, ma è soprattutto una biografia sui generis: 77 storie in cui l'autore si diverte a stravolgere i canoni della scrittura tradizionale passando in continuazione dalla prima alla terza persona, diventando di volta in volta soggetto e oggetto della narrazione. Così se Esti, all’inizio, si rivela il rampollo di una famiglia ungherese di origini nobiliari, esattamente come l’autore del libro, subito dopo ammette di contenere in sé le esperienze vissute da chi l’ha preceduto. Esti può trasformarsi indifferentemente da uomo a donna, può essere la cameriera eletta La Bella del Kentucky, costretta per contratto a mangiare quantità inverosimili di hamburger, ma può anche assumere le sembianze di un cane; Esti può perfino diventare un oggetto inanimato: ad un certo punto è trasformato in un dipinto. Stretto tra le quattro pareti della sua cornice, Esti si sente come Gregor Samsa: vittima di una misteriosa metamorfosi, non può che rimanere in attesa di essere stracciato dal suo artefice.
Esti dialoga con personaggi storici, reali o immaginari: in un capitolo Esti racconta di essere stato amico di Pierre Menard (fantomatico scrittore francese protagonista di un racconto del 1944 di Jorge Luis Borges) autore di un “Don Quijote” perfettamente speculare a quello di Miguel de Cervantes.
“Esti” è un romanzo alla ricerca di una identità frammentata, poliedrica ed incoerente; il testo è un intreccio labirintico, altalenante tra passato e presente, totalmente fuori dagli schemi tradizionali. La narrazione non segue alcun ordine, è frastagliata e composta di aneddoti e citazioni. Solo alcuni episodi (presenti soprattutto nella seconda parte) sembrano rispettare i canoni di una classica biografia: in un capitolo l'autore riporta ricordi di quando era bambino, l'acquisto della sua prima bicicletta e la delusione che ne seguì per l'inaspettato ed incomprensibile furto. Da questo episodio si evince l'ambiguo rapporto tra il protagonista e suo padre, relazione caratterizzata da affetto, ma anche da profonde incomprensioni e da valori ed interessi diversi.
Ancora più complesso dell'intreccio è il linguaggio: considerato "uno dei più interessanti e originali scrittori del nostro tempo" da Mario Vargas Llosa, Péter Esterházy ha sempre fatto dello sperimentalismo formale e della ricerca stilistica la cifra della sua scrittura. Esterhazy è un fuoco d'artificio di neologismi, latinismi, termini tratti da diverse lingue straniere, citazioni colte di ordine filosofico, storico, musicale, frammenti letterari che, per poter essere compresi, richiedono al lettore una cultura non indifferente. Il suo stile è quanto di più vario si possa trovare, passa con estrema nonchalance da termini colti a termini triviali, in una commistione tra stile alto e basso, tono drammatico e tono ironico.
La lettura di questo romanzo è stata per me un'esperienza alquanto faticosa e non molto appagante; come ho già detto, il testo manca di una struttura tradizionale, lo stile è sperimentale, il linguaggio molto ardito. Nel modo di scrivere di Péter Esterházy si percepisce uno spirito innovativo e ribelle che solo in parte sono riuscita ad apprezzare, ma è indubbiamente un mio limite.
“Il linguaggio della letteratura non è quello dei dialoghi tra persone intelligenti. Questo linguaggio non mira alla comprensione, ma alla creazione. La creazione è un affare oscuro, nebuloso, fare qualcosa dal nulla non va da sé. Ma vogliamo sperare che sia profondamente umano. (…)
Il linguaggio della letteratura non ambisce alla comprensione, ma alla conoscenza.” (p.338)
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la felicità dilata il tempo
Godolphin è l'immaginario tranquillo quartiere di Boston in cui sono ambientati la maggior parte dei venti racconti di “Intima apparenza”, l'ultima raccolta di Edith Pearlman.
Protagonisti di queste storie sono uomini, ma soprattutto donne, che sanno ascoltare le confessioni di chi custodisce un segreto e sanno vedere oltre l'apparenza per carpire ciò che si nasconde nell'animo umano. Vite esternamente soddisfacenti, talvolta ben mascherate da professioni appaganti, ma interiormente devastate da un dolore che trova consolazione solo nel riconoscimento, negli altri, della medesima condizione.
Storie di solitudini e di rimpianti, come nel caso di Page, protagonista del primo racconto, e di Bobby, cliente del salone di pedicure che lei gestisce; Page vive nel rammarico di non essere stata in grado di preservare la vita di suo marito, partito per la guerra senza che lei si opponesse con decisione. Bobby, tranquillo professore universitario, è stato invece lasciato dalla moglie per via di un'incompatibilità nata nel giorno in cui lui si rifiutò di fermarsi per soccorrere degli automobilisti coinvolti in un incidente di cui era stato testimone. Page e Bobby si ritrovano così accomunati dal peso di un inesprimibile senso di colpa che dovranno scontare fino alla fine dei loro giorni.
Storie di desideri inconfessabili: Ingrid, protagonista del racconto “Pietra”, a settantadue anni lascia New York per recarsi in una cittadina del Sud dove il nipote Chris, che ha una falegnameria, l'ha invitata a collaborare come segretaria. Chris è sposato ed ha una bambina; Ingrid, ancora avvenente, due volte vedova e una figlia ormai adulta, si inserisce nella vita della famiglia finché non si accorge che tra lei e Chris, nonostante trent'anni di differenza, sta nascendo una forte attrazione. Ingrid, per preservare la serenità della famiglia di Chris e scongiurare un eventuale scandalo, deciderà di tornare a New York senza aver mai fatto trasparire il suo sentimento.
Tema ricorrente di molti racconti è la capacità delle persone più sensibili di vedere oltre ciò che appare, ma l'autrice ci avverte: “i segreti bisogna conservarli nel cuore” e “troppa conoscenza uccide la gioia”. Emblematico a tal proposito il racconto “Aspetta e vedrai” che narra di un bambino con un dono speciale: ha una visione pentacromatica che gli consente di percepire più colori rispetto ai normali esseri umani. Questa dote, all'apparenza positiva, reca al ragazzo numerosi disagi sia livello fisico, sia a livello psicologico. Lyle si sente combattuto tra l'accettazione e il rifiuto della sua condizione fintanto che gli vengono regalati degli occhiali che gli inibiscono la percezione multicromatica: Lyle accetta di metterli consapevole che “la verità non ha niente a che fare con la testimonianza degli occhi”.
Significativo sul tema della percezione dei segreti e dei dolori altrui è anche “La Golden Swan”, testo che mi è piaciuto in modo particolare. Il titolo si riferisce al nome della nave da crociera su cui viaggiano due giovani cugine, Robin e Bella. Il racconto è filtrato dallo sguardo di Bella, ragazza insicura, solitaria, affetta da disturbi alimentari; si intuisce che il suo disagio è anche esistenziale, la ragazza si sente sola ed estranea al mondo circostante. Durante il viaggio Bella acquisisce una nuova consapevolezza, inizia a percepire anche in chi la circonda la sua stessa sofferenza e la sua vita si anima di un nuovo appetito, la curiosità. Emozionante il finale del racconto: Bella segue, non vista, la donna delle pulizie che lei aveva considerato, fino a quel giorno, un essere insignificante, spento ed inespressivo e scopre che, nella parte nascosta e più profonda della nave, la donna nasconde un segreto di cui anche Bella si renderà complice.
Edith Pearlman (Rhode Island, 1936) ha ottenuto nel 2012 il National Book Award con la raccolta di racconti “Visione binoculare” (Bompiani); ha pubblicato oltre 250 storie nelle migliori riviste e nelle più famose antologie americane ed è stata insignita di diversi premi letterari; la sua scrittura è stata definita dal New York Times, «intelligente, acuta, divertente, ottima». Il suo stile è stato paragonato ad autori come John Updike, Alice Munro e William Trevor.
I racconti della Pearlman mi sono piaciuti molto, sia per le tematiche trattate, sia per come sono strutturati: gettato in medias res il lettore è reso partecipe della vita del personaggio nel momento in cui sta per accadere qualcosa che ne cambierà l'esistenza; rapide descrizioni e brevi flashback ne inquadrano età, professione, studi, relazioni e come in un puzzle viene ricostruito il retroscena necessario alla comprensione della storia. Lo sviluppo della vicenda è sempre filtrato dallo sguardo del protagonista che conduce il lettore, un passo alla volta, su tragitti talvolta ingannevoli salvo poi svelare, all'ultima pagina, una fulminante verità oppure lasciare la vicenda con un finale aperto.
Le storie si differenziano per struttura, tema, voce narrante, ma nonostante ciò si percepiscono, in tutta la raccolta, una certa uniformità di stile, pacato ed elegante ed una rassicurante atmosfera di calma e di fiducia nel destino e nelle qualità dell'uomo.
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Tra precarietà e speranza
“Dio non abita all’Avana”di Yasmina Khadra, pseudonimo dello scrittore algerino Mohamed Moulessehoul, è un romanzo d’amore che ha come sfondo la Cuba di Castro, una terra in cui speranza e passione si alternano a amarezza e delusione, dove il sogno è indispensabile per vivere e sopravvivere, dove precarietà e mediocrità possono essere presupposti di un’esistenza serena.
Ed è proprio in condizione di precarietà che il protagonista, Juan Del Monte Jonava, conosciuto dal suo pubblico come Don Fuego, conduce la sua vita, condividendo con parenti ed amici i disagi derivati dalla instabile situazione sociale ed economica venutasi a creare nel periodo immediatamente successivo alla caduta di Batista.
La vita di Juan, dunque, si trascina nella duplice difficile rincorsa d’un sospirato successo planetario come cantante, da un lato, e d’un amore impossibile dall’altro. Nessuna sicurezza per questa umanità negletta, né nell’ambito della famiglia, né nel lavoro. La casa diviene il rifugio di diseredati che ora si amano e si soccorrono a vicenda, ora si detestano e si sopportano. Juan è consapevole che la via del successo passa attraverso l’amara esperienza dell’umiliazione e del compromesso, che il gioco è in mano ai potenti che si muovono secondo interessi particolaristici.
Ciò che ne deriva è un senso di angosciosa ambiguità che pervade situazioni e personaggi. E ambiguo più che mai è il personaggio di Mayensi, la giovane bellissima di cui Juan si è invaghito: ella è ora la vittima innocente di lascivi desideri, ora la ferma e aggressiva pianificatrice del proprio destino.
In questo mondo senza certezze anche la fede cede e Dio è “una moneta fuori corso”. Eppure proprio in questo mondo la speranza e il sogno sono gli unici a sopravvivere e l’esperienza più amara e la sofferenza non riusciranno ad annientare lo spirito dei più audaci a dispetto delle vicissitudini.
“In verità non perdiamo mai del tutto ciò che abbiamo posseduto per lo spazio di un sogno, perché il sogno sopravvive al proprio fallimento.”
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non si può vivere per sempre
Samantha ha una vita apparentemente perfetta: una famiglia unita, tre amiche inseparabili e Rob, un fidanzato che tutte le invidiano. Insieme a Lindsay, Elody ed Ally, Samantha frequenta il quarto anno del liceo Thomas Jefferson, nel Connecticut, dove abbigliamento e modi di fare dividono la popolazione studentesca in due categorie: i “popolari”e gli “sfigati” cui le quattro amiche non risparmiano scherzi crudeli ed infamanti pettegolezzi. Belle ed ammirate possono infatti permettersi di infrangere le regole, frequentare solo i ragazzi più sexy e denigrare tutti coloro che non rientrano nel loro entourage senza curarsi delle conseguenze. E' il 12 febbraio, il giorno dei Cupidi e la popolarità a scuola si misura dal numero di rose ricevute: è l'ennesima occasione per confermare quanto le quattro amiche siano stimate da tutti. Inevitabile una festa a conclusione della giornata, nella casa di Kent, uno “sfigato”con una splendida villa nel bosco; impossibile mancare e Sam ha promesso a Rob, il suo ragazzo, che quella sarà la loro serata: lui ha la casa libera e dopo la festa potranno finalmente rendere completa la loro unione. Ma Sam non ha fatto i conti con il destino: la strada è scivolosa e Lindsay, alterata dall'alcool e distratta dalla cenere di una sigaretta, esce di strada. Un bagliore improvviso, urla agghiaccianti, rumore di metallo che si accartoccia: nell'incidente Samantha perde la vita.
Fine della storia? No. Questo è solo l'inizio. A Samantha la sorte ha riservato altri sette giorni: potrà vivere (o meglio, rivivere) il 12 febbraio per altre sette volte come se nulla -o quasi- fosse accaduto per tentare in ogni modo di cambiare il proprio destino. Sapendo di dover morire, anzi, consapevole di essere già morta, la protagonista avrà l'opportunità di riconsiderare i rapporti con tutte le persone che la circondano: coglie i difetti e i limiti delle sue migliori amiche; mette in dubbio il legame con il suo ragazzo; si accorge delle debolezze (e dello squallore) di alcuni professori; rivaluta il rapporto con chi, fino a quel momento, aveva sottostimato o accuratamente evitato: i suoi genitori, sua sorella e alcuni ragazzi e ragazze della scuola che erano da lei stati ingiustamente emarginati. Samantha capisce che ogni gesto può avere conseguenze devastanti non solo nella nostra vita, ma anche in quella di chi ci circonda; grazie al suo nuovo atteggiamento, più attento e sensibile, riesce quindi a fare luce sulle cause e sulle circostanze dell'incidente che ha determinato la sua tragica fine. La protagonista affronta, post mortem, un doloroso percorso di espiazione, una sorta di ascesa: prende coscienza dei propri errori, abbandona lo stile di vita trasgressivo e cerca nel rapporto con gli altri la vera amicizia e il vero amore fino alla maturazione della sua ultima inevitabile, drammatica, scelta.
In occasione dell'uscita dell'omonimo film, nelle sale italiane dal 19 luglio 2017, ritroviamo nelle librerie il romanzo d'esordio di Lauren Oliver; copertina e titolo rinnovati per un testo edito da Piemme nel 2010 con il titolo “E finalmente ti dirò addio” che già riscosse grande successo tra il pubblico young adult e non solo. “Prima di domani” è un'opera dal forte impatto emotivo in cui dominano temi come la morte, l'amore, l'amicizia, il bullismo e il difficile equilibrio tra le aspirazioni dei giovani e le convenzioni della società adulta. La voce narrante esprime con parole semplici, ma di grande effetto, i disagi e le paure degli adolescenti e fa emergere le motivazioni che talvolta li spingono a comportarsi in modo pericoloso e sconsiderato. L'autrice lascia trasparire messaggi educativi forti: la vita è una sola e non va sprecata, ad ogni azione corrisponde una inevitabile catena di conseguenze di cui ci dobbiamo ritenere responsabili. Samantha imparerà infatti a costo della propria vita a ponderare ogni suo gesto consapevole del fatto che ogni giorno potrebbe essere l'ultimo.
Tenuto conto del pubblico a cui il testo è principalmente rivolto, ho trovato questo romanzo interessante e coinvolgente: la narrazione in prima persona crea empatia con la protagonista, l'intreccio è intrigante (anche se un po' ripetitivo nel susseguirsi delle sette giornate); lo stile è vario: a momenti di tensione si alternano episodi romantici; le azioni e i dialoghi rendono la lettura scorrevole ed avvincente.
“Se oltrepassi il confine e non succede niente, il confine non significa più nulla (…) Tracci il confine sempre più lontano, e ogni volta lo superi. E' così che si finisce per avventurarsi oltre il limite. Non avete idea di quanto sia facile schizzare fuori dall'orbita, dilatarla fino al punto in cui nessuno può più toccarti. Perdere se stessi, smarrirsi” (p. 182-183).
“Cercate di non giudicarmi. Ricordate che siamo uguali, io e voi. Anch'io pensavo di poter vivere per sempre” (p. 125)
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Il misterioso messaggio..
Harold Barnaby, quarantun anni, professore associato di archeologia di Chicago, per la prima volta nella sua vita, si trovava a contemplare la disonestà, una disonestà determinata dall’aver scoperto, da un breve brano apparentemente innocuo che stava traducendo da un papiro, un messaggio segreto. In quest’ultimo la confessione di un funzionario che aveva edificato il luogo di sepoltura di un non precisato faraone della XIX dinastia, che si era altresì assicurato di uccidere personalmente tutti coloro che avevano preso parte ai lavori, compreso il proprio genero, e che in ultimo non aveva resistito dal destinare l’impresa ai posteri attraverso un messaggio criptato con grande maestria. Come resistere alla sete di avventura determinata dall’essere lo scopritore unico di una tomba ancora sconosciuta? Come resistere alla tentazione, dunque, di mettere le mani su un tesoro inestimabile? E’ impossibile per lo studioso. Ma qual è la giusta strategia da adottare per riuscire in questa ardua impresa?
E’ qui che entra in gioco la figura di Robert Pierce, giornalista inviato in Egitto per intervistare l’ingegnere della ditta di costruzioni italiana che si era occupata di spostare il tempio di Abu Simbel, che attraverso le sue conoscenze ed i suoi agganci, idea e rende palpabile il sogno nonché il piano. Non solo. Coinvolgendo altri personaggi e recependo i fondi necessari, darà vita ad una squadra che, attraverso il canale ufficiale di una serie di scavi poco interessanti ma non troppo banali, sarà la protagonista indiscussa dell’ultima opera di Crichton. Non mancano, oltretutto, la figura femminile di grande fascino, un contrabbandiere, un ladro internazionale, un ricco finanziatore e tutta una serie di complicazioni atte a rendere la trama sempre attiva. Il tutto sullo sfondo dell’Egitto e delle sue imponenti piramidi, il tutto sullo sfondo di quella piramide di Cheope da cui tutto è visibile; dal Cairo e la sua posizione sulla punta del delta del Nilo, alle necropoli di Saqqara e Dahshur con le loro piramidi, alle piccole piramidi di Giza, luoghi di sepoltura di Chefren e Micerino.
Come appare di tutta evidenza, l’ultimo romanzo dello scrittore statunitense non brilla certo per originalità suscitando, inevitabilmente, nel lettore, la trama, un senso di deja-vu, di argomento trito e ritrito. Sin dalle prime battute questa sensazione è percepibile con mano tanto che a più riprese chi legge si chiede quando (e se) elementi differenzianti saranno introdotti. Innovazioni, che, di fatto, sono scarsamente rintracciabili nel testo.
In naturale contrapposizione con questa tematica sentita e risentita vi è uno stile narrativo rapido, non particolarmente erudito ma perfettamente in grado, grazie all’introduzione di un ritmo serrato, di guidare l’avventuriero conoscitore tra le molteplici trame intessute dal narratore. Non solo, ulteriore nota che può lasciare perplesso quest’ultimo, è l’eccessiva surrealità di alcuni passaggi: per quanto le vicende si protraggano e siano ben orchestrate, talvolta, l’autore esagera facendo sì che il suo composto passi da un qualcosa di tangibile ed immaginabile ad un qualcosa di troppo inconcreto per poter essere pienamente apprezzato.
Pertanto, anche se il volume si ultima in poco più di una giornata, grazie ad un linguaggio agile e diretto, il contenuto non conquista totalmente, convince soltanto in parte. Da ciò la inevitabile relegazione dello stesso alla tipica lettura estiva.
In conclusione, “La vendetta del deserto” è un libro adatto a chi cerca un qualcosa di poco impegnativo con cui distrarsi qualche ora, ma nulla più.
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- sì
- no
no = a chi al contrario predilige testi di sostanza.
Crescere
Russell Green, trentaquattro anni, pubblicitario, nato a Charlotte nel North Carolina, con Vivien, PR conosciuta nel 2006 a New York, credeva di aver trovato l’amore della sua vita. E’ un eterno romantico il protagonista nato dalla penna di Nicholas Sparks, tanto che non appena ha associato il nome della mora ed affascinante donna con quello di Julia Roberts in “Pretty Woman”, non ha avuto dubbi e nel 2007 è convolato a nozze con la medesima per poi, a distanza di un lasso temporale ancora più breve, riscoprirsi padre di London, una deliziosa bambina che lo ha nominato guardarobiere degli abiti delle sue sette barbie.
Gli anni passano, Vivien decide già durante la gravidanza di lasciare il lavoro per dedicarsi alla figlia, e così il marito si ritrova a dover guadagnare quanto di più possibile per poter sopperire alle esigenze della costosa consorte. Questa infatti non ha remore e non ha limiti in quanto a compere. Eppure lui vuole renderla felice, desidera non solo che lei lo sia ma che soprattutto lo sia con lui. Il giorno che Russ è costretto a lasciare il lavoro per delle incomprensioni con il capo e a buttarsi in una nuova avventura come libero professionista – con le incertezze che ne derivano e il disappunto di tutti coloro che sono al suo fianco – , la crepa che già era insita nella loro vita di coppia diventa un cratere; il vaso definitivamente si rompe.
Manca di dialogo nel loro rapporto, un’assenza che li porterà alla più dura delle decisioni e alle conseguenze giuridiche derivate. Green si ritrova così senza lavoro, senza compagna, a lottare per poter crescere la sua pargola, e con altre problematiche familiari che non vi anticipo per non rovinarvi la lettura.
E se nella prima parte l’opera stenta a partire non brillando particolarmente di originalità, ma anzi facendo storcere il naso a più riprese per questo continuo assecondare ogni vizio ed ogni richiesta della consorte e per il conseguente atteggiamento egoista di quest’ultima (con la quale è assolutamente impossibile relazionarsi, è abilissima infatti a far sì che in ogni lite e discussione, la “colpa”, seppur propria, ricada sul compagno e sulle sue presunte pretese), nella seconda questa prende campo e si apre di significato soffermandosi ed incentrandosi in quella che è vera sostanza della medesima: il rapporto padre-figlia.
Questa linea di demarcazione è ciò che consente a chi legge di andare avanti e di non abbandonare lo scritto dopo appena un centinaio di pagine. Perché proprio grazie alla delineazione di questo legame, che ha bisogno di svilupparsi e crescere, che il padre matura, abbandonando le insicurezze ed incertezze di un tempo per abbracciare nuove responsabilità e nuovi percorsi. L’anno che lo vedrà protagonista, infatti, sarà un periodo dove assaporerà il gusto amaro della perdita, il gusto amaro del separarsi da un proprio caro, il gusto amaro delle battaglie legali, il gusto amaro del doversi sapere reinventare ed adattare alle più svariate delle situazioni. E tutto perché quel rapporto padre-figlia deve essere salvaguardato e presentato.
Sono trascorsi dodici mesi, ma Russell è un uomo diverso e con lui è differente la prospettiva con cui affronta il divenire.
Al tutto si somma uno stile narrativo prolisso, non particolarmente elaborato ma che consente e rende agevole lo scorrimento a tutti coloro che cercano una storia non impegnativa e con cui evadere dalla routine.
In conclusione, una piacevole lettura estiva senza pretese.
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- sì
- no
No: a chi non apprezza il genere
Essere un buon poliziotto
Due appuntamenti con Don Winslow, due libri memorabili; dopo "Il cartello", "Corruzione" è un altro grande libro sfornato da uno degli scrittori contemporanei più capaci e giustamente acclamati.
Il suo stile è unico, accurato eppure leggero. Dalla prima all'ultima pagina ci si rende conto che l'autore sa di cosa sta parlando: immergendo dei personaggi ben caratterizzati in un contesto che conosce e descrive in maniera eccelsa, imbastendo una storia che seppure trova il suo climax nella seconda metà del libro, non è mai noiosa. I personaggi poi, soprattutto il protagonista, sono indagati a fondo e il lettore si ritrova legato a loro e riesce anche a scoprire la causa profonda di tutte le loro azioni, anche le più scabrose.
Dennis Malone è il poliziotto più popolare di New York. Potresti non sorprenderti di trovare in galera il capo della polizia, il sindaco o anche il presidente degli Stati Uniti, ma se dovessi vederci il detective Denny Malone, allora c'è qualcosa che non va.
Eppure è così che la storia di "Corruzione" ha inizio, per poi partire con un flashback alla scoperta di cosa ha portato quel poliziotto insospettabile a finire dietro le sbarre.
New York è un covo di corrotti, un mondo in cui anche chi dovrebbe essere incorruttibile accetta favori e regali, anche da persone che dovrebbe sbattere in galera. Mafiosi, narcotrafficanti.
Malone non è da meno: "il re di Manhattan North" è, insieme ai suoi partner, tra i più corrotti della città. Tutti lo conoscono, tutti lo rispettano, perché è anche grazie a lui che criminali veri e propri e criminali subdoli conducono i propri sporchi affari. Ben presto però, i segreti e le persone coinvolte nel giro diventano troppe, e quando un uccellino inizia a cantare allora è probabile che in molti lo seguano, innescando un effetto domino che travolgerà anche Malone. Il detective si ritroverà immerso in un fiume di eventi che lo trascineranno verso l'oblio, verso un'oscurità impenetrabile e senza via d'uscita. In una New York affrescata in maniera impeccabile, della quale vengono messi in scena i lati più oscuri, i conflitti d'interesse, le discriminazioni e le lotte razziali, e ovviamente la corruzione dilagante, andrà in scena uno dei polizieschi più appassionanti degli ultimi anni. Una città in cui i buoni non esistono e anche la persona più insospettabile potrebbe riservare delle sorprese.
Spettacolare.
"La vita, pensa Malone, cerca di uccidere tutti. E ci riesce sempre. A volte anche prima della tua morte."
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Perfidia
L.A. Confidential
Amore oltre confine
Come molti sapranno, la storia originale di Beren e Lùthien è contenuta nel Silmarillion, opera mitopoietica composta da J.R.R. Tolkien e pubblicata postuma, nel 1977, dal figlio Christopher in collaborazione con Guy Gavriel Kay.
In questa edizione pubblicata dalla Bompiani, edizione arricchita ed avvalorata dalle precise e meticolose illustrazioni di Alan Lee, ci ritroviamo ad Arda, dove Beren, un cacciatore mortale che vive nei boschi, incontra per la prima volta, Lùthien, una bellissima elfa. Tra i due scoppia immediatamente l’amore, un sentimento però a cui si oppone il padre della ragazza che per disincentivarne il proseguo pone un vincolo a Beren: soltanto se questo sarà in grado di portargli uno dei Silmaril che si trovano incastonati nella corona di Morgoth, potrà avere in sposa la figlia. E’ chiaro sin dal principio che trattasi di un’impresa disperata, eppure, l’uomo, grazie all’aiuto della compagna stessa, riesce ad impossessarsi dell’oggetto imposto dal genitore quale dazio al loro amore.
Una storia, quella descritta, fortemente empatica e che certamente non mancherà di fare breccia nel cuore degli appassionati. Eh sì, perché Tolkien ha da sempre sentito detta vicenda quale fortemente vicina, rivivendo con essa quella era la sua personalissima storia d’amore con la moglie Edith (n.b. sulle lapidi delle rispettive tombe, sono stati, non a caso incisi, proprio i nomi di Beren e Lùthien), talché non si è risparmiato nel descriverne le avversità, i dilemmi, le difficoltà relative ai preconcetti, all’appartenenza a due diverse razze. E vi è riuscito semplicemente avvalendosi di un linguaggio poetico, ricco, elegante, che accarezza ed accompagna chi legge.
Nello specifico l’opera si presenta in una doppia chiave di lettura: da un lato è in prosa, dall’altro in versi. Christoper Tolkien, con meticolosità matematica, si prefigge l’obiettivo di mostrare quelli che sono gli sviluppi della leggenda inerente a questi personaggi e per farlo si avvale proprio di questa duplice impostazione. Suo scopo principale è quello di riuscire a riportare alla luce i passaggi più descrittivi e significativi della drammaticità del sentimento, elementi che purtroppo hanno finito col perdersi nello stile riassuntivo e condensato del Silmarillion, elementi ancora, che in alcuni casi vedono la luce per la prima volta.
Il fine di questo volume è dunque ben diverso da quello dei tomi della “History of Middle-Earth” da cui scaturisce, obiettivo infatti non è quello di fungere da appendice a quei libri bensì di provare ad estrarre da questi un elemento narrativo che era, nella complessità dei predetti, in continua metamorfosi, evoluzione. Conseguenza inevitabile di questa scelta è che il libro non può prestarsi alla lettura di tutti indiscriminatamente. Anzi.
Esso si presenta ottimo ed adatto alla lettura di chi ha conosciuto ed amato la storia di Beren e Lùthien né il Silmarillion perché consente di ricostruire ed approfondire tutte quelle varie tappe che hanno portato alla maturazione degli eventi, ma non anche a chi, al contrario ne è digiuno. Per questi ultimi, scoprire dei dettagli delle prime stesure del racconto, o ancora trovarsi innanzi ad una novella che alterna due modalità narrative può essere destabilizzane e rischiare di far perdere di attenzione. E’ vero che il linguaggio adottato è meno pedante rispetto che ad altre opere dell’autore, tanto che quindi la fruizione è più agevole, ma è anche altrettanto vero che per poter apprezzare gli approfondimenti che sono alla radice dell’ideazione del componimento, è necessaria una conoscenza almeno minima delle avventure. Non solo, la sensazione a più riprese è quella di trovarsi di fronte ad una antologia vera e propria.
In conclusione, una storia per anime romantiche arricchita da illustrazioni ineccepibili e per gli appassionati di storie fantastiche.
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- sì
- no
no = a chi ne è digiuno. In quest'ultimo caso consiglio dii partire con le opere principali ed antecedenti dell'autore.
Sorcio di nome e di fatto...
Essendo un grande amante dei gialli, era da parecchio tempo che volevo avvicinarmi al prolificissimo Georges Simenon, inventore del celeberrimo commissario Maigret. In mezzo alla sua vasta opera, mi è capitato fra le mani "Il Sorcio", appena pubblicato da Adelphi. Considerata l'ottima opinione che la maggior parte dei lettori ha per lo scrittore belga, credo di essere stato non poco sfortunato. Sì perché, mi dispiace dirlo, ma questo giallo è davvero anonimo, sia per quanto riguarda lo stile che per quanto riguarda la trama.
È lecito dire che mi aspettavo molto di più?
La narrazione è lenta, marca di mordente e non lascia alcuna voglia di approfondire il mistero né ci trascina nella lettura, se non in un paio di occasioni. La banalità della storia (che paradossalmente è resa difficilmente fruibile al lettore), mi ha fatto nascere un solo desiderio: quello che le pagine finissero il prima possibile.
Mi dispiace per Simenon, ma credo che in giro ci siano gialli decisamente migliori. Unica nota lieta è il personaggio che dà il nome al libro: "il Sorcio"; un vecchio barbone alsaziano abbastanza simpatico e disinibito che si ritrova suo malgrado al centro di eventi spiacevoli (ma se l'è anche voluta).
Il Sorcio vagabonda per le strade di Parigi ormai da molti anni e la notte trova ospitalità nei vari commissariati della città. Non essendo comunque un criminale, il giorno dopo è libero di scorrazzare nuovamente per le strade. Una sera, mentre cerca di guadagnarsi qualche spicciolo, si imbatte in un cadavere che nasconde un portafoglio rigonfio di dollari. Ammaliato dall'idea di comprare una casetta per sé in cui vivere gli ultimi giorni della sua vecchiaia, il Sorcio elabora un piano. Decide di tacere la vista del cadavere e raccoglie i soldi in una busta che poi presenta agli oggetti smarriti; di certo il cadavere non si sarebbe presentato per chiederli indietro, e perciò dopo un anno sarebbero diventati suoi di diritto. Ma il Sorcio non ha fatto i conti con il commissario Lucas, con l'ispettore "Scorbutico" Lognon, con gli assassini "derubati" e con degli importanti uomini d'affari, che lo trascineranno in un turbine di disavventure.
Concludendo, se volete accostarvi a Simenon vi consiglio di scegliere un altro libro, perché questo pur non essendo pessimo è assolutamente evitabile.
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una passione travolgente
Dopo la famosa saga de “Le sette sorelle”, Lucinda Riley torna nelle librerie italiane con un romanzo giovanile che uscì nel 1993 con il titolo “Aria” e che recentemente ha rivisto e ripubblicato con il titolo “La ragazza italiana”.
La storia è ambientata tra Napoli, Milano, Londra e New York, tra i più famosi teatri d'Opera del mondo, lussuose suites d'albergo, prestigiosi attici e splendide ville in un crescendo di passione, tradimenti, intrighi e colpi di scena.
Rosanna Menici ha solo undici anni quando a Napoli, durante una festa di famiglia, resta ammaliata dal fascino e dalla voce di Roberto Rossini, ventotto anni, promettente tenore della Scala. Rosanna, timidamente, intona l' “Ave Maria” e Roberto, incantato dalla sua voce, riconosce nella giovane un talento straordinario che egli invita a coltivare con lo studio del canto lirico. Il primo incontro con Roberto segnerà per sempre il destino di Rosanna che da quel momento si sentirà indissolubilmente legata a lui da una passione incontrollabile. Grazie all'impegno del fratello Luca, Rosanna prende le prime lezioni e nel tempo migliora la sua voce al punto di essere notata e scelta, a diciassette anni, come borsista presso la prestigiosa Scala di Milano, città in cui si trasferisce insieme a Luca. Qui i due ragazzi vedranno cambiare radicalmente le loro vite: Rosanna avrà l'occasione di ritrovare Roberto Rossini con cui, travolta dall'amore, condividerà tra mille vicissitudini e non poche delusioni, la carriera e la vita; Luca troverà invece l'amicizia di una giovane ragazza inglese, Abigail, compagna di studi di sua sorella, ma questa relazione entrerà in contrasto con una vocazione religiosa che il ragazzo sente nascere dentro di sé e con cui dovrà fare i conti per molti anni. A tutto ciò si unisce la casuale scoperta, da parte di Luca, di un misterioso dipinto attribuito niente meno che a Leonardo da Vinci, conservato da secoli nella cripta di una chiesa, disegno che terrà in sospeso la storia fino al termine del libro. Ovviamente questo è solo l'inizio di questo romanzo che ha un intreccio degno di una soap opera in una storia che si sviluppa per trent'anni, dal 1966 al 1996 e che tiene avvinto il lettore fino all'ultima pagina.
Non conoscevo questa autrice e non sono una lettrice abituale del genere rosa, ma mi sono avvicinata a quest'opera con curiosità e con leggerezza, senza alcuna pretesa. L'intreccio è, tutto sommato ben costruito: poco credibile, ma avvincente; i personaggi sono caratterizzati in modo un po' stereotipato, poco approfonditi dal punto di vista psicologico e talvolta possono pure risultare irritanti (troppo arrendevoli o troppo sfacciati); la storia è costruita prevalentemente su azioni e dialoghi che mi hanno ricordato, come dicevo, certi sceneggiati televisivi che fanno degli amori travagliati e dei tradimenti i loro cavallo di battaglia. Fatte queste premesse, ho trovato “La ragazza italiana” un romanzo gradevole, di facile e veloce lettura che potrà indubbiamente regalare alle amanti del genere piacevoli ore di svago.
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La maledizione della strega
Torna la Lackberg con la serie ambientata a Fjällbacka, che ha come protagonisti Erica e Patrik. Questa volta la sensibilità del lettore verrà veramente toccata profondamente, perché il caso ruota intorno a una bambina di quattro anni..anzi due perché sembra che non sia la prima volta che una cosa del genere capiti nella tranquilla località svedese. La polizia come sempre parte con le sue indagini e come ogni libro di questa seria, anche Erica è pronta a dare il suo contributo. Il passato e il presente sono collegati?
Sono sempre stata una seguace di questa scrittrice e i suoi primi romanzi li ho sempre letti con grande piacere, finché non lessi “La sirena”, il sesto della serie. Con quello la Lackberg mi aveva deluso e mi aveva indispettito il fatto che riuscisse a “sfornare” un romanzo all'anno andando, almeno secondo il mio parere, a perdere di qualità. Trovarla davanti con questo nuovo lavoro invece mi ha fatto pensare alla Camilla dei primi tempi. Sinceramente ho notato un po' di differenza rispetto agli altri lavori, non tanto nello stile ma nella scelta della trama. Questa volta le indagine sono sempre importanti ma le ho sentite più sfuggenti e meno incisive, ero abituata ad un Patrik più “attivo”, però quello che si è perso da una parte, si è guadagnato dall'altro. L'autrice ha dato molta parte ai sentimenti e alle persone, i veri protagonisti sono loro, con le loro personalità, mettendo in seconda luce il caso.
Un aspetto questo, che può sembrare strano in un giallo svedese ma che io ho apprezzato molto. Inoltre ho apprezzato il messaggio che l'autrice manda al mondo interno e non solo alla sua adorata Svezia. Nel libro si parla tra le altre cose di immigrazione “Solo che era così maledettamente difficile farsi piacere gli svedesi. Irradiavano diffidenza e lo guardavano come se fosse un essere inferiore. Non solo i razzisti. Con quelli era facile confrontarsi. Mostravano apertamente ciò che pensavano, e le loro parole rimbalzavano sulla pelle. Erano gli svedesi comuni quelli più difficili da affrontare. Quelli che in realtà erano brave persone, che si consideravano tolleranti, aperti. Quelli che leggevano della guerra nei giornali, che si rammaricavano di quanto fosse terribile, che donavano soldi alle organizzazioni umanitarie e vestiti per la raccolta di indumenti, ma che non si sarebbero mai sognati di ospitare un rifugiato in casa propria”.
Come ho detto all'inizio, questo romanzo tocca profondamente il lettore perché i temi trattati non finiscono qui. Si parla di bullismo, di violenze, di pagare per le colpe altrui e soprattutto di mancanza di libertà, quella che non ti permette di essere te stesso. E in tutto questo che ruolo ha una storia del 1672?
"Era una parte della tensione di quel lavoro. Un attimo prima sembrava tutto impossibile, l'attimo dopo si aveva il cosiddetto "effetto ketchup" e una tessera del puzzle dopo l'altra finiva al proprio posto".
Un libro che mi ha subito attratto dalle prime pagine, al punto da farmi finire le 677 pagine, che lo compongono, in breve tempo. Lo consiglio sia agli amanti dell'autrice sia agli altri. I libri di questa serie è preferibili leggerli in ordine, non tanto per i casi, che solitamente sono uno separato dall'altro, quello che vi perdereste sono le “vicende domestiche”. I protagonisti sono i soliti e con il passare dei libri anche la loro vita si evolve ed è più semplice capire le varie dinamiche e seguire i vari drammi e soprattutto i momenti di felicità perché per fortuna dopo tanto orrore sorge il sole.
Buona lettura!!
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SIAMO SOLO PER POCHI?
Si può dimenticare il grande amore?
Si può continuare per anni a chiedersi se quello che abbiamo fatto, i nostri gesti, le nostre parole, abbiano determinato il nostro passato e la fine della nostra relazione?
Si può vivere nel ricordo seppur andando avanti con la propria vita?
Si può perdonare l’altro/a nonostante tutto il dolore che abbiamo provato?
“Non sempre, la felicità è un casino, Correrle dietro è un casino, Ma vorrei tanto il coraggio di seguire sempre il mio cuore, questo sì…”
Devo essere sincera di questo libro non ho apprezzato la storia raccontata, ma mi ha colpito di più il modo di scrivere, meraviglioso, poetico, autentico dell’autore che secondo me, riesce a catturare le emozioni e i sentimenti delle persone e a trasformarli in parole. Roberto ha sicuramente un dono, usa in maniera eccezionale e con una proprietà lessicale invidiabile le parole e ne crea delle opere d’arte.
Non ho amato alla follia la storia, che in alcuni punti mi è sembrata troppo romanzata e assurda soprattutto verso il finale.
Assurda per come è stata studiata, per come l’autore l’ha tramutata su carta.
La storia è divisa di tre parti, la prima ai giorni nostri dove la voce narrante è Leonardo,il protagonista, poi c’è il passato quando incontra Angela e poi ci sono i capitoli dedicati al diario della figlia Laura, dove conosciamo la vita della ragazza e il rapporto con il padre attraverso i suoi occhi.
Leonardo è un uomo che non ha mai dimenticato Angela, la madre di sua figlia Laura, e nonostante siano passati quasi vent’anni ancora non capisce come mai la donna abbia potuto lasciare la sua famiglia.
“L’amore è quando la guardi di continuo e ogni volta pensi sia più bella dell’attimo prima.”
E’ ancora un uomo giovane, ha molte relazioni occasionali che aumentano la sua autostima ma che lasciano dietro solo altra sofferenza, la stessa che lui prova per l’ex.
Si sente figo, questo concetto viene ripetuto varie volte nel testo, anche dalla figlia e le sue stesse amiche vorrebbero avere una relazione con il padre della ragazza.
Laura ha quasi diciott’anni è in un periodo particolare della sua vita e le manca soprattutto il confronto con una figura femminile che la indirizzi e la consoli nelle relazioni amorose.
Leonardo e Laura si vogliono bene, ma litigano spesso, Leonardo non vuole perdere la figlia e cerca di proteggerla dai pericoli, anche se alcune volte in maniera sbagliata e Laura vorrebbe essere trattata da adulta e libera di fare le scelte che vuole e anche di sbagliare.
Leonardo si comporta male con le donne che incontra, perché è rimasto ferito e deluso dal suo grande amore e non riesce più a fidarsi, non si lascia andare nel conoscere veramente qualcuno, rimane cullato nel ricordo di un amore che lo tormento e che allo stesso tempo non riesce a dimenticare.
Forse perché quello che ha provato è vero amore e non riesco a trovarne un altro che sia all’altezza di quello che ha vissuto anni prima.
“L’amore arriva e capovolge il senso di ogni cosa. La direzione degli elementi. Trasforma il rumore in musica, rende colorato quello che sembrava grigio e senza vita. L’amore è questo[…]”
La storia è letteralmente sommersa da citazioni di canzoni o di libri, i vari post dei social e dei blog hanno preso molto spazio nel romanzo, rendendolo sicuramente un testo molto attuale.
Nella parte di Laura, ho trovato il racconto di una ragazza che come molte, è alle prese con le prime cotte, con i primi amori, gelosie, sofferenza, rifiuti, dolore e che cerca anche di essere più matura della sua età. Con i post che lei scrive, cerca di esprimere come riesce la sua vita e ho trovato questa parte molto veritiera.
La storia passa da un capitolo all’altro senza risentire della cambio di tempo o di voce narrante, ho apprezzato il fatto che l’autore sia riuscito a non creare confusione nel lettore.
L’autore crede nell’amore, lo si vede e lo si sente attraverso le pagine, che lui scrive di getto, con passione, con autentico talento, sembra quasi un psicologo dell’amore, dispensa consigli sulla felicità e sulla ricerca della stessa.
Ma quello che mi è piaciuto di più, è che Roberto descrive l’amore in ogni sfaccettatura, nel bene e nel male, e anche facendoci capire che ci sono varie forme d’amore e non sempre la direzione che stiamo prendendo è quella giusta ma che possiamo in ogni momento cambiare e correre verso una realtà diversa.
Ma forse a volte quello che ci manca è proprio il coraggio.
Persino nei ringraziamenti continuava a largirci di frasi così belle e poetiche che è riuscito a tenermi incollata anche nelle ultime pagine, che molti tralasciano e che invece a me piace molto leggere.
Sì, devo ammettere che mi ha conquistata ma non il romanzo che è comunque godibile ma l’uomo che lo ha scritto, non conoscendolo non so se sia reale o se sia un provolone, ma ho apprezzato moltissimo il rispetto che ha per l’amore e per i veri sentimenti.
Mentre per quanto riguarda la storia e i vari personaggi non mi hanno convinta del tutto.
La figura di Leonardo sembra a volte molto maschilista anche troppo, poco sensibile verso le sue avventure e invece molto rispettoso e quasi “devoto” all’ex che comunque lo ha lasciato. Ma è forse per questo che lui la rincorre? E’ stato ferito il suo ego?
Il fatto di essere protettivo nei confronti della figlia l’ho trovato più che legittimo e ho apprezzato ugualmente il fatto che comunque è riuscito a crescerla senza una madre.
Quello che ha stonato forse è l’inserimento eccessivo di testi di canzoni o di citazioni di libri, alcune volte non potevo più.
L’autore in alcuni punti è risultato troppo prolisso, lui scrive molto bene, ma mi chiedevo per quanto ancora avrebbe ripetuto quell’argomento, seppur in maniera diversa e per quanti capitoli ancora avremmo dovuto subirci questa sua litania.
Dato la mia passione per i classici vittoriani, avrei dovuto apprezzare un amore mai dimenticato e ancora vivo di un uomo che nonostante il tempo e gli anni trascorsi risceglierebbe ancora una volta la sua Angela e che la perdonerebbe nonostante tutto.
Ma non ho creduto nel loro amore a distanza, forse mi mancava quel filo di romanticismo in più o quella spontaneità che non ho trovato nel romanzo.
L’amore può veramente superare tutto? O il vero amore lo possiamo trovare solo nei romanzi che leggiamo?
Siamo solo per pochi?
Una volta si diceva che possiamo amare solo una persona veramente , che l’amore vero esiste solo una volta, mentre oggi Roberto ha rivoluzionato il concetto d’amore indicandoci che siamo solo per poche persone. Ma non solo per uno. In fondo è sempre stato così, quelle erano solo convenzioni sociali che comunque venivano infrante puntualmente.
Non so se consigliare o meno questo libro, non ne ho proprio idea, ho delle sensazioni contrastanti perché mi sembra che parli di tutto e di niente, in alcuni punti avrei baciato le pagine e in altri lo avrei lanciato contro il muro.
Devo dire che mi capita poche volte di non riuscire ad esprimere un giudizio netto e di essere così indecisa riguardo ad un libro, questo devo dire è sicuramente un aspetto positivo perché vuol dire che mi ha lasciato qualcosa di indefinito, ma pur sempre qualcosa.
A voi la scelta finale!
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Che strano prete che sono...
Quasi per contrappasso dantesco, o per beffardo avverarsi del titolo profetico se non addirittura, come taluni sostengono, per volontaria e cinica orchestrazione commerciale, è lo stesso libro di Walter Siti che cade nel rogo della pubblica condanna.
Capo d'imputazione: uso scorretto ed improprio della letteratura resa complice di un tentativo di indulgenza e cristiana tolleranza verso un peccato (e relativo peccatore) universalmente considerato, e a ragione, il più abietto e deplorevole per la natura umana: la pedofilia.
"Il desiderio erotico di cui qui si parla è, più ancora dell'incesto, l'assoluto tabù della nostra epoca; sacrilego per definizione, basta accennarvi per sentirsi sporchi, basta che qualcuno ne sia portatore perchè lo si consideri un rifiuto dell'umanità, un'abietta carogna da condannare senza appello, un capro espiatorio di tutte le nequizie."
Un tema scottante, quindi. Anzi ardente sarebbe il termine adatto.
Le fiamme della dannazione eterna bruciano l'anima del pedofilo e quelle della giustizia terrena inceneriscono la coscienza di chi si macchia di questo orribile reato.
Tanto più se il male s'incarna in un sacerdote, nel rappresentante cioè di una chiesa che fa proprio della lotta al male e a tutte le sue manifestazioni il cardine della propria essenza e del proprio potere spirituale, sin dall'antico tempo della caccia alle streghe.
E don Leo, parroco come tanti di uno dei tanti borghi milanesi, ne è lucidamente consapevole: quanto vorrebbe poter guardare con occhi diversi quei ragazzini che giocano a calcio nel suo oratorio, gioire con loro e rendersi partecipe e guida della loro innocente gioventù: un buon pastore dovrebbe essere per il suo gregge, e non il lupo.
E poco importa se il lupo si sia manifestato una sola volta e quando era ancora ragazzo, quando ancora non indossava l'abito talare con le sue contraddizioni e dissidi interiori.
Anzi quella scelta ne fu proprio la diretta conseguenza:
"La combattuta decisione del seminario fu insieme un gesto di coraggio e una trincea: tu Dio m'hai messo in questa difficoltà ed io ti sfido correndoti tra le braccia. 'Non permetterai che io sia tentato al di sopra delle mie forze'."
A mio parere, è questa sfida impari tra uomo e Dio la vera chiave di lettura del libro di Siti: Leo diventa don Leo nel disperato tentativo di abbreviare le distanze tra lui e Dio, ma rimane solo con le sue domande senza risposta, perennemente in bilico tra ragione e amore, tra etica e carità.
Il romanzo di Siti è stato ormai additato come il libro 'sul' prete pedofilo e, chissà, forse anche come il libro 'di' un pedofilo per quella spontanea sovrapposizione in un romanzo della prima e terza persona che tende ad intrecciare ed amalgamare in un tutt'uno autore e protagonista.
Sinceramente, però, mi sembra un giudizio alquanto riduttivo e superficiale: è come se l'innegabile ripugnanza, il nauseante ribrezzo che scaturisce dalla lettura di alcune pagine del romanzo contaminasse l'opinione del lettore focalizzandola sull'aspetto sicuramente più turpe della vita di don Leo e mettendo in secondo piano, anzi oscurando completamente, tutto il resto.
E il resto è qualcosa che va ben oltre il peccato, bensì è il conflitto interiore, profondo, intimo, di cui quel peccato ne è testimonianza ed inevitabile conseguenza.
Ma non si cerca perdono, non si pretende una pena ridotta: c'è assoluta coscienza e consapevolezza della propria ossessione, ciò che tormenta don Leo è il silenzio del suo Dio, l'assenza di risposte alle sue domande, ai suoi dubbi.
E se i suoi dubbi diventano eretici non è per mancanza di fede ma per impiego di intelligenza: a meno che Dio non rinneghi tale dono, come potrebbe l'uomo esimersi dal ragionare, riflettere sulla propria vita e sulle contraddizioni della società in cui vive.
"I deboli di mente sono il prossimo più pregiato, la selvaggina più ambita dal cacciatore Gesù. A che serve leggere tanto, economia storia poesia? L'intelligenza è nemica della fede."
Don Leo è avido di sapere, in assenza di un confronto, di un dialogo i suoi interrogativi si trasformano in teorie, in verità soggettive:
"Dio è amore": si, ma che tipo di amore?
La Chiesa ha sempre l'amore in bocca ma è un ombrello ambiguo che non ripara nei nubifragi; Dio non lecca, non bacia, non ha un corpo da penetrare e da cui essere penetrati.
Amare Dio è l'unico metodo per disfarsi, senza dolore, di se stessi: più la carne si sacrifica, più si apre alla luce. Ma i nervi, il tremito, la differenza di potenziale, la scossa? Nessuna reazione chimica celeste m'ha convinto e trasformato. Ho sete del mio male, Signore: ti sei donato a me ma non ti sento."
Don Leo sa che il suo amore è sbagliato, è contro Dio ma anche contro gli uomini, contro la morale: è un'ossessione che non gli lascia via di scampo perchè assecondarla significherebbe essere dannato da Dio e dagli uomini.
Quasi invidia don Fermo, l'altro sacerdote con cui divide la guida della parrocchia, per la rassegnata ma al tempo stesso serena colpevolezza con cui vive la sua relazione clandestina con la perpetua e rimane invece disgustato e terrorizzato dal sacerdote a cui confessa il suo male nella speranza di ottenere un minimo sollievo per la sua anima ed invece ottiene solo consigli sordidi e rivoltanti su come rendere più appagante il sesso con un bambino.
Morbosità? No, la pedofilia esiste purtroppo, è reale, fin troppo nascosta e spesso occultata anche dalla chiesa, per questo credo sia sempre giusto parlarne e scriverne, è un male che va portato alla luce e non sotterrato.
E nel romanzo di Siti io leggo condanna, non leggo indulgenza: è il peccatore che riconosce il suo male e vuole debellarlo, sconfiggerlo.
Non lo sottovaluta bensì cerca di combatterlo con l'unica arma di cui dispone: la fede in Dio, la carità cristiana e l'amore verso il prossimo, verso i migranti e gli extra-comunitari, i poveri del nuovo millennio, un amore che dev'essere più forte del suo amore malato.
E quando quel Dio gli metterà sulla strada il piccolo Andrea, abbandonato a se stesso da un padre ed una madre persi nel loro egoismo e nell'odio reciproco, don Leo quasi esulterà per la sua personale vittoria, per essere riuscito a dare al suo amore verso Andrea la giusta dimensione dell'affetto, dell'amicizia e della protezione quasi paterna.
Ma quel Dio è bizzarro, sembra si diverta a metterlo in crisi, come fece con Abramo ordinandogli di uccidere suo figlio; questa volta però non c'è nessun angelo a salvare l'innocente.
E' proprio vero allora, pensa don Leo:
"Dio vuole tutto o niente.. solo allora ti sentirai in pace, quando non avrai più niente.. Dio non si accontenta del qualcosa."
La disperazione non ha più argini nel suo cuore e sfocia con tutto il suo impeto:
"La mia croce era resistere alla natura e adesso che fai, mi togli la croce da sotto il culo? dici e disdici, non sai nemmeno tu quello che vuoi, ma che cazzo di onnipotente sei? un cretino indeciso che si fa chiamare dio".
E l'unica soluzione, l'unica alternativa possibile è bruciare, bruciare tutto.
Sorretto da una prosa incalzante e da uno sguardo lucido ed attento che scandaglia l'animo umano in profondità, il romanzo di Siti merita a mio parere di essere letto e giudicato di conseguenza sulla base della propria opinione ed interpretazione personale e non su quella di critici e benpensanti che spesso inneggiano allo scandalo per scopi propagandistici.
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Cose dell'altro mondo
Ultimo capitolo della quadrilogia “ Il Regno”, sebbene ci si renda conto che manchino all’appello i capitoli precedenti il libro ha un senso compiuto anche letto singolarmente.
E’ un racconto fresco e leggero, che riempie le pagine delle sfumature blu nel mare estivo di Mykonos, per poi raggiungere Okinawa e una breve ma intensa deviazione artistica a Lanzarote. E’ importante citare i luoghi, perche’ sfuggendo a una mera classificazione scenografica, essi sono elementi brulicanti di vita. Sono atmosfere.
Banana Yoshimoto ci racconta di Noni e di un incontro tanto strano quanto folgorante, un piatto di pesce saporito irrorato da un vino bianco ghiacciato, seduti in terrazza davanti a un tramonto che si tuffa tra le calme onde. Il romanzo getta le fondamenta di un nuovo amore frutto di una vecchia premonizione, coeso in un’affinita’ improvvisa, dai toni pacati ma irrefrenabili.
L’autrice si sofferma romantica sul regno animale e vegetale, dense le sue parole di malinconia verso il silenzio di grilli che non cantano piu’, il muto ronzio di libellule ormai scomparse, uno spesso velo di tristezza cala su lucciole buie.
Il velluto sotto la suola di Yoshimoto attutisce i passi nella piacevole descrizione delle donne del libro. I gioielli artigianali di Noni e l’antica arte di famiglia di coltivare piante medicali per ricavarne tisane non sono tanto un laboratorio di oggetti, quanto di emozioni.
Bello tornare, finito il libro, alla prima pagina dedicata a quell’altro mondo che ne e’ il titolo.
Quanto mi mancano le lucciole delle mie sere di bambina, quando c’e’ empatia c’e’ (quasi) tutto.
Buona lettura.
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L'intramontabile Francis Scott Fitzgerald
John Grisham abbandona, in questo caldo giugno, le aule dei tribunali nonché i suoi cari ed affezionati avvocati e/o giudici, per presentarsi al lettore un’opera nuova, con un thriller che pur mantenendo quelli che sono i punti salienti della sua penna, si spoglia del vecchio per rinnovarsi interamente.
La Princeton University, è nota per il suo dipartimento di libri rari e collezioni speciali, ed in particolar modo per cinque prime edizioni a firma Francis Scott Fitzgerald. Un bottino che fa gola ai tanti e a cui, quindi, è impossibile resistere. Quattro malavitosi, con un piano accurato e ben studiato, riescono ad abbattere ogni linea difensiva della struttura e ad appropriarsi degli stessi. L’FBI è però alle costole del quartetto, tanto che riesce già nelle ventiquattro ore successive al furto a mettere le mani (o forse sarebbe meglio dire, “a mettere le manette”) su due di questi. Degli altri, non vi è alcuna traccia. I mesi passano, la notizia, come spesso accade, perde parte di quello che è il suo slancio iniziale, ma le ricerche delle opere non hai fine e/o interruzione.
Su questo assunto assistiamo ad un cambio scena nonché “io” parlante. Viene introdotta la figura di Bruce Cable, proprietario della “Bay Books” la libreria più rinomata a Camino Island, in Florida. Uomo intelligente e scaltro, il libraio ha saputo ben investire l’eredità del padre e la passione innata per la letteratura. Ancora, Grisham, presenta Mercer Mann, docente nonché scrittrice di modesto successo che, viene incaricata di indagare sull’appassionato rivenditore/lettore in quanto noto collezionista di opere prime, da un’organizzazione che sta svolgendo un’indagine parallela a quella degli agenti federali. Riuscirà Mercer a scoprire le eventuali implicazioni dell’uomo nel furto dei manoscritti? Oppure, in realtà, dietro a quest’ultimo, si cela qualcun altro? Chi sarà, di fatto, il mandante di questo eclettico delitto?
Con uno stile chiaro, fluente, preciso ed esaustivo, Grisham si reinventa, dando vita ad un giallo davvero piacevole. La trama regge, non si perde nello scontato, non mancano i colpi di scena seppur mai risultino essere eccessivi. Buono anche lo sviluppo successivo. Gli stessi protagonisti non sono lasciati al caso. Ciascuno è delineato con minuzia, sia per passioni, che nelle varie ambientazioni. I luoghi sono approfonditi, descritti con cura talché chi legge non fatica a risvegliarsi tra le strade della cittadina in compagnia di eterogenei compagni di viaggio.
In conclusione, un elaborato che si presta ad una lettura rapida, adatto altresì tanto agli amanti del genere quanto ai non, e che riporta l’avventuriero conoscitore a ritrovare nello statunitense novelliere quello sprint e quello smalto che negli ultimi legal thriller si era, almeno a mio modesto giudizio, in parte perso. E vi riesce proprio mettendosi in gioco con un qualcosa di completamente diverso. Una buona prova.
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Dall'ombra? No dall'armadio...
“Non aveva mai osservato una famiglia, nemmeno la sua, come chi scruta al microscopio il comportamento di una colonia di microrganismi. E i risultati di quell’esame provocavano in lui stupore e confusione”.
Damián Lobo è spagnolo, ha quarantatre anni e dopo venticinque anni di lavoro, nella solita ditta, si ritrova disoccupato. Le sue mansioni non sono più necessarie e tutto quello che era il suo mondo, viene rivoluzionato.
“Mi resi conto di averlo rubato perché ero fuori di testa, perché avevo paura del cambiamento di vita che quel fatto supponeva, paura del futuro. La paura è una delle sensazioni più devastanti, ci trasforma in animali. E io avevo paura. La paura era la causa del furto e di tutto quello che accadde dopo in una strana concatenazione di eventi”.
Millás, con il suo nuovo libro “Dall’ombra”, crea un romanzo davvero originale e insolito. Se la trama può sembrare un po’ visionaria, quello che colpisce è l’argomento di base e soprattutto le peculiarità del suo protagonista.
Damián è un uomo che continuamente immagina di dialogare con il presentatore di un reality di cui lui, ovviamente, è il protagonista, un dialogo allucinante ma mai imbarazzante. Una vita passata nell’ombra che solo nella sua testa diventa invece eccezionale. Un protagonista che con questi dialoghi racconta molto del suo trascorso, cesellato di fallimenti e abbandoni, con una vita vissuta sempre dietro le quinte. Ma proprio questo “dietro le quinte” gli darà la possibilità di potersi riscattare e rimettersi in gioco.
La trama è davvero particolare e come dicevo prima, sfiora il visionario, ma lo stile ironico e per niente celato dell’autore danno un senso alla lettura. Millás critica apertamente la televisione spazzatura, parla delle problematiche infantili e adolescenziali e soprattutto racconta la disperazione che può colpire un uomo che per tutta la vita ha fatto un lavoro e, a quell’età, fra la non più giovinezza e la vecchiaia molto lontana, deve reinventarsi.
Gran parte del libro è raccontato dall’interno di un armadio, non un armadio qualsiasi, ma uno che ha una storia tutta sua.
La sensazione che mi ha accompagnato nella lettura non è stata quella della claustrofobia, ma quella di un uomo che affronta i suoi fantasmi e cerca di cacciare quella solitudine che l’ha accompagnato per tutta la vita.
Lo consiglio, anche se è un libro che va considerato nel suo insieme.
Buona lettura!
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il dramma dell'ipocrisia
“Il ragazzo nuovo” di Tracy Chevalier fa parte di un grande progetto internazionale lanciato dalla Hogart Press a quattrocento anni dalla morte di William Shakespeare (1564-1616): grazie alla collaborazione di famosi autori contemporanei, la storica casa editrice ha pubblicato una collana di opere shakespeariane riscritte in chiave moderna edite, in Italia, da Rizzoli.
“Il ragazzo nuovo” è, in questo progetto, la trasposizione di Otello in cui pregiudizio razziale, invidia e gelosia sono i temi dominanti, ma vengono attualizzati in una scuola americana negli anni Settanta dove un gruppo di adolescenti rivivono le vicende dei protagonisti del noto dramma shakespeariano.
Il romanzo è diviso in cinque capitoli e la storia si svolge nel rispetto delle unità di luogo, tempo e azione: si sviluppa all'interno di un istituto scolastico nell'arco di una sola giornata.
Siamo a Washington nel 1974 e Osei Kokote, tredicenne figlio di un diplomatico ghanese, è costretto per l'ennesima volta a cambiare scuola a causa del lavoro di suo padre. Osei è dunque “il ragazzo nuovo”, l'unico nero in un istituto di soli ragazzi bianchi in un'America in cui il sogno di integrazione di Martin Luther King ha dovuto fare i conti con le idee rivoluzionarie di Malcom X e del Black Power.
Al suo ingresso nel cortile, decine di sguardi diffidenti si posano su Osei; solo Daniela Benedetti, detta Dee, la ragazza più carina e popolare dell'istituto, prova per lui una forte attrazione alla quale Osei non può restare indifferente perché Dee emana una luce particolare, la “luce dell'anima”.
Fatte le presentazioni di rito, Osei si inserisce nel ritmo di una normale giornata scolastica scandita da lezioni, partite di kickball, mensa e momenti di ricreazione. Il primo impatto sembra positivo: Osei, socievole e atletico, conquista subito non solo la simpatia di Dee, ma anche la stima di Casper, il ragazzo più bello ed apprezzato dell'Istituto. Le difficoltà, però, non tardano a manifestarsi: una mano posata sulla guancia di Dee, una semplice carezza data nel cortile della scuola, suscita lo sguardo indignato di alunni e docenti che, abbagliati dal pregiudizio (“Me l'aspettavo, è tipico di quella gente!” commenta un professore) etichettano come inadeguato e disdicevole il comportamento di Osei. La popolarità inaspettata del ragazzo scatena inoltre in Ian, il temuto bullo della scuola, una invidia e una gelosia irrefrenabili. Ian, subdolo manipolatore, fingendosi amico di Osei, architetta un piano distruttivo con la complicità della sua ragazza, la fragile Mimi, e del suo tirapiedi Rod, da tempo invaghito di Dee. Con stratagemmi meschini e malevole insinuazioni, Ian accende nell'animo di Osei il dubbio del tradimento ordito alle sue spalle da parte di Dee e di Casper al fine di umiliarlo. Accecati dai sentimenti negativi instillati da Ian, i ragazzi scivoleranno in un crescendo di reciproche violenze verbali e fisiche fino al tragico inevitabile epilogo, nel rispetto della trama del dramma shakespeariano.
Ho letto “Il ragazzo nuovo” con grande curiosità, sia perché avevo già apprezzato questa autrice in altre sue opere (cito, fra tutte, “La ragazza con l'orecchino di perla”) sia perché mi sembra interessante il progetto sostenuto dalla Hogart press in merito alla riedizione in chiave moderna delle opere di Shakespeare.
Il risultato raggiunto dalla Chevalier è, a mio avviso, degno di considerazione ma, data l'ambientazione e l'età dei protagonisti, lo ritengo particolarmente adatto ad un pubblico di giovani. Il testo, costruito principalmente su azioni e dialoghi, si presta infatti ad una lettura scorrevole e poco impegnativa, ma non banale soprattutto perché offre spunti di riflessione e approfondimento su sentimenti universali e tematiche sempre di grande attualità. Un romanzo che ci dà l'occasione per ripensare al concetto di integrazione spesso mascherato da un'ipocrita tolleranza:
“Per certi versi il razzismo spudorato degli ignoranti era più facile da digerire. Lo feriva di più l'ipocrisia dei ragazzi che erano gentili con lui a scuola, ma che poi non lo invitavano alle feste di compleanno. La gente che smetteva di parlare quando entrava in una stanza. Le considerazioni poco lusinghiere sui neri seguite dai distinguo: «Non parlavo di te, Osei. Tu sei diverso»” (p. 188)
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La distopia dei bambini divorziati
Tendo ad essere sempre buono, quando do dei voti. Ma stavolta davvero non ce l'ho fatta. Sebbene il libro sia leggero e si lasci leggere, perché l'autore possiede uno stile fresco e divertente, il contenuto di questo romanzo mi ha lasciato abbastanza interdetto.
E' incredibile come un romanzo possa capovolgere sé stesso e l'opinione che il lettore ha di lui nel giro di poche pagine. Nel bene e nel male. Peccato che nel caso di "Divorziare con stile" sia in male. Sì, perché il romanzo comincia bene: Vincenzo Malinconico è un personaggio ben riuscito, sincero, schietto, simpatico. Il romanzo offre un preludio piacevole alla storia che pensi andrà a raccontare. Poi inizi a chiederti, ma la storia che mi si presenta sul retro, ma quando cavolo inizia? Risposta: tranquillo che inizia, ma non dura più di 50 pagine su oltre 370. Vabbè, pensi, è comunque una lettura piacevole. Poi iniziano i campanelli d'allarme.
Entra in scena un personaggio dopo l'altro, tutti paurosamente simili tra loro. Tutti sboccati come se dire parolacce fosse una virtù, tutti uomini e donne di mezza età immaturi oltre ogni dire. Il romanzo diventa silenziosamente una distopia popolata da uomini arrabbiati o delusi dal mondo, un mondo in cui il concetto di famiglia "felice" è completamente bandito e tutti sono divorziati in perenne scontro con i propri ex, o perlomeno si cornificano senza pudore a vicenda e magari sono pure contenti. E ovviamente, tra le cause, l'autore ci butta pure la tecnologia cadendo in un cliché che si fa sempre più frequente. Okay, capisco che i tempi sono cambiati, ma a un certo punto della lettura mi sono chiesto: "Ma in che razza di mondo vive De Silva? Che tragedie familiari assurde ha vissuto?".
In certi tratti il libro ti strappa delle risate sincere, soprattutto nelle riflessioni personali di Malinconico, ma queste ben presto diventano troppe, troppo invasive, e diventa anche chiaro che sono opinioni sfacciatamente dell'autore, che così entra nella storia in maniera troppo marcata. Queste mie riflessioni (anche un po' spietate), mi hanno travolto tutte insieme quasi alla fine del libro, in un modo che sinceramente ha stupito anche me, perché fino a poco prima lo avevo apprezzato.
Vincenzo Malinconico è un avvocato sfigato e nemmeno troppo preparato. All'improvviso viene contattato dalla moglie bellissima di un avvocato importante, che gli chiede di assisterla nella causa del suo imminente divorzio. Veronica Starace Tarallo. Manco a dirlo, la bella signora ci proverà con lui. Ma questa è soltanto una delle varie storie che "riempiono" le pagine di questo romanzo: la vendetta verso un giudice di pace odiato all'unanimità; il matrimonio della figlia di Malinconico e la presunta omosessualità di suo figlio; una rimpatriata tra compagni di classe. Eccolo qui, il momento cruciale: la cena con gli ex compagni. E' qui che si raccolgono tutti i difetti del romanzo e ci urlano in faccia per farsi notare. Tutti i campanelli d'allarme, che prima avevano qualche sfumatura piacevole, diventano un terremoto. La cena è un'accozzaglia di quasi 50enni senza uno straccio di maturità, che se ne dicono di tutti i colori, che covano rancori per nulla attutiti dal tempo e dalla crescita. Si sputano veleno, si attaccano a vicenda che nemmeno bambini delle scuole elementari quando la maestra non c'è, con la volgarità di ragazzi della più malfamata delle scuole superiori. Si insultano, si offendono, e addirittura si stupiscono se l'offeso si alza e se ne va, come se prendersi a male parole e giudicare le scelte di vita in maniera spietata sia una cosa normale e prendersela sia uno scempio. Nel giro di una scena, un libro piacevole è diventato una storiaccia popolata da personaggi improvvisamente inverosimili. Ci può stare che un personaggio possa avere queste peculiarità, ma non tutti!
Sono rimasto interdetto, sinceramente, soprattutto da come l'autore ha sciupato la sua abilità e dalle sue opinioni spesso indelicate. In questo libro, almeno.
"E' la sindrome del lieto fine, che poi rovina un sacco di belle storie. Perché tante volte la vita ti dimostra che una storia non è bella perché finisce bene, ma proprio perché finisce."
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L'amore assoluto
È un lungo racconto sull’amore assoluto l’ultimo libro di Edoardo Albinati, sull’amore libero da vincoli affettivi e istituzionali, sulla sua possibilità di realizzarsi e sopravvivere al di fuori degli schemi tradizionali che regolano la nostra società.
L’avventura di Clementina e Erri presi da una passione travolgente si consuma in un fine settimana in un’isola che offre una cornice spettacolare arricchita di profumi e colori. Scelgono consapevolmente la strada dell’adulterio, senza indugiare in ripensamenti e rimorsi, assaporando ogni minuto di un amore trasgressivo e travolgente.
Il tema non è certamente nuovo: la letteratura è ricca di amanti adulteri che sono stati vittime della passione, da Paolo e Francesca a Madame Bovary, a Tristano e Isotta e Lancillotto e Ginevra. Ciascuno di questi amanti paga il prezzo della sua colpa. Nel racconto di Albinati si vuole riscattare la passione dal senso di colpa, in un tentativo di legittimare il desiderio e la pulsione sessuale. Eppure la vicenda di Erri e Clementina riesce a sopravvivere solo lo spazio di un fine settimana, perché l’amore assoluto non ha lunga vita. L’amore è legame affettivo, è progetto di futuro, è casa, è esigenza di stabilità, si basa sulla lealtà e la fedeltà reciproca. Clementina aveva sempre sostenuto che non sarebbe mai stata di nessuno, sin da quando era giovanissima. Ma amare ed essere amati non vuole dire perdere possesso di sé, quanto piuttosto conservare il rispetto dell’altro e per l’altro, evitare l’umiliazione dell’inganno. È in fondo a questa conclusione che giunge Clementina nel momento della separazione da chi le aveva offerto la possibilità di vivere un’esperienza unica ma non ripetibile:
“Abbiamo riscosso un credito, io non sapevo nemmeno di averlo, ma ora è stato pagato. Sono stati due notti e due giorni bellissimi. Ma non credo che si ripeteranno.”
Un libro che fa riflettere sulle opportunità che la vita offre, sulle occasioni che si vorrebbe cogliere, sui limiti imposti dalla coscienza e dalla morale. Con una storia che sembrerebbe essere un inno all’amore libero, Albinati riesce a dimostrare che al contrario l’amore ha bisogno di vincoli e legami.
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Come la neve a Bolzano
Noir ambientato a Bolzano, protagonista un’indagine sulla misteriosa sparizione di un bambino alla quale si intrecciano i vissuti presenti e quelli passati, carichi di fantasmi e di tensioni latenti, dei principali personaggi. L’epicentro risiede nella complessità irrisolta del commissario Striggio, gay incapace di affermare la sua identità sessuale apertamente, bolognese trapiantato in una provincia statica, in relazione con un maestro di scuola primaria. Leo, il compagno è tratteggiato all’opposto come un maschio bello e sicuro. A questa diade si contrappone la coppia di genitori, Gea e Nicola, complessa perché maturata all’interno di una famiglia affidataria e per questo vissuta come incestuosa dai genitori di Nicola. Gea ha una terribile storia famigliare, un fratello gemello abusato e scomparso, una mamma già morta e un padre-orco suicida. Michele è l’ unico figlio di questa coppia e mentre il loro matrimonio è in crisi per la promiscuità di Nicola, lui sparisce. Scattano le indagini ma non assurgono mai al ruolo di protagonista, come ci si aspetterebbe. Gradualmente vengono ricostruite le storie personali di Sergio e Gea mentre arriva da Bologna l’anziano padre di Sergio del quale si ricostruisce la storia personale per intrecciarla a quella del suo complesso figliolo. Il ritratto restituito di Sergio bambino fa da contraltare a quello del piccolo scomparso, entrambi geniali per certi aspetti ma fallimentari in altri. Assente del tutto è la rappresentazione del dolore dei genitori, tutto è focalizzato verso questo noiosissimo surrogato di commissario che ha tradito se stesso fino in fondo scegliendo, fra le tante possibilità che si offrivano alla sua mente geniale , di fare lo stesso mestiere del padre. L’ultima vicinanza con il genitore malato terminale gli offre la possibilità di riscattare una relazione mal vissuta e di prepararsi al congedo da lui in modo sano e umano e soprattutto sereno perché nel dirsi addio l’importante è appunto come lo si dice. Il succo di tutta la storia è questa, il giallo risolto alla fine, l’insieme noioso e pesante non riesce neanche stavolta a farmi apprezzare le doti narrative di Fois così unanimemente riconosciute. Molto più gradevole il suo “L’importanza dei luoghi comuni” che riusciva meglio a sviscerare quel tema che tanto gli è caro dei rapporti parentali.
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Cosa significa proteggere?
Ultimata la lettura dell’ultimo capitolo della fortunatissima serie letteraria di Andrea Camilleri, la sensazione che mi pervade è quella di una soffusa e delicata malinconia. Il commissario Montalbano si avvia inesorabilmente verso la terza età ed è ormai difficile ignorare quel mormorio che sussurra silenzioso tra le righe la parola fine. Eppure, è impossibile non innamorarsi una volta ancora di questo autore novantenne che, ormai impossibilitato a scrivere, ha ancora voglia di raccontarci il mondo. E di questo splendido personaggio che, nonostante gli acciacchi e la stanchezza, si appassiona sempre come un bambino a “quella matassa 'ntricata che è l'anima dell'omo in quanto omo”.
Sullo sfondo comico e coloratissimo di una Vigata diventata per l’occasione set di una fiction italo-svedese ambientata negli anni Cinquanta, prendono vita due vicende apparentemente indipendenti. Da un lato, una storia che fonda il proprio mistero nelle pieghe del passato. L’enigma è racchiuso in sei vecchi filmini superotto ritrovati per caso nella soffitta dall’ingegner Ernesto Sabatello. Un muro ripreso ogni 27 marzo dal 1958 al 1963 a partire dalle ore 10.25 del mattino per una manciata di minuti. Ma quale oscura ragione avrebbe spinto il padre dell’ingegnere a filmare un muro bianco per sei anni consecutivi?
Mentre Montalbano si lascia trasportare dalla curiosità di scoprire le passioni e le memorie celate dietro quel biancore, un’altra vicenda infiamma Vigata. La classe del figlio del vicecommissario Augello viene presa d’assalto da due uomini armati. Non ci sono vittime, solo minacce. Ma Mimì è nella classe, quel giorno, e per evitare il peggio, deve controllarsi, impedirsi di reagire alla violenza, proteggere. Anche a costo di sentirsi umiliato, di vedere gli occhi di suo figlio riempirsi di lacrime di vergogna. “Quanti modi di protezioni esistivano!”. Soprattutto al giorno d’oggi, in cui ci si sente minacciati da tutto, da ciò che si conosce e ancor di più da ciò che non si conosce, come le orde di persone che arrivano dal mare parlando un'altra lingua e pregando un altro Dio.
Per comprendere cosa è davvero accaduto in quella scuola, Montalbano dovrà addentrarsi nei cunicoli di un mondo per lui oscuro, quello dei giovani. Un mondo di “picciotti” che stanno insieme senza parlare, con le mani che si muovono freneticamente sui tasti di un cellulare e le pupille a punta di spillo, perse nel loro personale “globo isolanti”. Un mondo senza barriere, fatto di social network, amicizie virtuali e interconnessioni, che invece è terreno fertilissimo proprio per disagio e solitudine.
Nonostante la storia sia sempre condita dai divertenti siparietti cui Camilleri ci ha abituato e da tutti quei piccoli dettagli che ci fanno sentire sempre “a casa”, queste due delicate vicende investigative sono profuse di malinconia e introspezione. Non ci sono vittime o spargimenti di sangue. Non ci sono colpi di scena o invenzioni narrative. È un romanzo dal ritmo pacato, di riflessione. Su un mondo che negli ultimi decenni si è completamente trasformato. Sulle emozioni umane, che invece rimangono sempre le stesse. E sul significato più profondo della parola protezione. Ed è bello anche così.
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Di legno e di carne
L'ultimo lavoro pubblicato da Fabio Stassi veste i panni del racconto.
Un racconto sui generis che mette in scena esseri inanimati a livello teorico, eppure vivacissimi e pensanti, attingendo al variopinto e storico mondo dei pupi siciliani.
Una storia concentrata sul palcoscenico dove prendono vita e assumono sembianze e sentimenti umani delle semplici marionette, oltre alla presenza di una donna speciale, marchiata come diversa da tutto il paesello a causa delle sue fattezze fisiche e costretta a seguire il carrozzone di un puparo.
L'esercizio stilistico intrapreso dall'autore è degno di nota ed apprezzabile, il filo conduttore narrativo trae spunto dalle epiche vicende di Orlando ed Angelica, protagonisti ariosteschi, rivisitati e condotti tra le genti di uno sperduto paese siciliano, che come per magia diviene scenario di amori, vendette ed imprese di cavalieri e dame.
La suddivisione del racconto è in capitoli brevi, una sorta di micro atti teatrali, per creare una sequenza stretta di volti e situazioni.
Questa brevità stimola da un lato ad una lettura rapida, col rischio di perdere di vista la sostanza dei dialoghi tra i personaggi.
Complessivamente un lavoro lontano dalla completezza di Stassi come romanziere, per chi già lo conoscesse, ma sapendo che si tratta di un primo componimento riadattato e consegnato postumo alle stampe, possiamo valutarlo nella giusta ottica.
Inoltre il genere racconto occupa da sempre un posto defilato nel mondo letterario e necessita di un metro di giudizio consono perchè racchiude in sé caratteristiche di contenuto e di stile sue proprie.
Una visione del mondo di ieri e di oggi e della mescolanza tra immaginazione e realtà.
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Io...fra loro.
Quanta delicatezza, quanto pudore, quanta "vita" c'è in questo memoriale che Ford scrive sui suoi genitori!
Partiamo dal presupposto che scrivere del proprio padre e della propria madre è sempre difficilissimo, perché chi racconta, chi scrive, non è "altro da loro", ma qualcuno che ha vissuto gran parte della vita "tra loro"...e proprio per questo motivo ha più difficoltà a guardarli da una certa distanza, come persone che si rapportano non solo con lui, ma anche con il resto del mondo, che hanno un passato che appartiene solo a loro e una vita interiore che può essere inficiata dal sentimento.
"L'incompleta conoscenza delle vite dei nostri genitori non è una condizione delle loro vite. È una condizione soltanto delle nostre".
Chi sono realmente i nostri genitori?
Chi erano e cosa pensavano prima di noi?
Quali erano i loro sogni, le loro aspirazioni?
Sono stati davvero felici?
Queste sono solo alcune delle domande a cui Ford cerca di dare una risposta, senza inventare, senza romanzare nulla, ma basandosi solo su ciò che ha visto, su quello che gli è stato raccontato, sui suoi ricordi.
E con la consapevolezza che la loro vita è stata sicuramente molto altro (e molto di più) che questo...
Ne viene fuori un ritratto lieve e struggente di un padre commesso viaggiatore, grande e grosso, troppo assente, ma che con la sua assenza è riuscito ad insegnargli che la gente viene e va e che la stabilità è un qualcosa che bisogna crearsi da soli, trovandola dentro se stessi.
Una madre piccola e volitiva che ha dedicato la vita, prima della sua nascita, al marito, seguendolo nel suo lavoro, vivendo praticamente in auto con lui, felici di questo.
Felici.
L'arrivo di un figlio, desiderato e amato, cambia tutto...ma non il loro amore.
Alla fine Ford ci vuole raccontare una storia "vera", né migliore né peggiore di altre, una storia senza eroi, piena di vuoti e densa di pieni.
Una vita filtrata dal tempo, dove tante cose sono andate perdute, tranne l'amore...e "l'amore, come sempre, è causa di bellezza".
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il dolore della solitudine
“Non avere nessuno significa non avere nemmeno se stessi. Chi ti ama ti rilascia un certificato di esistenza” (p.121)
Élisabeth, sessantadue anni, un lavoro soddisfacente e una famiglia tranquilla, sente che la vita le sta sfuggendo di mano, senza emozioni, senza gioie, nel rimpianto di un amore giovanile che le ha trasmesso la passione per la fotografia; le piace sfogliare “The Americans”, di Robert Frank, “il libro più triste del mondo”: osserva i volti, gli oggetti, il paesaggio, incantata dal fascino dello scatto fotografico che pietrifica ed immortala ciò che è destinato a dissolversi.
Jean-Lino Manoscrivi, uomo mite e pacifico, “con la biro e il suo giornale e soprattutto il suo cappello”, è un amante delle corse dei cavalli che, nella monotonia della routine, gli danno un brio altrimenti inesistente; non prende mai l'ascensore, Jean-Lino, perché soffre di claustrofobia. Si incontrano così, coinquilini in un palazzo della banlieue parigina, salendo e scendendo le scale, lei fino al quarto piano per tenersi in forma, lui fino al quinto.
Sono entrambi coniugati: Élisabeth con il posato Pierre, Jean-Lino in seconde nozze con la stravagante Lydie, nonna di un pestifero nipotino, Remi, con cui Jean-Lino vorrebbe instaurare un'intesa affettuosa. Con il vicino di casa, Élisabeth ha un rapporto di cortesia -si danno del lei- ma anche di reciproca simpatia e confidenza, in una parola: di amicizia.
Per “creare legame” e vivacizzare la quotidianità, Élisabeth organizza una festa di primavera, un'occasione di condivisione per stare in allegria. Invita anche Jean-Lino e sua moglie a cui chiede la cortesia di prestarle delle sedie. Tutto procede tranquillamente, anche troppo: la festa non decolla, la conversazione languisce; Lydie, animalista convinta, chiede l'origine del pollo che è stato servito e Jean-Lino ne approfitta per fare delle battute e qualche pantomima sulle idee, a suo parere ridicole, della moglie. Terminata la serata e congedati gli ospiti, Élisabeth e Pierre, già a letto, sentono suonare il campanello: è Jean-Lino che, sconvolto, afferma di aver commesso un omicidio. Élisabeth, per curiosità, per incoscienza, ma anche per un sincero affetto nei confronti dell'amico, si lascia coinvolgere dalla richiesta di aiuto di Jean-Lino.
A questo punto il romanzo si tinge di nero: alla descrizione del crimine fanno seguito gli interrogatori e le indagini giudiziarie di cui, ovviamente, è bene non anticipare nulla per non rovinare il piacere della lettura. Una precisazione: i toni sono quelli della commedia grottesca, con situazioni paradossali in cui al dettaglio macabro si associa un sorriso.
“Babilonia”, della nota e premiata drammaturga, scrittrice e sceneggiatrice francese Yasmina Reza, è un romanzo a metà strada tra il filosofico e il poliziesco, un testo in cui, più dei fatti, contano i pensieri, i sentimenti, la fine analisi psicologica dei personaggi e le motivazioni consce e inconsce che li spingono ad agire. Le tematiche affrontate sono molteplici: l'ineluttabilità dello scorrere del tempo, il peso e l'influenza dei ricordi, l'incomunicabilità nella coppia vista solo come vano "tentativo di colmare la propria solitudine con un'altra solitudine", l'assurdità di un'esistenza costruita sulle illusioni e su quelli che l'autrice definisce “concetti vuoti” (creare legame, tolleranza, dovere della memoria, elaborazione del lutto); amara la riflessione sul linguaggio, sul peso e sul potere che le parole hanno di ferire in un modo più subdolo e crudele di un'arma. Parole che possono però anche consolare e conferire “un senso di appartenenza a un insieme oscuro”, come i versetti del salmo che Jean-Lino, da bambino, sentiva leggere da suo padre “Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci sedemmo e piangemmo al ricordo di Sion” (p.112). L'autrice resta sempre super partes, si limita a scattare istantanee sulla realtà, facendo propria l'affermazione del fotografo G. Winogrand "Il mondo non è affatto ordinato. E' un casino. Io non cerco mai di metterlo a posto".
“Babilonia” è un testo scritto in prima persona da una voce narrante, quella di Élisabeth, che dapprima getta le premesse della vicenda, poi ricostruisce i fatti riferendo la confessione di Jean-Lino, infine conclude riportando l'interrogatorio della polizia; ai vivaci dialoghi si alternano flashback e profonde riflessioni in una prosa efficace, incisiva, sferzante, capace di strappare un sorriso amaro di fronte alle miserie e alle follie dell'uomo.
Ho trovato questo romanzo molto avvincente, l'ho letto tutto d'un fiato; mi hanno coinvolta soprattutto i personaggi: Élisabeth, intraprendente, positiva e capace di gesti di sorprendente bontà ha catturato fin da subito la mia simpatia, mentre per Jean-Lino, carnefice e vittima di un assurdo destino, non si può che provare compassione e tenerezza; un testo che mi ha fatto riflettere sui piccoli grandi drammi che ognuno di noi vive nella monotonia di ogni giorno, drammi che rischiano di sconvolgerci l'esistenza, ma di cui, forse, talvolta sentiamo il bisogno perché, come afferma un'amica di Élisabeth, "le tragedie della vita quotidiana ti riempiono la giornata" (p. 30)
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… e tre!
La bussola interna del lettore alla ricerca di un romanzo spensierato ma non banale, romantico ma non zuccheroso, giallo ma non troppo, non potrà che avere l’ago puntato sull’ultimo lavoro di Alice Basso. Per tutti gli affezionati alla saga di Vani Sarca, infatti, è da pochi giorni disponibile in libreria l’ultima esilarante avventura della cinica ghostwriter dal look dark, l’intelligenza acuta e la lingua tagliente.
Anzi, questa volta gli “scrittori-senza-nome” sono addirittura due. Perché dietro a uno dei più importanti romanzi italiani, acclamato da più di vent’anni da critica e pubblico, forse, si cela una misteriosa identità. E solo Vani, con il suo straordinario intuito empatico, può riuscire a identificarlo e farlo uscire allo scoperto. Ma ritrovarsi di fronte, come in uno specchio deformato, un altro sé, più cinico e misantropo che mai, sarà una vera sorpresa. Dalle conseguenze imprevedibili.
E' vero che le nostre debolezze le conosciamo ormai bene. Sappiamo che quella feroce scimitarra di sarcasmo la brandiamo solo per difenderci da un mondo in cui ci sentiamo sempre fuori posto. Sappiamo che standocene tappati in casa a leggere e scrivere libri ci stiamo solo proteggendo in una confortevole tana di sogni. Ma vederci all’improvviso invecchiati, delusi, soli e inaciditi, è davvero tutta un’altra faccenda. E ci domandiamo allora se è proprio questa la guerra che vogliamo combattere. O se invece varrebbe la pena provare, osare. Anche se… “Io saprei quasi osare, sapessi almeno osare che cosa”.
Questo romanzo segna sicuramente un’evoluzione e una maturazione della protagonista, chiamata a mettersi realmente in gioco. Perché adesso è arrivato il momento di decidere dove si vuole andare e magari anche con chi. Il fascinoso Riccardo che, dopo averla ferita, ora gioca tutte le sue carte per riconquistarla? O il commissario Berganza, burbero e pacato, che però sa sempre sorridere alle sue battute irriverenti e ai suoi modi un po’ strambi? Nel frattempo ci sono sempre i libri, alla cui saggezza attingere, i tanti personaggi a cui già ci siamo affezionati nei precedenti episodi e ovviamente anche una nuova indagine. Chi infatti se non una scrittrice che opera nell’ombra può aiutare la polizia a scoprire i messaggi segreti di un boss della mafia agli arresti domiciliari? Ma questa volta c’è poco da scherzare, qualcuno rischierà la vita.
La penna di Alice Basso è sempre piacevolissima. Battute al fulmicotone, piene di ironia e intelligenza. Un amore per le parole e la letteratura che si respira in ogni pagina. E soprattutto una protagonista davvero speciale, che ormai vogliamo accompagnare in ogni tappa di questo insolito e divertente viaggio.
“Le commedie romantiche le guardi per sognare. Anche i gialli li leggi per uscire dalla realtà. Per scrollarti di dosso la noia. Per vedere se c'è ancora qualcosa capace di sorprenderti, se la tua sensibilità funziona sempre, se sei in grado di emozionarti ancora per qualcosa”.
Chi questo cerca, non verrà deluso.
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Allucinato
Non è difficile credere che Stefano Benni tenga dei seminari sull'immaginazione. Nel suo "Prendiluna" c'è tanta di quella fantasia da rimanere spiazzati. Forse ce n'è anche troppa; e come ben sappiamo, il troppo stroppia. Capiamoci, Benni è sempre piacevole e scorrevole da leggere ed è uno degli autori italiani che apprezzo di più, ma questa sua ultima fatica è probabile che la scorderò così come l'ho letta: rapidamente. Ho apprezzato di più la sua ultima raccolta di racconti: "Cari Mostri", che pur ospitando più esseri soprannaturali, riusciva ad essere più logica e meno forzata. Sì, perché ci sono tante forzature evidenti in questa storia, e personaggi che cambiano da un momento all'altro quando per anni hanno condotto vite all'opposto. Per non parlare dell'allucinante finale.
Ripeto, il troppo stroppia.
Prendiluna è una ormai vecchia gattara, maestra di italiano in pensione. Una notte un vecchio gatto ormai morto, di nome Ariel, le appare sottoforma di fantasma e le comunica che se non troverà dieci Giusti a cui affidare i suoi dieci gatti, il mondo finirà.
Nel frattempo due ex alunni della maestra che ora sono chiusi manicomio, Dolcino e Michele, hanno avuto un sogno in cui sono venuti a conoscenza della Missione di Prendiluna. Hanno scoperto che lei incontrerà Dio una volta conclusa l'opera, e anche loro vogliono incontrarlo per dirgliene quattro. "Se vuoi trovare qualcuno, cerca chi lui sta cercando", per cui, partono alla ricerca di Prendiluna.
Avanzeremo quindi con loro in questo viaggio fatto di ironia, allusioni sessuali ed evidente denuncia alla società tecnologica dei tempi moderni, che chiude il proprio mondo nel ristretto schermo di uno "Smartafone". Si scontreranno con una strana setta, gli Annibaliani, che hanno come capo Chiomadoro, un uomo dal passato misterioso.
In conclusione posso dire, a malincuore, che non è proprio il miglior lavoro di Benni.
"Ogni notte è meravigliosa quando torni vivo da un campo di battaglia, o esci da un ospedale, o lasci una prigione, bella è la gioia degli scampati, dei guariti, dei salvi, anche se sarà breve."
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“Niente istiga alla violenza quanto un tacito diss
Tacere o rendere manifesto il proprio dissenso fu il dilemma che si pose Sandor Marai nel vivere e subire gli eventi storici che travolsero il suo paese a partire dal maledetto giorno in cui Hitler portò a compimento l’esecrabile disegno dell’Anchluss. In questo intenso libro di memorie e considerazioni dal titolo “Volevo tacere”, Marai opta per un resoconto obiettivo dei fatti, ricostruisce la storia dell’Ungheria, analizzando le cause che impedirono il vero progresso del paese dalla fine dell’impero austroungarico, cause da rinvenire nella mancata riforma agraria che lasciò il paese in un immobilismo economico di tipo feudale, per troppo tempo. Marai ripercorre le vicende della Repubblica dei Consigli, che si era formata con Bela Kun dopo la caduta dell’impero, rievoca l’intervento dell’esercito controrivoluzionario di Horthy che d’autorità ripristinò la monarchia e stabilì un regime autoritario. Ciò al fine di offrire al lettore quelle basi necessarie per capire quanto sia stata travagliata la storia di questo paese, già prima dell’ annessione dell’Austria alla Germania. Marai si sofferma con un chiaro sentimento di profonda nostalgia su quanto felice fosse nel momento dell’Anschluss la sua condizione di intellettuale, giornalista e scrittore di successo, accolto con entusiasmo nei salotti della Budapest che contava, ignaro di ciò che il destino andava preparando per il suo paese. Eppure l’Ungheria conobbe un periodo di anomala tranquillità proprio quando tutt’intorno infuriava la guerra. Il nazismo tuttavia minò gradualmente ogni libertà di pensiero e di opinione, rendendo gli organi di stampa mezzi di informazione pilotata. La vera tragedia dell’Ungheria inizia dunque, secondo le memorie di Marai, con la dichiarazione di guerra alla Unione Sovietica, e, in seguito, agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. E qui si inserisce un bel ritratto di Laszlo Bardossy, che all’epoca governava il paese, un uomo che aveva sorpreso Marai anni prima per la sua cultura e che era sembrato un sincero liberale. Gli eventi tuttavia trasformarono anche lui, come molti altri in un collaborazionista del regime nazista. Ma il tragico destino dell’Ungheria non avrebbe avuto termine con la caduta di Hitler. L’Unione sovietica impose il suo regime con altrettanto spietato rigore, attaccando quella classe borghese già abbastanza fustigata. Qui Marai si lascia andare ad un’analisi interessante sulle cause che hanno individuato proprio nella borghesia il bersaglio della destra populista prima e della sinistra rivoluzionaria poi. “I detrattori desiderosi di annientare la borghesia portavoce dello squadrismo intellettuale, politico ed economico prima fascistoide e poi comunista, rappresentavano il borghese come nelle vignette satiriche: un grassone dalle dita inanellate…” “Il borghese veniva attaccato da ogni parte, in maniera aperta o velata, come se non fosse altro che uno sfruttatore e un difensore del sistema capitalista. C’è da credere che questi fustigatori della borghesia non avessero mai sentito parlare di come la borghesia europea si è formata, di come ha sviluppato il suo mondo e il suo pensiero, delle grandi esperienze dell’umanesimo e del Rinascimento.” Ed è con rincrescimento che Marai osserva come con il tempo il termine borghese si fosse trasformato in epiteto ingiurioso. Egli conclude queste osservazioni con un auspicio: “ è mia convinzione che, nel mondo massificato, il sistema di produzione capitalistico potrà offrire una vita soddisfacente agli individui e alla collettività soltanto stringendo un’alleanza umanista con il socialismo.” Una realtà da cui siamo ancora molto lontani.
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Tutto è vanità, parola di Schopenhauer
Houellebecq dedica questo breve saggio a quello che considera uno dei suoi maestri. Pur avendo tradito Shopenhauer lasciandosi attirare dal positivismo di Comte, sente per Schopenhauer un affetto e una ammirazione non paragonabili. Quasi che con Comte ci fosse un legame oggettivo e freddo, puramente ideologico, e con Schopenhauer un legame affettivo e profondo. Pure il pensiero di Schopenhauer gli suscita simpatia e il lettore (ignorante e indegno di commentare il saggio nel mio caso) può intuire le sue ragione. Schopenhauer è un asceta della filosofia, è una persona con una profonda onestà intellettuale, uno che cercava la verità a scapito anche dell’originalità, cosa inusuale in una persona estremamente intelligente. Inoltre la sua stessa filosofia è ascetica, con questa condanna della volontà di vivere, tacciata come assurda e irragionevole.
Perciò tutte le cose legate alla volontà di vivere, cioè possibili oggetti del suo desiderio, ad esempio ricchezza e fama, sono aborrite e considerate fuorvianti. Tutto è vanità. La filosofia di Schopenhauer è accostata al buddismo ma, in effetti alcuni mistici cristiani forse hanno perseguito un annullamento della propria volontà (in quella di Dio) non del tutto dissimile. Certo, a un letterato come Houellebecq, piace anche il ruolo dell’arte nella filosofia di Schopenhauer come strumento di conoscenza. L’artista guarda l’oggetto in modo del tutto distaccato dalla volontà, quindi lo contempla in modo disinteressato con una ingenuità che non è concessa all’uomo comune. Schopenhauer distingue nettamente il sublime dall’allettante. Il sublime presuppone il distacco dalla volontà. Addirittura S. considera non riconducibile ad arte l’horror o la letteratura erotica o nelle arti visive la pornografia o l’immagine erotica o mangereccia che incentivano la volontà di fruire di questi beni. Invece tutto può essere bello perché bello significa semplicemente che tutto può essere oggetto di contemplazione. Anzi, probabilmente il bello non deve essere troppo allettante per poter restare tale.
Carino il tentativo del filosofo di definire ciò che rende l’esistenza un po’ più sopportabile.
Un grande sollievo, dice Shopenhauer è l’intelletto. Perché se è vero che un cretino si accontenta dei piaceri sensuali, è anche vero che ci vuole intelletto anche per godere più a fondo di quelli e comunque al cretino i piaceri dello spirito sono preclusi. E’ anche vero che l’uomo oscilla tra il dolore e la noia e se il cretino si annoia più facilmente perché è meno portato alla speculazione, cioè ad auto intrattenersi, è anche vero che sente meno la gioia e il dolore (più frequente della gioia).
A un certo punto Shopenhauer sembra esitare. Gli viene il dubbio che il cretino sia più felice perché nelle sua limitatezza di vedute si accontenta del piatto di pasta e di piaceri più accessibili. Risolve la questione come farebbe, o così pare, il profano dicendo: sia pure ma nessuno gli invidierà tale felicità.
Lasciando perdere Schopenhauer e venendo a Houellebecq, purtroppo il mio giudizio sul saggio è quello del semianalfabeta della filosofia. Ho trovato il saggio allettante, spero che i due filosofi mi perdoneranno il termine, ma un po’ breve. Non mi pare un testo divulgativo perché non discute a fondo del pensiero di Shopenhauer e nemmeno un testo per filosofi che richiederebbe una discussione più spinta.
E’ un omaggio, dal mio punto di vista, a un filosofo cui Houellebecq è legato sentimentalmente. Gli piace non tanto il suo pensiero o meglio non solo quello, in quanto lui si dichiara comtiano pur senza nessuna simpatia per Comte. Di Shopenhauer gli piace l’onestà estrema, il fatto che cerchi la verità e non gli applausi, forse anche il pessimismo e il distacco dal desiderio che lo fa sembrare una specie di santo laico. Gli piace il peso che dà all’arte (con alcuni tagli) e all’artista, caso raro tra i filosofi e la dignità che assume l’intuizione come strumento di conoscenza. Invece l’opposto si potrebbe dire di Nietzsche per motivi simili: un filosofo antipatico con la sua volontà di potenza eccetera.
Certo il testo è curioso: un omaggio senza altre pretese secondo me. Un omaggio soggettivo e non oggettivo legato alla simpatia tra esseri umani.
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il fascino della natura
Otto racconti compongono quest'opera di esordio (2002) di A. Doerr, vincitore del Premio Pulitzer nel 2015 con “Tutta la luce che non vediamo” e ora nelle librerie italiane con “Il collezionista di conchiglie”.
La prima caratteristica che colpisce e cattura in questa raccolta è l'ambientazione: dal reef del Kenya ai boschi di conifere del Montana, dalle coste oceaniche del Maine alla lussureggiante vegetazione della Tanzania, Doerr trasferisce il lettore in luoghi affascinanti e carichi di suggestioni. Il paesaggio è sempre in primo piano nella narrazione, le descrizioni incantano e gli animali sorprendono per la loro facoltà di comunicare con l'uomo e svelare, a chi li sa ascoltare, messaggi e segreti. Gli elementi naturali assumono un significato simbolico, rappresentano un momento di passaggio, sono l'emblema della morte e della rinascita. La natura si fa specchio dei sentimenti degli uomini, della loro sofferenza e del loro desiderio di essere liberi, felici, in armonia con ciò che li circonda. I protagonisti dei racconti sono colti nel momento della crisi, in procinto di attuare un cambiamento radicale della loro esistenza, nell'atto di compiere quella metamorfosi che li farà rinascere creature nuove, consapevoli di aver finalmente trovato la strada giusta da seguire. I personaggi di Doerr sono quasi sempre in viaggio, alla ricerca di qualcosa o qualcuno che li possa appagare, che possa dare un senso alle loro vite e colmare il profondo senso di solitudine in cui si trovano.
I racconti sono tutti molto coinvolgenti, la prosa è ricca di immagini, suoni, colori, profumi, suggestioni. In alcuni testi prevalgono le descrizioni e l'introspezione del personaggio (ad esempio in “Certi treni”e in “Un garbuglio presso il fiume Rapid”), in altri a questi elementi si aggiunge l'azione che coinvolge il lettore in rocamboleschi viaggi e nell'incontro di bizzarri personaggi (come in “Così ci raccontavamo la storia di Griselda” e ne “Il 4 Luglio”).
Mi hanno particolarmente coinvolta tre storie. La prima è quella di Dorotea, adolescente protagonista del racconto “Certi treni”; la ragazza, insieme ai genitori, lascia l'Ohio per approdare sulle coste del Maine dove il padre spera di trovare un lavoro e riscattarsi socialmente. Lì, a contatto con l'oceano, Dorotea scopre e affronta le prime delusioni, si appassiona alla pesca, ma soprattutto ha la possibilità di stupirsi di fronte ad una manciata di sabbia in cui si nasconde un brulicare di vita; i sensi di Dorotea si acuiscono: “Il silenzio le sale nell'orecchio come un'onda e si frange in un arcobaleno di rumori minuscoli: un richiamo di civetta, il suono flebile di risa al falò, i pini che scricchiolano, cicale che stridono, riposano, stridono. Roditori che frusciano tra i rovi. Ciottoli che tintinnano. Foglie che dondolano. Perfino le nuvole che marciano. E sotto, il mormorio del mare avvolto nella nebbia. Questo è davvero un mondo pieno. Trabocca.” (p. 104). Doerr ha la capacità di far sentire il lettore parte di un mondo naturale magico, misterioso, affascinante e perfetto in cui è l'uomo l'elemento negativo, quello che guasta l'armonia.
Il secondo racconto ad avermi colpita è “Il guardiano”: in una terra sconvolta dall'orrore dalla guerra, la Liberia, Joseph, prima ladro e poi anche assassino, dopo aver perso sua madre è costretto a fuggire nell'Oregon dove trova lavoro come guardiano in una ricca tenuta. Lì scoprirà un altro orrore, più subdolo, ma altrettanto devastante: la spietatezza e l'indifferenza degli uomini che lo faranno sentire un escluso, un reietto. Joseph viene licenziato, non ha più nulla per cui vivere, ma quando niente sembra più avere un senso, Joseph pianta dei semi, come faceva sua madre, sul terreno nel quale aveva seppellito i cuori di alcuni capodogli spiaggiati, orrendamente mutilati da chi ne doveva smaltire le carcasse. Il desiderio di riscatto non lo abbandona: in una notte in cui lui stesso si sente senza speranza, salva una ragazza che vorrebbe morire annegandosi nell'oceano. I frutti delle sue piantine, due meloni, gustati insieme a Belle, la ragazza che ha salvato, sono una bellissima immagine finale: il simbolo di due vite che rinascono alla speranza.
Infine l'ultimo, splendido racconto: “Mkondo”. Questo termine significa corrente, flusso, ma è anche il gioco che Maima, in Tanzania, faceva fin da bambina: Maima segue un percorso, una strada, fino alla fine e poi fa un passo in più, va oltre, qualunque sia il pericolo, qualunque sia l'ostacolo. Ward, un ricercatore dell'Ohio, giunge in Tanzania per trovare un fossile, si imbatte in Maima e ne resta affascinato. Maima lo corrisponde, lo sposa, si trasferisce in America dove lui continua a lavorare in un museo di storia naturale. La ragazza, relegata in un ambiente chiuso ed asfittico, deperisce come una pianta senza luce, come le poiane incatenate che lei tenta di tenere in cantina, nonostante le lamentele dei vicini. Passano gli anni, Maima e Ward vedono inaridire anche il loro rapporto fintanto che la giovane donna, ormai fotografa affermata, sceglie di tornare in Tanzania. Ward, infelice senza di lei, deciderà di fare anche lui il suo Mkondo, il suo passo oltre le certezze: la andrà a raggiungere in quei luoghi selvaggi ed incontaminati, potrà sentirsi di nuovo vivo e ritroverà l'amore, senza dover dire una parola, con un fiore in mano.
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" Capo, credo di aver risolto il caso "
Con un misto di curiosità e colpevole ritardo mi sono avvicinato a questa breve raccolta di racconti che ha rappresentato il mio primo incontro con uno scrittore leggendario per qualità e prolificità, Georges Simenon.
Nel 1938 circa Simenon è già una figura di spicco della letteratura francese, quando decide di alleggerire il tono noir e drammatico che da sempre lo aveva contraddistinto per dedicarsi alle vicende tanto poliziesche quanto simpatiche e giocose dell’ Agenzia O.
Il capo ufficiale di questa rispettata agenzia investigativa è l’ impassibile Torrence, ex ispettore della Polizia giudiziaria ed ex braccio destro per ben quindici anni del celebre commissario Maigret.
Ma ormai il buon vecchio Torrence dà il meglio di sé solo a tavola, e il ruolo del detective acuto e deduttivo è affidato al giovane Emile che dietro il fisico allampanato, i capelli rossi e gli occhiali tartarugati nasconde notevoli doti investigative.
Completano il quadro la segretaria Berthe e, in un ruolo marginale, l’ esperto in pedinamenti nonché ex borseggiatore Barbet.
I racconti raccolti nel libro sono quattro : “ Le tre barche della caletta “, “ La fioraia di Deauville “, “ Il biglietto del métro “ ed “ Emile a Bruxelles “.
Quattro avventure all’ insegna di indagini frizzanti tra giovani mogli allegre e conturbanti, esclusive località turistiche, città affollate, preziosi oggetti scomparsi, omicidi irrisolvibili per tutti tranne che per Emile e improvvisati colpevoli da assicurare alla giustizia.
Il tutto senza troppo affaticarsi, preoccupandosi tra una ricerca e l’ altra di trovare il tempo necessario per godere di una tavola ricca di specialità culinarie e generose dosi alcoliche.
La lettura scorre rapida e nonostante la leggerezza delle situazioni affrontate è indice della irrisoria facilità di comunicazione di Simenon, in attesa di affrontare sue letture più impegnative che già mi attendono sulle mensole sempre più affaticate dalla piacevole e massiccia presenza di libri.
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Grande fratello sanguinario
Telecamera 1. Un ascensore di cristallo a forma di diamante scende lentamente lungo i diciannove piani di un lussuosissimo resort californiano, Manderley. Mancano pochi giorni all’inaugurazione e l’efficiente direttrice Tessa controlla dal vetro che sia tutto a posto. Ma è solo un’illusione.
Telecamera 2. Una goccia di sangue risalta sulla soffice moquette bianca della stanza 717. Dietro la porta del bagno, un cadavere sgozzato. Sarà solo il primo.
Telecamera 3. Mentre il catering allestisce una scintillante piramide di flûte da champagne e uno chef francese sbraita, cercando l’ingrediente perfetto per rendere speciale la sua coulis di ciliegie, un uomo imbrattato di sangue si muove non visto tra i corridoi. Quanto tempo passerà prima che si accorgano di essere tutti in pericolo?
Il romanzo d’esordio della scrittrice statunitense Gina Wohlsdorf si distingue indubbiamente per originalità, in particolare per quanto riguarda la tecnica narrativa adottata. L’autrice sceglie di raccontare una storia d’amore e terrore attraverso le diverse prospettive offerte dalle telecamere di sicurezza di un hotel, addirittura suddividendo spesso le pagine in più colonne per mostrare accadimenti simultanei.
Un mosaico di immagini e voci che si susseguono velocemente, in un crescendo adrenalinico, raccontato in prima persona da un narratore misterioso, che tutto sa e osserva. Le febbrili attività del personale, ignaro del pericolo in cui si trova. Il cuore in tumulto di Tessa, alla prese con l’arrivo di Brian, un amore di gioventù tornato dal passato per ricordarle qualcosa che credeva di aver dimenticato. E le macabre e sanguinose mosse di uno spietato killer. A rincorrersi lungo le pagine, una domanda: di chi è questa voce?
Il mistero, in fondo, è tutto racchiuso in questo interrogativo. Perché, non si inganni il lettore, in questo romanzo non vi sono indizi da raccogliere o assassini da identificare. E anche il finale, in tutta sincerità, non potrà che lasciare un po’ deluso il tipico amante dei gialli classici che, arrivato all’ultima pagina, si aspetterà di trovare tutte le risposte. Qui le spiegazioni saranno purtroppo stiracchiate, al limite della credibilità.
Sebbene la serie omicida in uno spazio chiuso possa far pensare ad uno degli enigmi di Agatha Christie, il romanzo si ispira più al genere horror, come testimonia l’omaggio a Daphne du Maurier nella scelta del nome dell’hotel o, più semplicemente, il conteggio finale dei pezzi umani e del sangue versato. Il suo punto di forza è il ritmo davvero serrato e la suspense assicurata. Ciò che manca, invece, al di là degli scricchiolii della trama, è quella componente di tensione psicologica e spessore umano capace davvero di mozzare il respiro e far perdere un battito al cuore. Il risultato finale è un’opera tutto sommato avvincente e scorrevole, una miscela di amore, paura e macabro umorismo di cui però, a mio avviso, si sono perse le giuste dosi degli ingredienti. Il gusto finale è così confuso da risultare un po' insipido.
Indicazioni utili
- sì
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Officina letteraria
Il volume curato da Anne Margaret Daniel, autrice di numerose monografie sull’autore e insegnante di letteratura presso la New School di New York, raccoglie gli ultimi racconti inediti dello scrittore. Si tratta prevalentemente di brevi storie e di alcuni soggetti per il cinema resi efficaci da uno stile di scrittura indubbiamente contaminato dagli interessi prevalenti all’epoca, da un vissuto problematico, ma soprattutto da uno sforzo creativo oscillante tra il pragmatico desiderio di vendere a riviste per garantire cure psichiatriche adeguate alla sua Zelda e quello più nobile di assecondare una scrittura matura capace di rivelare un’identità altra rispetto a quella congelata dai suoi più noti romanzi.
La ragione del loro essere inediti è tutta qui: il mercato editoriale non era pronto per il nuovo Fitzgerald, morì prematuramente derubato della sua nuova maturità artistica. Tacciati come scritti “insoddisfacenti”, rimandati al mittente per essere rimaneggiati ad uso e consumo del vasto pubblico, furono degne vittime di un mercato editoriale spietato incapace di andare oltre il cliché preconfezionato che si voleva attribuire all’icona degli Anni Ruggenti.
Il volume è estremamente curato e ogni racconto è preceduto da una nota introduttiva che permette di contestualizzare la genesi di ognuno di essi consentendo al contempo, grazie anche ad vasto repertorio fotografico, di ripercorrere gli ultimi anni di vita di Fitzgerald. Al lettore che conosce i suoi romanzi questi scritti consegnano una degna pietra di paragone e un tassello conoscitivo imprescindibile anche se spesso appaiono irrisolti, frammentari e a tratti involuti per cui ci si ritrova a chiedersi cosa avrebbe potuto ancora regalarci se la sua penna avesse potuto esprimersi oltre il tempo concessogli.
Alcuni racconti riflettono il senso di delusione verso il mercato editoriale e verso l’industria cinematografica, altri affrontano la malattia mentale ( da solo “Incubo – fantasia in nero- ” , ambientato in una clinica psichiatrica, vale l’intero volume), altri sono ispirati alla povertà conseguente la Grande Depressione, al razzismo, ai diritti civili.
È quasi paradossale constatare insieme allo scrittore l’assurdità insita nel mercato che lo osannava negli anni Venti come meritevole scrittore di racconti e lo pagava profumatamente mentre lui si definiva “imbrattacarte” e sorrideva del “ciarpame” che il Post pubblicava.
In sintesi : un volume per appassionati e cultori o anche per lettori curiosi.
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Bentornato Benjamin Malaussène..!!
“Io sottoscritto Benjamin Malaussène vi sfido, oggi, chiunque voi siate, ovunque vi nascondiate, quale che sia il vostro grado di indifferenza alle cose di questo mondo, a ignorare l’ultima notizia appena uscita, la notiziona che farà discutere la Francia e crepitare i social”: Georges Lapietà, uomo d’affari nonché ex ministro e consulente del gruppo LAVA, è stato rapito e sarà “restituito” al mittente soltanto a seguito della corresponsione della somma di Ventidue milioni ottocentosettemiladuecentoquattro Euro a titolo di riscatto.
Ma dove eravamo rimasti e da dove ripartono le vicende? Precisiamo innanzi tutto che il rapimento del politico è solo uno dei misteri che si susseguono nell’ultima opera di Daniel Pennac. Benjamin, che lavora ancora per le Edizioni del Taglione, casa editrice votata al vero e diretta dalla Regina Zabo, ha realizzato il suo sogno d’amore con Julie, figlia del governatore coloniale Correcon nonché giornalista d’assalto, e trascorre spensierato le sue vacanze nel Vercors ove è sita la casa di famiglia. Nei periodi in cui soggiorna a Parigi, ad accoglierlo vi è la vecchia ferramenta, luogo dove tutti i pargoli sono cresciuti. Verdun è diventata un giudice di grande fama e terrore specializzata nel diritto dello sport, mentre E’ un angelo, detta Nange, Maracuja, detta Mara, e il Signor Malaussène, detto Sigma, sono partiti con delle ONG per aiutare i popoli del quarto mondo (li riscopriamo, a tal proposito, rispettivamente in Africa, in Asia, in Sudamerica). Ed ancora, Rabdomant, commissario in pensione che vive nel sud della Francia, è stato sostituito dal genero Legendre e sta scrivendo il libro “Il caso Malaussène”, opera/trattato di filosofia del diritto che analizza l’errore giudiziario partendo dall’episodio Malaussène. Alceste, scrittore di punta delle Edizioni del Taglione, a sua volta sta scrivendo di nascosto in un fienile del Vercors un libro; un libro molto pericoloso (che ha già arrecato diversi problemi a lui e alla sua famiglia) dal titolo “Mi hanno mentito”. Ritroviamo ancora, inoltre, il cane Julius, di razza molteplice, di odore sostenuto e temperamento indipendente, che non sarà certamente il primo Julius nella vita dei Malaussène e neanche il secondo, eppure a guardarlo camminare sembra proprio lui…
Nato dalla penna di Daniel Pennac nel 1991, Benjamin Malaussène, torna in libreria con una nuova appassionante avventura. Una settima indagine, questa, che lo vede alle prese non solo con il mondo del crimine, non solo con il rapimento di Georges Lapietà ma anche con tutte quelle diavolerie di cui la modernità ha fatto voce portante. Ed è così che tra personaggi adulti ed invecchiati, colpi di scena ed ambientazioni straordinarie, il buon caro Malaussène dovrà vedersela con social, smartphone, talk show, scomparse, mazzate, forze dell’ordine e Giustizia che procedono mano nella mano in un contesto dove tutti mentono a tutti e reciprocamente, e chi più ne ha più ne metta.
Una settima investigazione non così scontata viste e considerate le ferme posizioni tenute dall’autore negli anni, posizioni che lo vedevano risolutamente convinto nel suo non voler proseguire le avventure di una della tribù più note al grande pubblico. Fortunatamente, per gli appassionati, il francese ha ceduto alle richieste e all’insistenza dei lettori che attendevano con desiderio il ritorno in libreria di questi multiformi protagonisti.
Con “Il caso Malaussène. Mi hanno mentito”, primo volume di una duologia, vi troverete di fronte ad un testo colorato, in continuo movimento, caotico; uno scenario ove la confusione regna sovrana. Irriverente, rutilante, e talvolta ai limiti del fuori tema, l’opera scorre rapida tra le mani dell’avventuriero conoscitore il quale, è condotto e guidato tra le vicende, da uno stile accattivante, teatrale, sfacciatamente goliardico.
L’enigma si articola grazie a tre protagonisti indiscussi: poliziotti, giudici e ladri. La trama si snoda quindi tra un giallo e un mistero (che fa acqua da tutte le parti) all’interno del quale si insinua Benjamin Malaussène, il capro espiatorio perfetto. In tutti i romanzi firmati Pennac ed aventi quali protagonisti questa strampalata combriccola (Il paradiso degli orchi, La fata carabina, La Prosivendola, Signor Malaussène, La passione secondo Thérèse), infatti, tema centrale delle vicende era un’inchiesta in cui i bombaroli, i rapitori e i ladri puntualmente riuscivano a farla franca a spese di Benjamin e del suo essere sempre al corrente dei fatti, volente o nolente, a causa di quell’immancabile coinvolgimento determinato da quella turbolenta famiglia che ora ritroviamo cresciuta.
In conclusione, un testo dove il caos regna sovrano, dove apparentemente non vi è una logica espositiva e dove dietro l’aspetto esilarante e ironico si celano molteplici spunti di riflessione sulla società attuale. Tra le righe si evince, in merito, un’ottima descrizione/analisi di questa e dei suoi corollari.
Adatto a chi conosce la saga e a chi non nutre remore nei confronti del “disordine” narrativo. Detta caoticità è di fatto il punto forte e debole dello scritto. Quest’ultima può indispettire chi non conosce il personaggio, può far perdere il filo e portare il lettore a chiedersi quali siano le reali intenzioni del creatore degli eventi, può dunque sdubbiarlo tanto da indurlo all’abbandono di un elaborato stilisticamente di qualità o, al contrario, può conquistarlo indiscutibilmente.
«[..]Ascoltate i ragazzi senza scoraggiarli. In fondo adesso tocca a loro. Lasciare che si godano le loro illusioni, senza dirgli che sono le erbe aromatiche di cui è cosparso il grande abbacchio finanziario» p. 34
«La prospettiva immensa e silenziosa che si apre sull’intero massiccio ha fatto di me, uomo da asfalto e da decibel, un amante del silenzio, del cielo e della pietra. Julie e io abbiamo regalato questo paesaggio ai bambini per tutti gli anni della loro crescita. L’immensità si addice all’infanzia, che è ancora abitata dall’eternità. Passare le vacanze a oltre mille metri di altitudine e a ottanta chilometri da qualunque città significa alimentare i sogni, aprire le porte alle storie, parlare con il vento, ascoltare la notte, entrare in contatto con gli animali, dare un nome alle nuvole, alle stelle, ai fiori, alle erbe, agli insetti e agli alberi. Significa dare alla noia la sua ragione di essere e di durare» p. 41
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“Lo Stagno delle annegate”
Jules credeva di essere riuscita a lasciarsi il passato alle spalle, una volta per tutte. Non avrebbe mai pensato di dover far ritorno a Beckford per far fronte alla morte di Nel, la sorella con cui da anni non aveva alcun rapporto, rinvenuta priva di vita nel fiume. E per di più non può abbandonare Lena, la nipote quindicenne – e problematica – che, visti i rapporti pregressi con la consanguinea, non aveva ancora avuto modo di conoscere.
Tante sono le circostanze da chiarire. Nel è sempre stata un’ottima nuotatrice, il fatto che si sia buttata dal promontorio non convince, a maggior ragione in considerazione di ciò che l’ha costantemente legata a questo luogo. Ella, infatti, non solo si è sempre sentita un tutt’uno con l’acqua come se vi fosse tra lei e questo elemento un vincolo indissolubile, un richiamo irresistibile, ma è stata anche affascinata, sin dal primo momento, dal mistero che si cela dietro al canale.
Quest’ultimo, detto anche “Stagno delle annegate” è stato il palcoscenico nonché il teatro ove sono stati rinvenuti i corpi di molteplici donne morte in circostanze misteriose, presuntivamente per suicidio, di fatto anche per omicidio (basti pensare ai rituali che avevano quali protagoniste supposte streghe). Nel, a tal proposito, aveva dato avvio ad una ricerca serrata atta a risolvere il mistero, un’analisi, con tanto di foto e riprese dal promontorio, che avrebbe costituito parte integrante del libro che avrebbe di lì a poco pubblicato. Che la ricostruzione di questi decessi possa aver infastidito qualcuno? Che in realtà dietro queste morti accidentali si nasconda un assassino? La stessa Louise Whittaker sembra godere di svariati motivi per non apprezzare le parole della romanziera amatoriale, per non approvare il suo lavoro. Katie, sua figlia, non è altro, di fatto, che una delle vittime dello stagno. E la strampalata fattucchiera Nickie, a cui nessuno vuol credere per i suoi precedenti penali, cosa sa in realtà? Qual è il segreto che ciascun personaggio nasconde dietro la facciata del perbenismo? E perché Julia rinnega così tanto il suo trascorso? Cosa l’ha traumatizzata? Qual è il ruolo nella vicenda di Robbie Cannon fantasma dei tempi dell’adolescenza?
“Dentro l’acqua” segna il ritorno in libreria di Paula Hawkins autrice nota al grande pubblico per “La ragazza del treno”, successo planetario ancora oggi oggetto di discussione e acclamazione.
Con questo nuovo scritto ella ci propone un giallo piacevole, ben scritto, ma non particolarmente originale, un testo che grazie all’alternanza di più voci narranti e flash back tra ieri e oggi, riesce comunque ad invitare chi legge a proseguire nello scorrimento del volume.
Certo, lo stile è e resta quello de “La ragazza del treno”, tanto da un punto di vista narrativo, quanto proprio a causa di questo denominatore comune di voler mutare gli io parlanti, quanto grazie a questa protagonista, Julia, con un vissuto problematico e caratterizzato dal non accettarsi perché in sovrappeso, con una inclinazione all’alcool come Rachel, quanto ad uno sviluppo della trama intuibile, alla lunga.
In conclusione, “Dentro l’acqua” si presta ad una lettura rapida e non impegnativa risultando essere adatto, seppur non possa gridarsi al capolavoro, a chi ama il genere e a chi ha apprezzato l’impostazione presente nel tomo antecedente. Chi al contrario non ha stimato l’opera che ha reso celebre l’inglese, difficilmente riuscirà a gradire questo nuovo elaborato.
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Realtà o fede (politica)?
Nel suo romanzo Barnes affronta il problema del processo al leader di un paese comunista dopo la caduta del regime. L’ex leader Pektanov è processato e l’accusa è guidata da Solinsky, il cui padre era stato alleato e poi avversario politico di Pektanov. La condanna al padre di Solinsky era stata soprattutto l’allontanamento. Niente di tutto quello che accadeva in altri regimi simili: l’avversario si era infatti dedicato felicemente all’apicoltura dopo la cacciata dal partito.
Devo dire che il romanzo è ben scritto, interessante, i dialoghi arguti e ironici.
Il libro per il tema e una vaga somiglianza nella struttura si affianca a un altro romanzo, Buio a mezzogiorno, che è di ben altra statura per la bellezza e la profondità e l’estrema onestà intellettuale dei contenuti, per cui risente dell’inevitabile confronto.
Per quanto si potrebbe condividere l’idea di fondo, implicita e non espressa chiaramente, che gli intellettuali non salveranno il mondo né cambieranno la natura dell’uomo, e che i sistemi politici che si inventeranno avranno sempre al loro interno chi si fa i propri interessi e simili magagne, tuttavia questo argomento non dovrebbe essere sufficiente ad assolvere i grandi crimini/difetti strutturali di un regime ma solo quelli minori. A mio parere, il processo contro Pektanov risente della debolezza degli argomenti dell’accusa, debolezza che trovo poco accorta in un grande scrittore come Barnes. I fatti contestati sono alcuni troppo insignificanti (questioni da pochi spiccioli ) e altri evidentemente falsi. In modo un po’ troppo evidente: ad esempio l’accusa di essere responsabile dell’omicidio della sua stessa figlia. In periodi di purghe e delazioni si potevano trovare argomenti ben più solidi con i quali confrontarsi e di cui far parlare i personaggi.
Ma, nonostante questo, il libro è certamente interessante.
-Dunque permettimi di darti un piccolissimo consiglio, perché, vedi, noi gli abbiamo dato salsicce e cose più elevate. Voi nelle cose più elevate non credete, però gli negate anche le salsicce. Nei negozi non ne è rimasta nemmeno l’ombra. E allora che gli date a sta gente?
- Gli diamo libertà e verità-. Parole che nella sua bocca risuonarono tronfie, ma era ciò in cui credeva e allora perché non dirle ad alta voce?
-Libertà e verità!- ripetè Pektanov con tono di scherno. –Perciò sono queste per voi le cose elevate! Date alle donne la libertà di uscire dalle cucine e marciare in Parlamento per dire quella verità che non ci sono salsicce nei negozi. Ecco cosa vi dicono le donne. E questo lo chiamate progresso?
Non so, Barnes è sicuramente un intellettuale, una persona intelligente. Devo dire che però Koestler affiancando il cuore al cervello raggiunge delle profondità di pensiero infinitamente superiori. Ciò non toglie che un libro non banale e a tratti pieno di ironia sia sempre apprezzabile, anche se avrei voluto vedere una ricerca un po’ più “vera” date le capacità di Barnes.
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Ninna nanna ninna oh, questo bimbo a chi lo do...
E’una buia notte di pioggia tra i tornanti, i tergicristalli faticano a sgombrare il vetro.
Patrick ferma la macchina per soccorrere l’auto incidentata.
Lei lo riconosce, lo avvisa di non andare.
Lui apre il baule, scopre con orrore quello che non avrebbe mai immaginato. Chiama i soccorsi e riparte. Sparira’. Spariranno tutti.
Wulf Dorn ci ha abituato ad inquietanti thriller psicologici, in questo ultimo lavoro decide di sperimentare qualcosa di diverso, di cui si dichiara molto soddisfatto nelle note finali. Io no.
L’incipit e’ veramente eccellente, degno del miglior Stephen King. Poi pero’ non c’e’ ombra di Stephen e neppure di King.
Non basta lanciare una bomba narrativa, va poi seguita la sua traiettoria, deve avere una destinazione del medesimo calibro. Evidentemente incapace di sostenere la sua creatura, l’autore si appoggia alla realta’, che ben sappiamo essere spesso peggiore dell’invenzione. Ma passi l’imbastire il corpo del libro su un fatto reale, qui si tratta di abuso. Non bastassero le tragedie che ci bersagliano giornalmente dalla cronaca, ne Gli Eredi troviamo una sorta di proclama contro gli orrori del mondo, piu’ che un impianto di fiction.
Il testo scorre ma mi ha annoiata e nauseata, lo stesso effetto che ormai avverto leggendo un quotidiano qualunque. Sara’ pure etico l’intento, ma io cercavo evasione: se la scritta Wulf Dorn lampeggia altrove a caratteri fluo degni del peggior casino’ di Las Vegas, questo thriller e’ un cero in un involucro rosso dallo stoppino troppo corto.
Manca d’impatto, debole, privo di suspense, la parte finale e’ un castello di carte ammuffite raccattate alla meno peggio e impilate davanti a un phon acceso.
Herr Dorn, squadra che vince non si cambia, torni a scrivere quel che sa scrivere molto bene.
Uccello in gabbia, vola via
Lansdale mi piace, e un bel po'. Il suo modo di scrivere ha un non so che di unico. Il suo stile è semplice eppure efficace, ironico, e le pagine scorrono via come il vento. Certo, 220 pagine non sono tantissime, ma questo libro l'ho letteralmente divorato.
In fin dei conti, quella di "Io sono Dot" non è certo una storia sorprendente né troppo intricata, eppure, raccontando la vita quotidiana di una semplice ragazza di diciassette anni, Lansdale è riuscito a tenermi incollato alle pagine. E' anche in questo che si valuta un buono scrittore.
Dot, come dicevo, è una semplice ragazza di diciassette anni, che vive una vita abbastanza stentata in una roulotte insieme a sua madre, sua nonna e suo fratello minore Frank. Suo padre è uscito di casa per comprare le sigarette cinque anni prima, e non ha fatto più ritorno. Dot lavora come cameriera al "Dairy Bob", dove serve la cena ai clienti seduti in macchina, sfrecciando su un paio di pattini. E' così che guadagna da vivere per sé e per la sua famiglia. Non è certo uno status invidiabile, eppure Dot ha dalla sua un carattere forte, talvolta fin troppo scontroso e diffidente, temprato dalle difficoltà affrontate fin da quando era piccola.
Eppure, è determinata a non fare gli stessi errori di sua madre e sua sorella, che hanno annullato sé stesse in nome di un "amore" rivolto a un fuggiasco e a un violento ubriacone. Dot vede per sé un futuro diverso, e l'arrivo di suo zio Elbert le darà quella spinta e quel sostegno di cui aveva sempre avuto bisogno ma che non aveva mai ricevuto. Conoscerà l'amore, quello vero, l'amicizia, e metterà alla prova sé stessa come non aveva mai fatto prima di allora.
Dot non si rassegna alla mediocrità, non accetta di accontentarsi di quello che il mondo le ha messo davanti dalla nascita. Lei proverà ad avere qualcosa in più e sa che per averlo dovrà lottare, sgomitare, sanguinare.
Ma in fondo, non è quello che proviamo a fare tutti?
"Penso che siamo tutti responsabili di ciò che facciamo. Non è colpa degli altri. Non è sempre colpa della genetica, e di come ci hanno fatto crescere, perché ci sono tante persone nate in contesti orribili, che hanno subito ogni sorta di torti e non per questo sono diventate spregevoli. Scegliamo di essere quel che siamo. Diventiamo quel che vogliamo essere."
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"Tutto come dentro un sogno"
Recentemente è stato pubblicato in Italia "Tocca l'acqua, tocca il vento" di Amos Oz, grandissimo scrittore israeliano.
Si tratta di un'opera dei primi anni '70, agl'inizi carriera dell'allora giovane autore. Il grande ritardo della nostrana operazione editoriale non mi stupisce affatto in quanto siamo di fronte a un testo minore che solo parzialmente soddisfa le aspettative di chi ama gli scritti di Oz. In queste quasi duecento pagine succede poco; si filosofeggia "sul rapporto fra male politico e male metafisico" e su altre questioni più o meno filosofiche, senza però scendere in profondità inesplorate, benché qua e là si possa raccogliere qualche perla di saggezza, come "Il vero pericolo è sempre interiore" , capace di farci riflettere.
Aleggia un'atmosfera fiabesca, tanto che si può appunto parlare di 'realismo fiabesco', definizione basata su un paradosso linguistico (in campo artistico, le frontiere giungono persino al 'realismo isterico' di certa letteratura americana).
Questa scelta però non mi pare del tutto riuscita perché sembra annacquare una vicenda che inizia in un momento fra i più tragici del '900 , non l'invasione tedesca della Polonia, e si dipana fin oltre il dopoguerra, con digressioni fantasiose che smorzano la scorrevolezza della lettura. Diciamo che è riuscito meglio R. Benigni nel cinema con "La vita è bella".
Un orologiaio ebreo appassionato di matematica e di musica fugge dalle atrocità della Storia, lasciandosi dietro la moglie. Lui scappa fra boschi e foreste fino a raggiungere le agognate terre d'Israele (un po' com'è realmente successo al grande scrittore Aharon Appelfeld). Lei parallelamente vive altre peripezie. Non raccontiamo altro, meno che mai il finale.
Il vero pregio del libro è la scrittura, melodiosa ed evocativa, che già preannuncia la bellezza dello stile del miglior Oz, la sua capacità di cogliere poeticamente la realtà e di spalancare porte tramite l'intuizione di immagini colte nelle loro autenticità nel descrivere qui "la potenza della musica o la quiete dei boschi", nell'aggiungere "silenzio al silenzio". "Tutto come in punta di dita. Tutto come dentro un sogno".
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letteratura israeliana
L'amore non salva e non ripara, ma accoglie.
Forse dovrei smetterla di leggere libri che mi sconquassano...
Ed invece torno sempre qui, in queste letture che mi sbriciolano in mille pezzi.
Daria è figlia di una madre "per caso", una madre tiepida che non brilla certo per istinto materno.
O forse è semplicemente ferita e nasconde dell'irrisolto.
"A mamma importava poco di me. Madre per caso. Madre perché tutte, prima o poi, hanno figli. Madre purtroppo. Madre nonostante."
Lei, invece, all'età di 25 anni non vuole nient'altro se non un figlio...ma non riesce, non arriva.
È giovane, potrebbe ancora aspettare, provare, crederci...ma il suo desiderio si fa urlo, non riesce ad ignorarlo e quindi, con il marito Andrea, adottano Giada, di appena sei mesi.
("Quando sei venuta a prendermi era perché volevi una bambina o perché mi volevi bene?")
Giada, all'età di 25 anni (la stessa in cui Daria ha sentito forte il bisogno di maternità) ha però un'altra esigenza che le urla dentro: andare alla ricerca delle proprie origini.
Ma s'incaglia, s'inceppa e si arrende ai fantasmi che si nascondono dietro la parola "abbandono".
Chiede scusa e se ne va. Per sempre.
E il mondo di Daria finisce.
Si lascia travolgere, sommergere, inghiottire dal dolore, perché le sembra l'unico modo per restare in contatto con sua figlia, per non perderla davvero.
Quella figlia che l'aveva salvata e che credeva di aver salvato.
Questa è una storia di dolore e di perdita, di morte e della sua elaborazione, ma anche una storia sull'importanza delle origini come fattore fondamentale per poter avere e mantenere una propria identità, per trovare una collocazione nel mondo.
È una storia sull'amore che, per quanto immenso, non ricuce lo strappo di un abbandono.
L'amore non salva e non ripara...ma accetta, accoglie, soccorre.
Ma l'amore è anche necessario, ed è tutto quello che resta, dopo.
La scrittura è asciuttissima, frammentata: capitoli brevi, paragrafi brevi, brevi frasi.
A volte si riavvolge su se stessa, per sottolineare la tragicità di un momento, di un pensiero, di una parola.
Tutto ridotto all'osso, come se l'autrice non volesse mettere troppe parole fra te e il dolore, per fartelo arrivare prima, così...nudo, pulito, al netto di tutto il superfluo.
Per quanto mi riguarda è arrivato a destinazione in tutta la sua potenza.
Ed ora, raccolgo i pezzi e vado avanti...
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Politica, sesso, soldi gli ingredienti onnipresent
Le mani su Parigi - Dominique Manotti
Libro appartenente al genere francese chiamato POLAR (poliziesco-noir) scritto da una maestra di lungo corso come la Manotti ed edito in Italia per la seconda volta da Sellerio (prima edizione di Tropea 2007) e tradotto da Daniele Barzaghi.
1985, Una vendita di armi all’Iran durante la guerra con l’Iraq, un aereo che scompare, prostitute d’alto bordo che fanno da tramite fra potere politico e faccendieri di ogni risma, banchieri mediorientali, giornalisti politici dal ricatto facile, la polizia politica e la brigata criminale che si affrontano in un duello che lascia sul terreno molti morti.
Trama fitta di personaggi e accadimenti, ambientato in un contesto storico molto ben descritto e delineato dove Dominique Manotti, insegnante di Storia contemporanea e attivista politica, intesse un complesso e impegnato romanzo sulla Francia all’epoca di Mitterand. Un noir di denuncia verso una società corrotta e scorretta, vincitore del premio Roman Noir al festival di Cognac e del premio Mystère della critica.
Protagonista positiva della storia Noria Ghozali una poliziotta magrebina, giovane, non bella e con i capelli sempre legati in una crocchia alla quale affidano i casi più noiosi ma che inaspettatamente si ritrova coinvolta in un caso che farà tremare le fondamenta delle istituzioni francesi: una puttana di lusso viene trovata morta, uccisa da un proiettile alla gola. Cosa hanno a che fare i missili con questo omicidio?
Nel romanzo tra i vari personaggi spicca questa poliziotta araba che si potrebbe assurgere a simbolo di riscatto degli immigrati di seconda generazione provenienti dalle banlieu e determinati ad avere successo in quello che fanno, da contraltare fa Bornand e il sistema politico francese sempre più corrotto, farraginoso e fuori da un vero controllo dove basta avere un po’ di potere per riscuotere enormi tornaconti personali e sentirsi intoccabili.
La Manotti scrive abilmente con uno stile incisivo e asciutto, ricco di dettagli e informazioni da memorizzare per seguire il filo e gli sviluppi delle vicende. Forse la quantità di informazioni e di intrecci rende la trama un attimo complicata con alte probabilità di perdere il filo del discorso. Inoltre lo spessore dei personaggi è minimo, in quanto non vengono assolutamente approfonditi eccezion fatta per la poliziotta araba. Un susseguirsi di eventi a ritmo frenetico che alla fine lascia ben poche emozioni al lettore.
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E' tutto niente ragazzi, è tutto niente.
Due uomini si incontrano in questo libro, e si parlano.
Mauro Corona e Luigi Maieron, il primo scrittore e l'altro musicista.
Ciò che li accomuna e fa da collante alla loro amicizia domina ed occupa interamente la copertina del libro: la montagna, avvolta nel candore della neve, la cui bianca monotonia è interrotta solo da impronte, orme di piedi dirette verso l'alto, in salita.
Perchè quella montagna, il Col Nudo, la punta più alta delle Prealpi venete, è sempre stata dinanzi ai loro occhi sin dall'infanzia: sono cresciuti alla sua ombra, affascinati dalla sua imponenza e rapiti da quella vetta meravigliosa.
Inevitabile cedere al richiamo di quella scalata, un'impresa necessaria nonostante il rischio, malgrado i pericoli, per inseguire un sogno: raggiungere la vetta significava scoprire un mistero, 'Cosa c'era lassù? La luce del primo mattino, il vuoto, il cielo'.
Ma sono tante le storie da raccontare, non solo storie di scalatori e di imprese ai limiti del possibile ma soprattutto storie di vita quotidiana, di uomini e donne dalla tempra più dura della roccia carsica, gente povera, semplice, montanari, la cui esistenza è stata esemplare perchè ricca di quei valori e virtù così rari nella società di oggi.
E' la montagna che si racconta attraverso le storie dei suoi abitanti e tenta di educarci alla vita, al reale valore della vita, attraverso le parole dei due autori.
Ed è bellissimo ascoltarla, perchè si esprime con parole semplici, intrise di saggezza popolare, con parole che lasciano il segno, che pesano nell'anima e si fanno sentire senza dissolversi come fumo.
Racconta di donne caparbie, coraggiose, che seppur schiacciate dalla violenza fisica e psicologica di una mentalità gretta e fortemente misogina hanno saputo opporsi trasformando la disperazione in una silenziosa e dignitosa reazione.
Racconta di uomini che non si sono arresi quando il destino li ha privati di tutto; uomini che non hanno comunque rinunciato alla vita ma si sono aggrappati ad essa, con le unghie, guadagnando giorno dopo giorno la risalita, imparando ad apprezzare la ricchezza delle piccole cose.
Perchè è vero: "Si può vivere con poco, quasi niente, considerando quel poco quasi troppo."
E' un modo di pensare in forte contrapposizione alla tendenza attuale che esalta l'io, che sottomette "l'etica del fare all'estetica dell'apparire"; viviamo in un mondo in cui tutti vogliono primeggiare, in cui tutti hanno bisogno di sopraffare gli altri per sentirsi gratificati creando inevitabilmente rancori, invidie e nemici.
"Tutti i malanni dell'era moderna sono generati da trappole che ci vengono imposte e che in qualche modo accettiamo di assecondare. La trappola dell'amore, la trappola del desiderio, della ricchezza, del successo. In pratica la trappola dell'apparire: se ci vengono a mancare queste cose cadiamo annientati."
Bisognerebbe invece imparare ad arrivare secondi, imparare 'ad accordare il proprio comportamento con quanto batte nel proprio cuore' e non con quello che piace agli occhi degli altri, bisognerebbe imparare a difendere la propria posizione piuttosto che conquistare posti nella classifica del 'più', il più bello, il più potente, il più ricco.
Questa è la filosofia di vita che la montagna vuole trasmetterci, fatta di concetti semplici e non pensieri astrusi e contorti, come quelli dei grandi pensatori di oggi che non riescono ad aiutare il prossimo con ciò che dicono e che predicano solo per vanità e successo.
"Se parti per un viaggio non darti aspettative, vai e basta; se ami una persona non aspettarti per forza la ricevuta di ritorno. E' tutto precario e provvisorio, la vita è questa. Ed è anche la sua meraviglia, ma possiamo vederla soltanto uscendo dalla grotta del nostro narcisismo, del pensare che tutto ci sia dovuto."
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Bello ma esageratamente lento
“Papà è rimasto fermo e silenzioso a studiare l’armadio per un tempo infinito. Lo ricordo perché a me scappava la pipí, ma non volevo andare a farla perché a quel punto, a furia di vedere sparire la gente, avevo paura che uscito dal bagno non avrei trovato più nessuno”.
Ercole è un ragazzino torinese di quattordici anni, la vita gli ha fatto mancare tanto ma gli ha anche donato una sorella, Asia, su cui poter contare. Un’infanzia costellata da delusioni lo porta a fare scelte che condizioneranno la sua vita. Un amore che nasce, uno che ricompare, un padre a cui badare e la vita che cambia e spesso noi, non siamo pronti a seguirne tutte le sue evoluzioni.
Fabio Geda racconta una storia che può essere simile a molte altre “In fondo, l’unico vero problema che io e Asia abbiamo mai avuto, quand’eravamo piccoli, erano gli agguati delle persone che cercavano di aiutarci; perché di fatto la nostra vita era così polverosa e irregolare che fare in modo che non se ne accorgesse nessuno era impossibile”, quello che lo contraddistingue è lo stile e il punto di vista che l’autore decide di seguire.
“Se penso a quante cose avevamo da dirci e a come evitavamo accuratamente di dirle c’è da non crederci. È straordinaria la nostra capacità di fare finta di niente, di soffocare le domande; perché per quanto non sapere possa farci stare male, c’è sempre la possibilità che la risposta possa farci stare peggio”.
Una storia davvero molto triste e dura che però vista con gli occhi di un adolescente fa un effetto diverso. Gli escamotage per non farsi trovare e vedere dalle “persone di cuore” mettono in luce come spesso il bene che gli altri vorrebbero per “noi” non è poi quello che “i più piccoli” cercano.
Ho apprezzato il protagonista anche se la sensazione di "lentezza" accompagna tutta la lettura. Altra cosa che personalmente non ho apprezzato è la scelta di non evidenziare la differenza fra un discorso diretto e uno indiretto, Geda non fa distinzione e se questo all’inizio può contraddistinguere il suo stile alla fine stanca il lettore o almeno me.
Il testo, a parte queste cose che ho evidenziato, è comunque piacevole e interessante. Ricordo che il protagonista è un adolescente e come tale il linguaggio scelto dall’autore fa riferimento a quell’età.
Vi lascio con questa frase:
“Sapevo di avere Viola alle spalle, le sentivo il fiato e intravedevo gli spruzzi del remo nell’acqua. E sapevo che non mi sarei dovuto voltare a cercarla. Procedevamo allo stesso ritmo, negli occhi la partenza, che quella la si conosce sempre, e nel respiro una quieta fiducia, come quella di certe anime scalze mentre risalgono i fiumi in cerca della sorgente”.
Buona lettura!
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A ferro e sangue
Jo Nesbø, uno degli autori di crime più acclamati, fa il suo ritorno insieme al suo personaggio più amato: Harry Hole. La fama che avvolge lo scrittore norvegese non è un caso, perché senz'altro è molto abile nel tenere in tensione il lettore, molto bravo a gestire lo svolgersi di situazioni intricate senza contraddizioni e non scadendo troppo nel banale.
"Sete" è un thriller che scorre in maniera molto piacevole e non si risparmia su colpi di scena perlopiù inaspettati.
Dunque, il famigerato autore norvegese e il suo caro Harry Hole fanno il loro rientro in scena, e non deludono le aspettative.
Harry Hole sembra avere ormai chiuso con la dura vita del detective. Omicidi macabri e sanguinosi sembrano non essere rimasti altro che un ricordo: è sposato con la donna che ama, Rakel, e insegna alla scuola di polizia. Dopo tanta sofferenza ha trovato finalmente la pace in una vita tormentata oltre ogni dire. Eppure, per Harry Hole, vivere questa felicità è come camminare sul ghiaccio scricchiolante, e la paura che questa finisca e di finire nell'acqua gelida è sempre presente e angosciante.
Difatti, i peggiori incubi di Harry torneranno a tormentarlo e uno di questi ha un nome: Valentin Gjertsen. L'uomo che non è riuscito a catturare, l'unico che gli sia sfuggito nei lunghi anni di una carriera gloriosa è uscito dal suo nascondiglio e inizia a mietere vittime tra giovani donne in tutta Oslo. Sui corpi delle vittime, oltre ai segni di violenza sessuale, delle ferite profonde provocate dai morsi di una dentiera di ferro affilato. In cosa si è trasformato Gjertsen?
Harry Hole è costretto a rimettersi in gioco, a riunire una squadra che lavori in parallelo alla polizia per frenare l'onda di terrore che sta travolgendo Oslo. Una Oslo prigioniera nelle grinfie del "Vampirista".
"Se vuoi essere ricordato come un buon re hai due possibilità. Essere il re dei bei tempi, avere la fortuna di sedere sul trono in anni di buoni raccolti, oppure essere il re che guida il Paese fuori dai tempi di crisi. E se non sono tempi di crisi puoi fingere, provocare una guerra e dimostrare al paese in quale profonda crisi precipiterebbe se non entrasse in guerra. In questo caso bisogna dipingere il diavolo più brutto di quello che è. Può anche essere una guerra piccola, l'importante è vincerla."
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Un De Giovanni diverso ed è solo l’inizio…
Il professore Marco Di Giacomo e il suo assistente Brazo, specializzati in Storia delle religioni, non sono proprio il fiore all’occhiello dell’Università di Napoli. In particolare, il professore è stato più volte ridicolizzato per le sue idee e le sue ricerche un po’ fuori dagli schemi. Come se i problemi per i due non fossero già molti, gli viene anche affibbiato come compito quello di scortare, in giro per Napoli, la giornalista tedesca Ingrid. Visto che i due non sono molto “pratici” in questioni di donne, il professore decide di coinvolgere anche la nipote, Lisi.
I quattro si ritrovano partecipi di fatti che metteranno le loro vite su binari diversi.
De Giovanni inizia questo nuovo ciclo, abbandonando completamente lo stile dei precedenti. La storia parte veramente bene, con la presentazione dei vari protagonisti e devo dire che Di Giacomo e Lisi occupano subito un posto d’onore nelle mie simpatie, anche il resto del gruppo non è da meno. Se l’inizio è veramente alla grande, durante la lettura, la frenesia di andare avanti un po’ diminuisce anche a causa della trama, che per gran parte del libro lascia un po’ allo sbando il lettore, non riuscendo bene a capire da chi bisogna guardarsi le spalle e da chi no.
Tutto questo smarrimento nel finale viene un po’ ridimensionato e qualcosa ci viene svelato e soprattutto riviene accesa la curiosità e la voglia di sapere come la storia procederà. Si, questo è solo l’inizio e la fine non lascia molte idee sul continuo.
“I Guardiani”, per aiutare il lettore che si vuole avvicinare a questo nuovo testo, ha qualche similitudine con i libri di Dan Brown; non abbiamo il Professore Langdon ma Di Giacomo e gli altri, sono una super squadra di specialisti di culti religiosi. Il problema per il lettore più razionale sarà quello di aprire la mente perché gran parte del libro segue “schemi” non consueti (con l’aggiunta del paranormale). Culti religiosi, una Napoli insolita e molto ignoto sono gli ingredienti di questa nuova avventura di De Giovanni che ha tutti i requisiti per diventare una serie davvero interessante.
Uno stile ben leggibile, ironico e divertente ma anche molto dettagliato e minuzioso, qui si vede bene il gran lavoro che ha fatto l’autore, perché gli argomenti trattati non sono proprio semplici e la cura al dettaglio non può passare inosservata. Un buon inizio, con molta curiosità per il seguito.
Buona lettura!
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Un’autobiografia come romanzo horror triste e dive
Un’autobiografia insolita quella che ci propone Michele Mari, con il titolo “Leggenda privata”. Dichiaratosi costretto da una non meglio identificata Accademia dei Ciechi a scrivere la storia della sua vita, l’autore si premura di avvisare i committenti e i lettori che il suo sarà un romanzo dell’orrore, “un romanzo triste/angosciato e dunque caratterizzato da una certa quota di divertimento e di virtuosismo.” Egli infatti afferma di essere nato “da un amplesso abominevole” tra un padre in parte Mosè in parte John Huston e una madre spesso vista come un ultracorpo talvolta triste, talvolta sorridente, talvolta urlante. È così che Mari inizia il suo racconto, che prosegue rievocando le umili origini dei nonni paterni emigrati dalla Puglia verso il nord d’Italia, e descrivendo con spirito critico ma pieno di malcelata ammirazione l’impegno eccezionale del padre Enzo a divenire un grande e noto designer. La personalità paterna dominante nell’ambito familiare viene vista dall’autore in età adolescenziale come incompatibile con il carattere della madre le cui fragilità saranno d’ostacolo a un’unione duratura. Il racconto non concede nulla al patetico, pur lasciando trasparire una certa sofferenza giovanile. Mari riesce a creare una serie di personaggi tra il fantastico e il grottesco, ai quali non dà nomi precisi, ma che definisce con originalità Quello dalle Orbite Vuote o Quello che Gorgoglia o anche Quello che Biascica, tutti membri dell’Accademia dei Ciechi. Ma il suo cuore di adolescente è preso da una giovane cameriera vista e ammirata alla Trattoria Bergonzi che egli definisce quella “cum quej sokkol” colpito da quei talloni rosei divenuti per lui un sex-symbol. Della ragazza non sa il nome vero: egli la chiama “Donatella-Ivana-Loretta”. Le sue fantasie erotiche si alternano a incubi fantastici che si ripetono lungo tutta la sua vita. Il racconto e, in senso più lato, la letteratura è il mezzo per demistificare le paure dell’inconscio. Il vocabolario di Mari è opportunamente diversificato: dalle espressioni dialettali dei nonni, al linguaggio colto e ricercato, risultato di studi letterari e di frequentazioni intellettuali con personaggi del calibro di Montale, Buzzati, Jannacci e Gaber. Originale e inattesa è la conclusione del racconto, che trasforma legittimamente l’autobiografia in romanzo. Molto belle le fotografie tratte dall’album di famiglia dell’autore, che aiutano a immaginare l’atmosfera e l’ambiente in cui si sono svolti i fatti narrati, e che ci danno altresì un’idea di quale potesse essere realmente il carattere dei personaggi.
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I lombriconi.
Adele, pochi giorni ai diciotto anni, è sola in quella sala parto. Bianca, la bambina che porta in grembo da nove mesi, sta per nascere e tra le due sa che non potrà che esserci un breve ed unico saluto. Dopo quel lieve contatto, quel lesto “rendez vous” di appena 20 minuti, le loro strade si separeranno definitivamente. Non hanno che quei 1200 secondi da trascorrere insieme. E’ tutto quel che è a loro concesso.
Dora, trent’anni, insegue quella maternità come se fosse la sua unica ragione di vita. Insegnante di lettere, coniugata con Fabio e portatrice di Handicap a causa di quell’arto mancante, ella è schiacciata dal vuoto di quell’assenza. Due solitudini, quelle dell’adolescente e della donna matura, messe a confronto; imparagonabili, forse, così identiche, di fatto.
Zeno, lo studente di liceo classico e una madre in depressione da accudire, è nato narratore, non protagonista. Egli non è destinato a vivere una sua vita bensì, quella degli altri. Suo compito è, assistere, aiutare, osservare, riportare, essere la colonna portante di quegli attori già pronti a salire in scena. Manuel, amico di sempre, e da sempre, del liceale, è uno spacciatore. La sua strada si è brutalmente separata da tutto e da tutti, lui che è cresciuto curando quella donna che lo ha creato dalle ferite fisiche, e mentali, che quel padre tossico e violento immancabilmente le arrecava, adesso non desidera altro che denaro e riscatto.
E c’è un quartiere che si trova nei pressi della città di Bologna, un quartiere di casermoni, di povertà, soprannominato “I lombriconi”, un luogo dove vite al limite si intercalano tra loro, cercando di sopravvivere, credendo in un domani, anche se questo domani non c’è, perché sono tutti, inesorabilmente, nati per perdere. Non esiste una seconda chance, una possibilità di redenzione. Cos’ha la vita da offrire loro? Cosa loro possono offrire all’esistenza stessa? Vi è, poi, una vita perfetta? Si? No? Dov’è quel confine da cui si può affermare con assoluta certezza che ha inizio la compiutezza della medesima?
Con una penna forte, diretta e che nulla risparmia al lettore, Silvia Avallone, stupisce, conquista, semplicemente spiazza. Per tematiche. Per stile. “Da dove la vita è perfetta” è un testo doloroso, che ti arriva dentro, che ti fa stringere il cuore, un elaborato che nel suo insieme tratta una serie di problematiche non scontate ed anzi di grande impatto sociale. Tra le sue pagine troverete la solitudine, l’abbandono, la maternità non voluta in contrapposizione a quella desiderata, la sconfitta dell’impossibilità di scegliere diversamente, l’impotenza di poter cambiare le proprie vite, l’amarezza, l’attesa, la rinuncia, la complessità del rapporto genitori-figli e figli-genitori, bambini cresciuti troppo in fretta e costretti a prendersi carico di responsabilità troppo grandi, giovani che schiacciati dai doveri sono finiti con l’intraprendere il sentiero errato perché non hanno guide, non conoscono, né vedono altre vie in quella ricerca disperata di una fuga, e troverete ancora l’egoismo per quel desiderio che dirompente acceca e travalica tutto, perfino la ragione, nonché, la consapevolezza che perfino il dolore diventa sopportabile se giustificato dalla necessità di far del bene a quella creatura che ha formato quel “noi”, plurale, dalla volontà indiscussa di volerle garantire un futuro. Questo e molto altro ancora è, “Da dove la vita è perfetta”. Uno scritto ove l’autrice si supera, e si dimostra apprezzabilmente maturata.
«”Siamo, come si dice, arrivati ad un punto di non ritorno”. “Allora non ritorni” le disse semplicemente. “Non ritorni dove sa già che non troverà niente. Cambi strada. Vada altrove”.» p. 137
«Perché pensi che le torri, i cortili non siano interessanti? Li hai mai guardati, hai preso appunti? Finché non le metti nero su bianco, le cose, non le vedi. E poi, chi te l’ha detto che ti deve venire facile? Niente di più falso. Pensa che una volta ci ho impiegato un mese a scrivere una frase. Perché volevo che fosse perfetta e non lo era mai» p. 187
«Quando qualcuno ti abbandona, e lei lo sapeva bene, ti lascia in eredità un vuoto. Che rimane li, tra le costole, e non c’è modo di mandarlo via. Però, le disse. Tu avrai una vita intera per costruirci intorno delle cose belle. Sai, io non conto niente alla fine. E’ il mondo dove andrai ad abitare che conta. Un giorno ripasserò di qui, tra cinque, sei anni, te lo prometto. E la bambina più bella che vedrò giocare anzi non la più bella, la più felice, penserò che sei tu.» p. 305
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