Le recensioni della redazione QLibri
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Quando arriva l'ora del lupo
"Parla, mia paura"
E' un'incitazione, imperativa come un ordine ma al contempo disperata come una preghiera, quella che l'autrice rivolge a se stessa o, meglio, a quella parte di lei che abita in lei, coinquilina indesiderata, fastidiosa e relegata in un angolo, isolata e celata a tutti.
Quasi fosse un peccato, una perversione, un segreto da occultare al mondo: perchè nessuno potrebbe capire, gli altri sanno solo giudicare, condannare o talvolta incoraggiare, spronare con parole di conforto che in realtà sconfortano più di prima, perchè solo chi prova può sapere, solo chi convive ogni giorno con la paura può comprendere questo stato d'animo.
E Simona Vinci è una di queste persone. Simona Vinci soffre di depressione, ne ha sofferto per molto tempo, ora ha imparato a conviverci, a non lasciarsi sopraffare, perchè è il massimo a cui si possa sperare, inutile infatti illudersi che la depressione possa essere sconfitta definitivamente.
La sua depressione è cominciata proprio con la paura, paura di tutto, 'Paura delle automobili. Paura dei treni. Paura delle luci troppo forti. Dei luoghi troppo affollati, di quelli troppo vuoti, di quelli troppo chiusi e di quelli troppo aperti. Paura dei cinema, dei supermercati, delle poste, delle banche. Paura degli sconosciuti, paura dello sguardo degli altri, di ogni altro, paura del contatto fisico, delle telefonate. Paura di corde, lacci, cinture, scale, pozzi, coltelli. Paura di stare con gli altri e paura di restare sola.'
Frequenti attacchi di panico che hanno disintegrato le sue relazioni sociali, ostacolato il suo lavoro e ridotto la sua vita ad un misero arrancare, un faticoso ed estenuante tentativo di superare l'oggi per arrivare al domani.
Ma Simona non si è arresa ed in questo libro non solo confessa il suo demone interiore ma lo esorcizza: l'unico modo per indebolirlo è proprio attraverso la parola, l'unico modo per vincerlo è accettarlo, riconoscerlo e raccontarlo.
"Ecco il trucco, la magia: non chiudere, apri. Non nasconderti, mostrati. Non tacere, esprimiti. Se hai paura, chiedi aiuto."
E' un racconto forte, toccante: nelle prime pagine, quelle in cui l'autrice descrive la lenta e progressiva evoluzione della sua malattia, si avverte prepotentemente il senso di disperazione di una donna sull'orlo del baratro, alimentato peraltro dalla consapevolezza che quel baratro sarà sempre lì, dinanzi ai suoi occhi, e che nessuno potrà mai allontanarla da quella condizione di precario equilibrio con la paura assillante, martellante, di cadere, di sprofondare. E quando la paura non lascia tregua allora si può persino desiderare che accada una volta per tutte, si può persino sperare di cadere per porre fine a tutto.
"C'è chi legge il suicidio come un implacabile atto di accusa verso gli altri. Non so se crederci, perchè quando è capitato a me, di essere sul punto di saltare, gli altri erano scomparsi: c'ero io, da sola, e tutto quello che volevo, tutto quello che provavo era di essere qualcosa che voleva finire."
E' una donna che si racconta ma ciò non implica necessariamente che questo libro sia rivolto in modo esclusivo alle donne: certo una donna potrà più facilmente immedesimarsi in alcuni stati d'animo tipici del genere femminile perchè, per esempio, legati al periodo della gravidanza o a quel senso di insoddisfazione verso il proprio corpo (o parti di esso) che sfocia poi nell'intervento di chirurgia plastica estetica, con tutti i risvolti psicologici che comporta.
"La chirurgia estetica non ha a che vedere soltanto con lembi di pelle, fasce muscolari, strati adiposi e protuberanze ossee, ma lavora su strati della coscienza individuale intangibili eppure determinanti. Ogni volta che un bisturi incide e rimodella un corpo scolpisce anche una mente e un'interiorità e bisogna considerare con attenzione quale possa essere l'impatto sulla psiche della trasformazione morfologica che la chirurgia plastica opera."
Tuttavia, da uomo, ho apprezzato molto il coraggio e la caparbietà di questa donna che ha messo a nudo se stessa, la sua parte più intima, le sue debolezze e fragilità, senza alcuna remora o autocensura, andando quasi controcorrente, sfidando una società che celebra i più forti, i vincenti e ripudia i più vulnerabili.
Facendo parlare la sua paura, Simona Vinci ha non solo aiutato se stessa ma chiunque stia vivendo il suo stesso disagio, fornendo preziosi consigli che sono àncore di salvataggio nel mare profondo che la depressione crea intorno a chi ne soffre: perchè - inutile negarlo - nonostante sia stata riconosciuta come una malattia con un'incidenza altissima nella popolazione mondiale su una fascia ampia ed eterogenea di età, viene spesso considerata come una colpa di cui vergognarsi, come un problema esistenziale sintomo di insicurezza e debolezza.
"Ho deciso di scrivere questo resoconto di un periodo difficile della mia vita e di un disagio esistenziale che mi appartiene, e probabilmente in vario grado mi apparterrà per sempre, perchè avevo bisogno di perdonarmi e al tempo stesso di offrire ad altri che abbiano vissuto o vivano qualcosa di simile, la possibilità, se non di immedesimarsi, almeno di cogliere un riflesso di sè nelle mie parole."
Ma se da un lato è importante parlare, lo è altrettanto saper ascoltare: tanto più se diventa indispensabile saper ascoltare anche i silenzi, le parole non dette, soffocate, saper interpretare atteggiamenti e stati d'animo 'di facciata' che mascherano sotto una parvenza di normalità un profondo disagio interiore.
Bisogna saper ascoltare per poter offrire un valido aiuto all'amico, alla compagna, a chiunque soffra di depressione: per riempire il buco, quel vuoto che si crea nella loro mente e nel loro cuore. In fondo la depressione annienta come il mal d'amore, bellissima la frase tratta da una canzone dei Soundgarden, "I'm the shape of the hole inside your heart".
E direi che da questo punto di vista il libro di Simona Vinci acquista una valenza universale, sia per il genere maschile sia per quello femminile.
"Ogni giorno usciamo di casa e qualcosa di terribile potrebbe accaderci. Ogni giorno ci alziamo dal letto e sappiamo che potremmo morire. L'unico potere che abbiamo è tentare di vivere al meglio il presente senza farci annientare dal terrore del futuro. L'unico potere che abbiamo è continuare a cercare lo sguardo degli sconosciuti senza vedere in loro dei nemici, ma sperando di trovare degli amici. L'unico potere che abbiamo è fidarci della nostra immaginazione e cercare di guidarla verso pensieri positivi, anche quando stiamo attraversando una selva oscura: il buio può parlare e non è detto che le sue siano soltanto parole dolorose."
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un inno all'immaginazione e all'amore
“Se tu ami veramente qualcuno o qualcosa, dagli tutto quello che hai e anche tutto quello che sei” (p.15)
L'amore è il tema di questo splendido romanzo: l'amore per una donna, per i propri ideali, per la libertà. Romain Gary pubblicò questa sua ultima opera nel 1980, pochi mesi prima di porre fine, con un colpo di pistola, alla sua esistenza. “Gli aquiloni” è il suo testamento, la sintesi di ciò in cui ha creduto: un inno alla fratellanza, alla solidarietà, alla memoria del passato e alla capacità di immaginare il futuro.
Il romanzo si divide in due sezioni: nella prima, che va dal 1930 all'occupazione della Polonia, l'autore presenta il contesto in cui si svolge la vicenda e ne delinea i personaggi principali. Nella seconda parte, a conflitto ormai conclamato, l'azione prende il sopravvento e l'intreccio si fa più complesso; in un crescendo di colpi di scena la storia termina con lo sbarco degli Alleati. Tutto ha inizio a Cléry, un villaggio rurale della Normandia dove Ludovic, a soli dieci anni, incontra in un bosco Elizabeth Bronicki, erede di un'aristocratica famiglia polacca che trascorre ogni estate le vacanze in Francia. I due bambini si scambiano poche parole, ma Ludo resta incantato da quella “bionda e severa apparizione” che sarà per sempre la sua unica ragione di vita. Lila è ambiziosa, volitiva, alla ricerca di se stessa e desiderosa di compiere qualcosa per cui essere ricordata. Pur dimostrando interesse per Ludo, la ragazza non disdegna le attenzioni di altri pretendenti: l'altero Hans, soldato prussiano votato alla guerra e il timido Bruno, virtuoso pianista che dovrà rinunciare al suo talento a causa del conflitto.
Alla vigilia dell'occupazione nazista, un tracollo finanziario costringe la famiglia Bronicki a rientrare in Polonia. La guerra distrugge le aspirazioni dei giovani protagonisti che sono costretti a separarsi; Ludo si unisce alla Resistenza e di Lila perde a lungo le tracce, ma non la speranza di poterla ritrovare per coronare il suo sogno d'amore.
“Gli aquiloni” è un romanzo che colpisce il lettore per almeno tre aspetti: la fervida immaginazione, le nobili idee e lo stile originale. “Non vale la pena di vivere nulla che non sia un'opera di immaginazione, sennò il mare sarebbe soltanto acqua salata” (p. 225). Il primo a credere nella fantasia è senza dubbio Gary che attribuisce ai suoi personaggi qualità straordinarie e quel pizzico di follia che rende possibile l'impossibile. Tra tutti spicca il protagonista, Ludovic, dalla prodigiosa memoria e dalla incredibile capacità di calcolo. Non è da meno il suo tutore, lo zio Ambroise Fleury, reduce di guerra, pacifista convinto e abile artefice di splendidi aquiloni. Gli “gnamas” (così li chiama Ambroise) sono un elemento costante della storia, simboleggiano i grandi ideali, purché si abbia l'accortezza di tenerli ben saldi per evitare che “prendano la fuga verso l'azzurro”. Le idee in cui crediamo sono ciò che ci tiene in vita, ma dobbiamo essere cauti: se vanno troppo in alto, si perdono; se toccano terra si infrangono, come gli aquiloni. Gary ci invita a diffidare di chi pensa di essere dalla parte del giusto, ognuno di noi potrebbe essere "il nemico". La guerra insegna che “il lato disumano fa parte dell'umano” e i vincitori non possono dirsi immuni dal commettere ingiustizie.
“La sua faccia mi parve familiare e sulle prime credetti di conoscerlo, ma subito capii che ad essermi familiare era l'espressione di sofferenza (…). Tedeschi o francesi, in quei momenti siamo intercambiabili”. (p. 326)
“Gli aquiloni” è un romanzo scritto in prima persona da una voce narrante, quella di Ludovic, capace di coniugare serietà ed ironia: “la comicità è una grande virtù: è un posto sicuro in cui ciò che è serio può rifugiarsi per sopravvivere” (p. 225).
L'intreccio è appassionante, in alcuni punti rocambolesco, in altri commovente; le vicissitudini belliche restano sullo sfondo, l'autore preferisce soffermarsi sui piccoli o grandi gesti di amicizia, di lealtà e di solidarietà che inaspettatamente uniscono gli uomini anche quando la Storia li schiera su fronti contrapposti.
La lettura scorre rapida, piacevole, curiosa di scoprire un lieto fine che si intuisce, ma di cui non si è certi.
"Gli aquiloni" lascia una sensazione di positività e di speranza; si stenta a credere che Gary abbia potuto compiere, pochi mesi dopo la pubblicazione di questo libro, il gesto estremo.
Tra le righe de “Gli aquiloni”, forse, la risposta:
“Amava appassionatamente l'umanità intera, ma in fondo non aveva nessuno. (…) Per la speranza bisogna essere in due” (p. 91)
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L'esotismo di Wilbur Smith
Wilbur Smith approda in libreria con Il giorno della tigre, una nuova,avvincente ed intrigante, avventura della cosiddetta “saga dei Courteney”. Smith aggiunge una nuova pagina alla saga che lo ha accompagnato per tutta la vita, riprende, così, la storia della famiglia britannica impiantata nell’Africa Orientale che tanta parte ha avuto nel suo successo di scrittore. Il giorno della tigre, scritto con Tom Harper, aggiunge un nuovo tassello al mosaico genealogico Courteney, ma soprattutto mostra un legame profondo esistente tra il continente africano e Smith stesso, fra un uomo e le generazioni che lo precedono e seguono. Wilburn Smith è trentasei libri, tradotti in quaranta lingue, centotrentadue milioni di copie, e diecimila interviste rilasciate, e una grande voglia di continuare a scrivere e a narrare.
La stirpe dei Courteney è un’antica famiglia di origine inglese, appunto, che ha avuto la sua migliore sorte din Africa. La prima avventura di questi protagonisti è datata nel lontano 1667, e il libro in cui la si racconta è intitolato Uccelli da preda, proseguendo, poi, con Monsone, Il destino del leone, La voce del tuono, Gli eredi dell’eden, per approdare a quest’ultimo Il giorno della tigre. L’età dell’imperialismo è sullo sfondo, insieme al continente africano. Qui l’avventura si svolge tra l’estremo Sud Africa, attraverso il Mar Caraibico, approdando alle coste dell’India. Un viaggio pericoloso ed irto di insidie, con nemici vili e brutali: infatti il giovane Tom Courteney inizia la traversata avvistando immediatamente una nave mercantile che sta per essere attaccata dai pirati, e non esita ad intervenire, mettendo a repentaglio la propria vita e quella del fratello Dorian, uscendo vittorioso dallo scontro. Tom è un abile navigatore, commerciante, e:
“Non aveva rimpianti, ma non aveva dimenticato la sua infanzia: la grande ed antica dimora, la cappella con innumerevoli Courteney sepolti nella cripta, i domestici che avevano accudito suo nonno e i cui figli avrebbero servito generazioni di Corteney non ancora nate. Il senso di appartenenza lo rendeva consapevole che, per quanto l’albero di famiglia potesse protendere i suoi rami verso localit remote, avrebbe mantenuto forti e profonde radici in quel luogo.”
Figura di notevole fascino è anche quella di Dorian Courteney, che:
“A undici anni era stato catturato dai pirati arabi, ridotto in schiavitù, acquistato da un principe dell’Oman per i suoi capelli rossi simili a quelli del profeta Maometto e cresciuto nella sua dimora come un figlio adottivo.”
“Tom aveva impiegato un decennio per ritrovarlo, dieci anni durante i quali lo aveva creduto morto. (…) Quando i due fratelli si erano finalmente rincontrati, nel deserto dell’Africa orientale, Tom non lo aveva nemmeno riconosciuto ed erano stati sul punto di uccidersi a vicenda:”
Nello stesso momento dello scontro in mare, molto più lontano, nel Devonshire, un altro Corteney è in gravi difficoltà. Francis, figlio di William, ucciso da Tom, in seguito al tracollo finanziario del patrigno, è costretto a fuggire, determinato a catturare il famoso zio, che lui ritiene responsabile della morte violenta del padre. In preda ad una rabbia cieca e ad una furiosa sete di vendetta decide di prendere il mare. Dopo tante sofferte peripezie approda in Sud Africa, ma si trova a fare i conti con una verità differente da quella creduta finora, e ne esce sopraffatto e disorientato. Un altro personaggio di rilievo è Christopher Courteney: figlio di Guy, governatore di Bombay, uomo privo di scrupoli e di morale, cinico e burbero, vistosi respingere la sua domanda di matrimonio dallo stesso, decide di abbandonare il suo ruolo di privilegio per mettersi in viaggio, e conquistare una propria, personale ricchezza. Ma le vicissitudini sono innumerevoli, gli ostacoli da affrontare lo induriscono nel corpo e nello spirito, ma l’interiorità guerriera, di cui fin dall’infanzia, è stato temprato, lo aiutano nel raggiungimento dell’obiettivo.
Una saga che ammalia e conquista i lettori di tutto il mondo. Un soffuso fascino ed ammirazione per l’esotico emergono in modo preponderante per tutta la narrazione. Figure affamate di peripezie che solcano i mari verso l’ignoto, sfidando il proprio destino, tra pirati, commercianti avidi e uomini vendicativi. Il fil rouge della narrazione passa attraverso un elemento che, di per se, è portatore di avventure, il mare. Ed è proprio fra i guizzi del liquido azzurro che Smith racconta di un viaggio pericoloso.Viaggio che reca in sé azione, intrighi, segreti millenari, passioni e travolgenti avventure, in un mondo lontano, ricco di malia e di mistero. E:
“il vento della passione per la scrittura che gonfia le vele che Wilbur Smith dipinge sulle acque.”
Per gli appassionati del genere avventuroso e per le saghe una nuova lettura, da compiere nelle lunghe serate invernali, immersi nel calore e nel fascino dell’esotico.
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Ogni uomo è bugiardo
Alla base dell’etica di Schopenhauer non c’è la ragione come nel pensiero di Spinoza, ma la compassione verso tutto ciò che è vivo e sofferente.
La mancanza di compassione quindi dovrebbe portare a un modo di vivere poco etico, amorale, lontano da ogni umanità. E di questa assenza di compassione è pieno il romanzo e soprattutto di questa amoralità, all’epoca inusuale (se non nella vita, almeno nei romanzi).
Keyla la prostituta, risulta il personaggio più positivo e affascinante del romanzo per la sua generosità e i suoi slanci di fiducia e di ingenuità, forse di candore che contrastano con gli anni di carriera professionale, e che nascono dal suo fortissimo desiderio di elevazione e di riscatto. Keyla ha diverse occasioni di riscatto. Prima di tutto il matrimonio con Yarme, che all’inizio del romanzo ama e da cui è amata. Purtroppo tutti gli uomini che si avvicinano a Keyla, anche se dicono di amarla, sono attirati soprattutto dal lato fisico del rapporto. Ma questo concedere troppo al corpo diventa una trappola e un imbuto che porta alla rovina. La passione si accende alla fine sempre nel suo senso più deleterio, di possesso di un oggetto che per essere sicuri di avere definitivamente bisogna distruggere e di depravazione. Gli uomini più importanti della storia sono tutti descritti come schiavi della passione, quindi non del tutto liberi, egoisti e meschini: tutti in un modo o nell’altro sfruttano Kejla e sono gelosi della sua rinascita; soprattutto Yarme, il marito, e il suo amico Max, contrastano la sua tensione verso l’alto che si esprime anche come tensione religiosa.
Nonostante la progressiva discesa nel fango, Kejla è l’unica che conserva parte della purezza che le viene dal buon cuore. La sua bontà le lascia fino alla fine la voglia di vivere che viene meno a tutti gli altri. Nel romanzo la passione ha una connotazione fortemente negativa, di tensione verso il fango e la depravazione. Viene descritta come forza che , se non le si oppone resistenza, spinge l’uomo a sprofondare.
Ma la capacità di opposizione e di resistenza manca a quasi tutti i personaggi, fatta eccezione per Solcha, la fidanzata.
Nel romanzo c’è un costante conflitto tra Dio che tace, facendo il suo mestiere come si dice spesso, e l’uomo che lo nega ma pur negandolo continua a sentire su di sé il Suo sguardo accusatore e che, come risposta a quello sguardo, vede come soluzione l’allontanamento o l’asservimento della prostituta sulle cui spalle viene lasciato il peso di ogni bassezza morale. La donna però è migliore degli uomini perché più umile e sincera e soprattutto più compassionevole. Anche l’altra donna, la fidanzata Solcha è una donna sincera e pronta a pagare di persona per le sue idee.
Il romanzo nelle sue prime pagine non mi ha convinto per la repentinità con cui i personaggi si abbandonano a debolezze e passioni e cambiano atteggiamento e modalità di relazionarsi tra loro. Alcuni di loro, Yarme soprattutto, ma anche Keyla, mi sono sembrati incoerenti. Ma accettato e digerito questo lato del loro carattere che compare soprattutto nelle relazioni che coinvolgono anche Max, poi il romanzo si accende e diventa appassionante come qualsiasi cosa scritta da Singer. Certo il lettore si irriterà un po’ con tutti gli uomini del romanzo e forse anche con Keyla. A tutti manca un minimo di spina dorsale, e quasi tutti sarebbero da prendere a schiaffi. Il romanzo però è proprio bello. Diventa andando avanti sempre più bello, colorato e pieno di poesia e di malinconia nonostante tutta la depravazione descritta. Il bello di Singer è che descrive le cose con quello sguardo compassionevole che rende tutte le vicende più vicine al lettore. Forse l’inizio sarebbe stato da rivedere, questione però di poche pagine.
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per romantici e sognatori
Clarice, una ragazza che vive nella Germania di inizio "800, diventata rilegatrice dapprima per passione e poi per lavoro inserisce nella copertina di un volume un messaggio che dovrà servire a chi lo troverà a conoscere la sua storia e attraverso una sorta di caccia al tesoro a scoprire un segreto. Lo troverà 200 anni dopo Sofia, una romana di origini tedesche sposata, ex bibliotecaria, ex ragazza entusiasta della vita. Il foglio inserito nel primo volume di una trilogia dello scrittore tedesco Fohr, che lei ammira e da cui è ispirata, la spinge ad un passo che non ha il coraggio di fare. quello di lasciare il marito per il quale si è annientata, senza riuscire però a compiacerlo del tutto. Convinte di essere in debito con Clarice per averla aiutata in questa svolta vuole ripagarla portando alla luce i suoi segreti. Ad aiutarla in una viaggio attraverso l'Europa sarà Tomaso, un grafologo ed esperto di libri antichi un po' blandito e un po' tormentato da questa donna insicura, e allo stesso tempo prepotente e capricciosa.
Cristina Caboni ha scelto di raccontare in parallelo le storie di queste due donne, alternando i capitoli che ricordano la storia di Clarice e quelli che ci informano sulle indagini di Sofia. Scelta azzeccata che ha fornito al lettore aspettative sulla continuazione delle due storie. Mi è piaciuta la ricostruzione che stata fatta dello scrittore Roth, con numerose citazioni sui suoi presunti libri. difficile trovare una scrittore che si impegni nella storia tanto da ricostruire anche gli scritti di uno dei suoi personaggi. Anche la parte che ci parla del lavoro di rilegatura dei libri è accurata e evidenzia uno studio dell'argomento, o quantomeno dimestichezza col tema.
Purtroppo il realismo della stria finisce qui. Le vicende di alcuni dei personaggi sono a dir poco inverosimili. Le montagne di disgrazie che si abbattono sulle spalle di alcuni sono bilanciate da impensabili gesti di generosità o colpi di fortuna al di là di ogni immaginazione. Allo stesso modo le ricerche dei libri sono completamente campate per arie e assolutamente gestite dal caso e dalla fortuna.
In tutto questo devo aggiungere che sono stati trattati temi come la violenza domestica, sia fisica che psicologica che mi sembra stonino in questo contesto leggero e rilassato.
Riconosco comunque alla Caboni il dono della coerenza, visto che anche il finale è in tema col resto del racconto. Il lieto fine è talmente lieto da non permettere di immaginare nulla di più perfetto.
Volume adatto a chi apprezza colpi di fulmine, destini scritti in cielo e donzelle portate in salvo da un aitante cavaliere..
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Cal Donovan e IL DEBITO.
Cal Donovan, docente nonché ricercatore specializzato dell’università di Cambridge, gode di un pass d’onore presso la Città Stato del Vaticano ed in particolar modo per i suoi archivi segreti. Si trova nella Santa Sede per portare avanti una ricerca sul Cardinal Lambruschini, segretario di Stato durante il papato di Gregorio XVI e sulla sua decisa opposizione ai moti rivoluzionari del 1848 quando, dall’esame di una strana missiva rinvenuta per caso, viene a conoscenza dell’esistenza di un inspiegabile prestito. A quanto pare, infatti, l’ecclesiastico avrebbe avuto un ruolo decisivo nella concessione di una sostanziosa somma di denaro durante il papato di Pio IX, e più precisamente, una somma di denaro pari ad almeno trecentomila sterline. Una cifra considerevole, per il tempo. Eppure, più l’indagine va avanti e più è chiaro che quel prestito è in qualche modo collegato al presente, che quel debito, contratto dalla Chiesa con una banca posseduta da una famiglia ebrea, probabilmente non è mai stato restituito. Celestino, il Papa, chiede a Cal di indagare in merito e di ricavare tutte le prove necessarie a dimostrare che quella posizione passiva è ancora valida. La richiesta del pontefice è alquanto strana e non manca di sollevare dubbi nei membri della Curia. Questi ultimi, ancora, ritengono che dalla risoluzione di questo enigma derivi la sopravvivenza o la disfatta della Chiesa stessa. Tanti i coinvolgimenti, tanti i punti di collisione tra passato e presente. Ma cosa è successo nello ieri per avere un ruolo così determinante nell'oggi?
E’ da questo breve assunto che ha inizio “Il Debito” ultimo libro a firma Glenn Cooper. Sin dal principio chi legge si trova di fronte ad un romanzo che caratterizzato da un linguaggio fluente che ben bilancia il mistero e che quindi invoglia ad andare avanti. L’autore, inoltre, ben calibra i salti temporali. Certo, talvolta, il narratore tende a dilungarsi in dettagli evitabili, o comunque di interesse minore per il lettore, ma ad ogni modo la scorrevolezza del testo non viene eccessivamente inficiata. Se dal punto di vista stilistico l’opera non colpisce per erudizione ma nemmeno disdegna, da quello contenutivo, purtroppo, pecca un scontatezza. L’autore non brilla particolarmente di originalità, anzi, non solo si fossilizza su un tema trito e ritrito su cui è stato detto e ridetto, supposto e non supposto, ma vi inserisce una miriade di cliché sostenuti e costeggiati da qualche inesattezza storica e giuridica.
In conclusione, “Il debito” è un elaborato adatto a chi cerca una storia di facile lettura con cui trascorrere qualche ora piacevole, è uno scritto dall’evoluzione statica e di facile intuizione, è un componimento con cui è impossibile gridare al capolavoro.
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No = a chi non è un passionista del filone e/o ama romanzi di una diversa tipologia.
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La distopia di Fabio Deotto
Fabio Deotto è nato a Vimercate nel 1982. Scrive di scienza e cultura per numerose testate nazionali, ad esempio per “Il Corriere della Sera- La Lettura”. Nel 2014 ha pubblicato il romanzo esordiente dal titolo Condiminio R39, ora torna con Un attimo prima, sempre edito da Einaudi.
Il romanzo è un romanzo distopico. Che significa? Con il termine “distopica” ci si riferisce ad una realtà immaginaria e fittizia, nella quale nessuno vorrebbe mai vivere. Il termine contrario è “utopia”, ovvero una realtà ideale in cui ognuno di noi vorrebbe sicuramente vivere. La società distopica è una società che ha a venire, ed è spesso stata descritta in passato in romanzi come 1984 di Orwell, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, e altri. In questi scenari ci si ritrova ad aver a che fare con mondi fantascientifici, in cui l’ordine delle cose è apparentemente ben funzionante, mentre le scelte delle masse e la vita dei popoli sono assolutamente condizionate dall’essere indesiderabili e claustrofobiche. La distopia affonda, sempre, le radici nell’attuale società, e ne immagina un futuro possibile, all’interno del quale si estremizzano i vizi e i difetti. Così opera Fabio Deotto. Descrive una società in cui lo stato fornisce provvigioni mensili: ad esempio il protagonista per il mese di marzo:
“ha diritto a 400 kilowattora di energia elettrica, 30 filoni di pane biologico, 25 confezioni di cracker non salati, 7 fette biscottate dolci. Il latte di soia veniva erogato dalla tubatura condominiale e il limite era stato fissato di nuovo a 1 litro al giorno. 1 chilogrammo di carne coltivata bovina in forma di hamburger e filetti, 800 grammi di carne coltivata suina in forma di salsicce, altri 2 chilogrammi di carne coltivata da cellule di origine ittica e avicola.”
Il controllo sull’individuo è totale e coinvolge ogni aspetto della vita: non solo nell’abbigliamento e nel cibo, ma anche in ambito sanitario, sociale, morale ed intellettuale. Infatti siamo
“a cinque minuti da adesso”,
all’interno di un cosmo in particolare cambiamento. Le tecnologie che oggi sono in fase di sperimentazione avanzata lì sono divenute di uso comune e la crisi del mondo Occidentale ha raggiunto proporzioni sconvolgenti. L’ex biologo Edoardo Fiaschi vive in un contesto del genere, è appena stata abbandonato dalla moglie Claudia,ed è ossessionato dal ricordo del fratello morto Alessio, è malato di “disposofobia”, ovvero:
“sindrome da accumulo compulsivo, esistono delle terapie mirate”.
Per imparare ad elaborare il lutto si sottopone ad un particolare trattamento psicologico ispirato alla scatola specchio di Ramachandram:
“Prese una scatola, ci posizionò in mezzo uno specchio e praticò su un lato due fori abbastanza grandi; quando il paziente infilava entrambi i polsi nella scatola, ai suoi occhi la mano mutilata veniva rimpiazzata dal riflesso di quella sana. (…) Si trattava di un inganno, ma poiché anch’esso avveniva nel dominio del cervello, il trucco funzionava. “.
Dopo di che Edo inizia un percorso a ritroso nel tempo, all’interno della sua infanzia, della sua famiglia, di suo fratello in un
“procedimento piuttosto lineare , (…) la differenza rispetto ad una seduta di psicoterapia era che in questo caso le sue frequenze cerebrali sarebbero state mappate, così da trovare le linee guida per costruire la sua scatola specchio. “.
Edo si sofferma con decisione ad esaminare il ruolo politico, sempre più preponderante, che il fratello Alessio ha assunto all’interno del Movimento Occupy. Fino a giungere al nipote Sealth, figlio di Alessio, e alla sua fuga improvvisa. Quando però lui ricompare, sarà per Edo motivo di rinascita, e di superamento delle difficoltà che finora lo hanno mirato.
Lo stile narrativo è corretto, molto preciso, lineare, veloce. La lettura, però, non mi è affatto piaciuta. Ho faticato particolarmente ad accettare una visione futuristica così fantascientifica, e così terribile in sé. Prevedere un controllo diretto, e pur possibile, dell’uomo e delle sue azioni mi incute un timore reverenziale e un’ansia che non condivido. La scelta di usare la scatola specchio per elaborare un lutto mi è parsa del tutto priva di fascino intellettivo, a confronto con le teorie psicoanalitiche che scavano nel profondo dell’essere umano. Intellettualmente è pregnante la narrazione dei ricordi dello stesso Edo, del rapporto con il fratello Alessio, delle avventure, anche sessuali, delle vacanze trascorse in North Dakota. Quindi una lettura sicuramente consigliata a chi piace il genere; sconsigliata a chi ama sognare un mondo positivo, pulito, una umanità più profonda che si libra alta nel cielo.
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Erudizione alla vita, all'ottimismo
Nel discorso tenuto ai neolaureati dell’università di Hardvard nel 2008, J.K. Rowling decide di parlarci dell’importanza di due elementi essenziali per la crescita e la maturazione del singolo individuo: il fallimento e l’immaginazione. E lo fa, la nota autrice del giovane maghetto più famoso sulla scena pubblica, ricorrendo a quella che è stata la propria esperienza di vita. Ci racconta come si sia dovuta mettere contro i genitori che vedevano quali inutili le sue scelte di studio non ritenendo lettere classiche un qualcosa di applicabile ai regimi dettati dalla vita moderna, e lo fa descrivendoci quei sette anni successivi al conseguimento del titolo di laurea in cui si è ritrovata con un matrimonio disastroso alle spalle e una figlia da crescere da sola, e lo fa semplicemente raccontandoci di come abbia inseguito i suoi sogni, la sua voglia di scrivere racconti, il suo desiderio di mettere su carta quelle che erano le sue idee, i suoi pensieri, e lo fa facendoci provare sulla pelle quella sensazione di ingiustizia che solo l’insuccesso sa determinare. Perché come giustamente asserisce, “il talento e l’intelligenza non hanno mai vaccinato nessuno contro i capricci del Fato, e nemmeno per un istante darò per scontato che i qui presenti abbiano tutti goduto di un’esistenza di imperturbato privilegio e soddisfazione”.
E fallire, ci sussurra ancora, non è stato uno spasso. Ma allora, perché parlare di benefici? Perché il fallimento l’ha costretta a eliminare tutto quel che era superfluo, l’ha obbligata a spogliarsi dell’illusione di essere qualcosa che non era, del credere di aver raggiunto un risultato o un traguardo per il solo fatto di essere riuscita con il minimo sforzo a conseguire gli esami del suo corso.
«Magari non vi capiterà di fallire in maniera altrettanto disastrosa, ma nella vita è inevitabile una certa dose di insuccesso. E’ impossibile vivere senza fallire in qualcosa, a meno di vivere così prudentemente che tanto varrebbe non vivere affatto… nel qual caso si fallirebbe in partenza. Fallire mi ha dato una sicurezza interiore che superando gli esami non avevo mai provato. Fallendo ho imparato cose su di me che non avrei potuto apprendere in nessun altro modo. Ho scoperto di possedere una grande forza di volontà e più disciplina di quanto sospettassi. [..] La consapevolezza è un vero e proprio dono, per quanto la si guadagni soffrendo, e si è dimostrata più preziosa di qualunque titolo io abbia mai conseguito.»
Ecco, perché fallire è importante. Ecco, perché, dal fallimento può trarsi un beneficio. Ma l’immaginazione? Cosa c’entra in tutto questo detto secondo carattere? Che ruolo ha? Siffatto aspetto è la chiave con cui ricostruire la propria esistenza dopo la caduta, dopo l’insuccesso, ma è anche la forza che ci permette di provare empatia per gli esseri umani che incrociano le nostre strade ma di cui non abbiamo condiviso le esperienze. Ancora, è quello sfogo che ci consente di uscire dalle situazioni più aberranti. In tal senso, la Rowling ci descrive come il rifugiarsi nei frutti della sua mente le sia stato d’aiuto nel periodo in cui prestava la propria opera presso il dipartimento di ricerche sull’Africa di Amnesty International di Londra. Costretta a vivere tra lettere clandestine, tra resoconti di vittime sottoposte a tortura, o ancora a quelli di testimoni oculari di processi ed esecuzioni sommarie ed ancora di sequestri e stupri, J.K., ha toccato con mano quel che era l’afflizione, ma al contempo ha imparato sulla bontà e sul genere umano più di quanto mai ne avesse saputo prima. Perché il potere dell’empatia se si concretizza nell’azione collettiva riesce a salvare uomini e donne, riesce a liberare prigionieri. Da qui l’essenzialità di aprire il proprio intelletto alle varie prospettive, da qui l’importanza di non autoincatenersi.
In conclusione, un discorso avvalorato dalla presenza di immagini atte a fissare quelli che ne sono i contenuti, che invita all’ottimismo, a non arrendersi, ad andare avanti, a non aver paura di cadere per poi credere di non aver la forza di rialzarsi, un invito ad aprire la mente perché una mente aperta può, una mente in gabbia e volutamente autolimitante dà vita a terrori e paure diverse e da non sottovalutare.
«Come un racconto, così è la vita: non importa che sia lunga, ma che sia buona»
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Asino lunare
Il mondo è un palcoscenico, un palcoscenico può contenere il mondo. “Noi siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni”, la vita stessa non è che sogno. La narrativa è vita ed è in grado di riscrivere e rimettere in gioco tutto quanto, mondo e palcoscenico, sogno e realtà, fantasmi e personaggi.
Margaret Artwood rielabora su carta La Tempesta, commedia dal doppio fondo, che rispecchia il teatro in teatro e inserisce il contenitore nel contenuto. L’autore non si limita ad aggiornare il capolavoro ai giorni nostri, adornandolo con le nuove tecnologie e rinnovando le miserie dei giochi di potere: lo mette in scena, estende le dimensioni del testo classico e moltiplica i livelli narrativi, riflettendo specchi su specchi e tessendo un complesso gioco di riflessi.
Il romanzo che esce fuori da questo gioco ardito è un capolavoro moderno di ingegneria, che non tradisce il capolavoro classico a cui si ispira. Un testo da assaporare e centellinare, scritto con una semplicità cesellata con passione, da una mano esperta che sa maltrattare con amore le sue materie prime. L’autore si destreggia con eleganza tra ambienti e orpelli, adorna di lustrini e costumi elaborati i suoi personaggi, li tratteggia con grazia efficace e illustra magistralmente la loro recitazione, conferendo al sogno i contorni nitidi della realtà, e alla realtà l’evanescenza del sogno.
Ne esce fuori una narrazione spumeggiante, trainata da una forza allegra e al tempo stesso, inevitabilmente, tempestosa, che invita il lettore a danzare tra passato e presente, seguendo un ritmo leggero ma non fatuo, veloce ma arioso. E non perde l’occasione di scoperchiare mondi nuovi: fascino e trappole del teatro e dei teatranti, profilo e citazioni di Shakespeare, la natura aliena e ultraterrena di Ariel, folletto specializzato in nuove tecnologie.
Apriamo il libro e godiamoci lo spettacolo.
“Benvenuti nella nostra nave che si chiama La Tempesta. Io sono il nostromo e questi sono i miei marinai. Ora vi condurremo fino a un’isola deserta in mezzo al mare. Non preoccupatevi se sentirete rumori strani, fanno parte del dramma. Il nostro è uno spettacolo teatrale interattivo, di natura sperimentale; vogliamo avvisarvi in anticipo.”
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VOLO ANCORA UNA VOLTA NON CONVINCE
L’essenza di questo libro è racchiusa in questa frase” Essere amati a volta non basta, vogliamo sentirci desiderati” e già da qui abbiamo un brutto presentimento sulla lettura dell’ultimo libro di Fabio Volo.
Premetto che non ama questo autore, ma ho iniziato questa lettura senza pretese, senza pregiudizi e dando l’ennesima possibilità a Volo di “redimersi” dalla bassezza delle sue precedenti opere.
Questo romanzo, però, non ha una trama, non parla di nulla, non c’è un’analisi dei personaggi, non si capisce quale sia il senso di questo libro. Perché è stato scritto?
Io non capisco ancora come casa editrici così importanti pubblicano questo genere di testi, si evince chiaramente dalla lettura che l’autore non ha nessun passione per la scrittura, che lo fa solo per contratto o per sfruttare la sua enorme popolarità.
In poche parole il libro racconta, o almeno ci prova, la storia tra Silvia e Gabriele, naturalmente è una relazione extraconiugale infatti Silvia è sposata e ha un bambino.
Per tre quarti del libro i due non fanno che avere dei rapporti intimi e niente altro e ad un certo punto il ragazzo ha un cambiamento improvviso e vuole far sul serio con Silvia, che poi la donna sia d’accordo o meno questo non ve lo dico, perché vi lascio la “curiosità” di scoprirlo se vi avanzano venti euro e li volete “devolvere” in beneficienza a questo autore come regalo di Natale.
Le scene di passione tra i due non suscitano niente al lettore, zero emozioni e poi il libro è talmente ripetitivo e monotono che a volte mi sono ritrovata a sbadigliare. Volo non ha uno stile, non ne ha uno suo, usa un italiano molto semplice, cadendo nei cliché tipici di un romanzo rosa ma non aggiungendo nulla di nuovo o di personale.
Sinceramente c’è poco altro da dire sulla trama o sui personaggi, non so nemmeno dare una valutazione su Silvia e Gabriele, l’autore ci ha dato un’immagine di loro solo di facciata, frivola e quindi non sono entrata in sintonia con loro.
Gabriele posso solo dire che mi sembra avere poco maturità, porta avanti questa relazione clandestina cosciente del fatto che il loro rapporto non avrà uno sviluppo amoroso significativo, fino a che di punto in bianco cambia idea e vuole qualcosa di più.
Silvia, non l’ho capita, tradisce il marito forse per ripicca, per sentirsi giovane, appagata o libera non saprei in alcuni punti mi è sembrata ambigua, scostante e incoerente.
Il testo sicuramente si legge in fretta, il linguaggio è semplice e lineare, ma il testo non ha spessore, sembra uno scritto di un autore adolescente che si sofferma solo sulla superficialità del rapporto amoroso e non vuole approfondire la psicologia dei vari personaggi, scavare nel profondo.
La trama è banale ma la cosa che mi preoccupa è che lo stesso Volo non ha un’evoluzione nei suoi libri le storie sono similari e noi lettori dovremmo meritare qualcosa in più, una “ricerca” maggiore e una cura dei dettagli più accurata.
Una storia che finalmente ci sappia coinvolgere, appassionare, stupire e sorprendere.
Non credete che ci meritiamo un po’ di più di impegno da parte di un autore bestseller, che come minimo dovrebbe dare prova almeno una volta del suo talento? O presunto tale?
La cosa che a noi lettori proprio non piace è essere presi in giro, accorgersi che nemmeno allo scrittore è piaciuta scrivere una storia del genere, che non aveva un’idea iniziale da sviluppare.
Come dice il titolo”Quanto tutto inizia” io mi chiedo quando Volo inizierà a scrivere con passione, impegno, magari buttandosi in un genere nuovo o trattando altri temi e non solo l’amore nella maniera più superficiale che ci sia.
Tentar non nuoce!
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Come una nuova Arianna
Ecco che mi accingo a recensire il nuovo romanzo di Alessia Gazzola, uscito da poco nelle librerie, con protagonista il medico legale Alice Allevi.
Confesso che ho letto tutti i romanzi di questa serie e che, malgrado comprenda bene che non si tratta di capolavori o di Grande Letteratura, la trovo una lettura molto appagante perché estremamente piacevole.
Fin dal primo libro che lessi, “L'Allieva”, pensai che fosse un soggetto da telefilm, non proprio da serial americano, quanto piuttosto da fiction della Rai: non sono rimasta per niente stupita quindi quando l'anno scorso è uscita la serie TV con Alessandra Mastronardi e Lino Guanciale, di cui presto vedremo la seconda stagione.
Per i pochi che non conoscono la serie della Gazzola, ricorderò che si tratta di romanzi che raccontano le vicissitudini sentimentali e lavorative di una giovane specializzanda in medicina legale, Alice Allevi, con un grande talento e una vera propensione all'investigazione, però anche molto distratta, romantica e un po' sfortunata in amore.
Difficile non immedesimarsi ed affezionarsi ad una protagonista così amabile, bistrattata dai suoi superiori perché giudicata superficiale, mentre si tratta di una persona intelligente e speculativa, ma con la testa un po' tra le nuvole.
Fin dal primo romanzo letto, ho apprezzato di più la parte che racconta la vita e le disavventure -soprattutto sentimentali- di Alice più che i casi gialli affrontati, che purtroppo, per un motivo o per un altro, mi sono sembrati sempre un pochino deboli. L'aspetto poliziesco del romanzo però, sebbene non costituisca il nucleo migliore della narrazione, serve a dare spessore ad una trama che altrimenti risulterebbe veramente troppo insipida. I due generi -giallo e rosa- invece si fondono insieme molto bene e danno vita ad una lettura apprezzabile.
Tornando a questo romanzo, devo ammettere che l'ho trovato migliore dell'ultimo letto, “Un po' di follia in primavera”, che mi aveva trasmesso dei segnali di stanchezza rispetto a personaggi e situazioni imbrigliati da troppo tempo nello stesso circolo ripetitivo. Invece stavolta la Gazzola ha saputo sfornare qualcosa di nuovo.
Alice ha concluso gli anni della specializzazione, ormai è un medico legale a tutti gli effetti. Sta studiando per ottenere un dottorato di ricerca ma nel frattempo si è iscritta all'albo dei periti. Una mattina infatti viene chiamata da un pubblico ministero, Valentina Montechiaro, che le conferisce un incarico: una donna di 47 anni, ex danzatrice, Maddalena Vichi, è stata trovata morta, senza apparente causa, nel giardino della sua immensa villa. Toccherà ad Alice trovare il motivo per cui Maddalena è morta: si tratterà di omicidio? E cosa nasconde il magistrato, Valentina Montechiaro? Alice adesso vive con il fratello Marco, appena separato dalla moglie, ed ha definitivamente chiuso con Arthur Malcomess. Del resto, come noi lettori ormai abbiamo capito benissimo, la giovane professionista ha un altro per la testa, lo ha sempre avuto, ancor prima di iscriversi all'Università: il bello e irraggiungibile, affascinante ma sfuggente, Claudio Conforti. Come sempre, ad Alice non basta fare le autopsie e gli esami di laboratorio, lei deve scoprire la verità, risolvere il caso. Anche stavolta ci riuscirà.
Purtroppo ho trovato la soluzione del giallo un po' frettolosa e deludente, e questo mi è dispiaciuto perché invece l'indagine poliziesca mi aveva coinvolto molto nella parte centrale del romanzo.
Quindi, non posso che confermare il giudizio che avevo espresso anche per i romanzi precedenti della serie: lettura piacevole, il giallo e il rosa si amalgamano e rendono la trama complessivamente più interessante ed avvincente. Peccato che i casi gialli siano poco elaborati.
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Coraggio e senso di giustizia salveranno il mondo
I racconti di Murakami ci proiettano in un mondo al confine tra immaginazione e realtà rendendoci difficile distinguere l’una dall’altra e evidenziano l’inganno in cui conduciamo le nostre vite.
In “Ranocchio salva Tokyo” il protagonista Katagiri è un piccolo borghese che non spicca né eccelle per le sue qualità. E’ un piccolo uomo mediocre, scrupoloso nel suo lavoro, che si distingue solo per il suo senso di giustizia. È nel suo delirio onirico che egli si confronta con il gigantesco Ranocchio che chiede il suo aiuto per salvare Tokyo da un devastante terremoto che sarà provocato da un disgustoso enorme lombrico che dimora in profondità sotto la città. La lotta tra il bene e il male, tra giustizia e iniquità sarà combattuta fisicamente da Ranocchio con l’appoggio morale di Katagiri.
“Come dice Nietzsche, la saggezza più grande è non avere paura” ricorda Ranocchio. Ed è questo l’atteggiamento di Katagiri nell’ esigere i crediti per la società finanziaria per cui lavora. Qui è palese la critica di Murakami nei confronti di certi ambienti della finanza che troppo spesso portano avanti un gioco duro e senza scrupoli.
La battaglia tra il male e il bene sarà uno scontro violento tra il buio e la luce. “Questa cruenta battaglia si è svolta tutta nell’immaginazione. È quello il nostro campo di battaglia. È lì che vinciamo e siamo sconfitti. Naturalmente siamo tutti esseri limitati e alla lunga finiremo per perdere. Però, come aveva intuito Hemingway, il valore definitivo della nostra vita non sarà determinato da come avremo vinto, ma da come avremo perso.”
Né è il solo Hemingway a essere citato da Murakami: egli fa riferimento alla Anna Karenina di Tolstoi e al Sognatore delle Notti Bianche di Dostoevskij per il grande significato simbolico dei personaggi.
Come da un lato Anna risolve il suo lacerante conflitto interiore, lanciando se stessa e i suoi sogni contro la brutale realtà della locomotiva, e dall’altro l’uomo di Dostoevskij viene abbandonato da quel Dio che egli stesso ha creato, così il mondo immaginario di Katagiri si scontra con quello reale, non meno terrificante, che egli identifica infine proprio con la locomotiva di Anna Karenina.
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Tre sfumature d'ossessione
Dall'inventore della celebre serie Mad Men, ecco a voi una storia che un grandissimo autore noir che è James Ellroy definisce "Un noir perfetto". Sarei curioso di sapere se siano state letteralmente queste le sue parole o se siano state estratte e trattate così da rendere il libro più vendibile. Se un libro che ci viene presentato come noir viene definito "perfetto" da uno dei più grandi esponenti del genere, la curiosità nasce spontanea. Questa tattica può essere però un'arma a doppio taglio: se da un lato può attirare più lettori poco informati e registrare migliori vendite nei primi giorni, si carica di un'aspettativa molto maggiore che può essere facilmente delusa. Perciò, chi si ritrova a commentare il suddetto libro può ritrovarsi ad essere più spietato di quanto sarebbe stato se gli editori fossero stati un po' più "umili". Di conseguenza, i lettori che arriveranno successivamente potranno essere influenzati da quel giudizio, inquinato da eccessive aspettative.
Proverò a sottrarmi a questo fattore, per quanto mi è possibile.
Weiner scrive discretamente, senza infamia e senza lode. Bisogna dire che perlomeno non annoia, ma se avesse annoiato con un libro così breve (tanto da sembrare quasi un racconto), ci sarebbe stato da preoccuparsi seriamente. "Heather, più di tutto" è questo, un racconto con qualche buona idea ma niente di più. Certo, la storia da' vari spunti interessanti soprattutto verso la fine, ma è un'opera ben lontana dall'essere indimenticabile, figuriamoci essere perfetta. Tuttavia non mi sento di stroncare totalmente quest'opera, forse perché mi rendo conto che si tratta di una vera e propria occasione sprecata. Perché il talento dell'autore c'è (come dimostrato in Mad Men), ma questa storia è talmente breve e sbrigativa che il lettore non può fare altro che rimanerne spiazzato. La stessa Heather, che da' il nome al libro, sembra essere stata trattata con superficialità, regalando al suo approfondimento non più di qualche breve paragrafo.
Tutto inizia col matrimonio tra Karen e Mark; lei una bellissima donna con una evidente difficoltà ad imporsi e con una bassa autostima, e lui un uomo non molto bello e con un discreto successo, ma che non riesce a spiccare definitivamente il volo. Il frutto di questo variopinto matrimonio darà alla luce una piccola bambina che sarà la loro ossessione e la loro delizia: Heather.
Heather è una ragazzina che crescendo dimostra di poter avere la bellezza della madre e il successo del padre, se non molto di più. Fin da piccola riceve tutte le attenzioni morbose della madre, che dimostra a lei un attaccamento assolutamente eccessivo. Ecco la prima ossessione.
In contrapposizione alla vita perfetta di Heather e famiglia, c'è la vita di Bobby, nato in un ambiente sudicio e cresciuto (o sarebbe meglio dire ignorato) da una madre che è un'accozzaglia di tutti i vizi peggiori: ubriacona, drogata, tossica, che cambia un fidanzato al giorno. Come poteva mai crescere un ragazzino circondato da una simile realtà? Tra violenza e anni di carcere si ritroverà a lavorare come operaio nel palazzo dove vive Heather, per delle ristrutturazioni. Inutile dire che non le passerà inosservata. Seconda ossessione, da cui deriva la terza, quando il padre si accorge delle attenzioni (pericolose?) dell'operaio.
Una lettura piacevole, ma senza troppe pretese.
" [...] gli rivelò che anche lei, come lui, aveva sofferto per la crudeltà della gente, ma era arrivata a capire che non possiamo mai arrivare a vederci come ci vedono gli altri, e che non è un problema sembrare isolati a patto di ricordare che siamo diversi da come veniamo visti."
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Oltre il passato
Ultima opera di un’autrice che ha scritto molto e che cosa curiosa, ho scoperto che da ben trentacinque anni a questa parte, inizia ogni libro l’8 gennaio.
Un’autrice che pur avendo scritto tanto io conosco poco e nulla, vuoi per il pessimo approccio che ho avuto con il libro “Paula” in passato o vuoi per le ultime opere che hanno avuto recensioni non molto alte.. comunque mi sono ripromessa di approfondirla meglio.
Con “Oltre l’inverno” siamo in piena bufera e Brooklyn non è proprio pronta a tutta questa neve che sta bloccando la città. Una moltitudine di persone in una grande città, ma sono tre quelle che interessano a noi:
“Nei tre giorni successivi, mentre la bufera iniziava a stancarsi di castigare la terra per andare a dissolversi nell’oceano, le vite di Lucia Maraz, Richard Bowmaster e Evelyn Ortega si sarebbero legate inestricabilmente”.
Tre persone diverse, tre cittadinanze diverse e tre passati diversi ma tutti accomunati da qualcosa da cui non si riesce ad andare oltre.
Isabel Allende mette a nude le vite dei suoi protagonisti riportando a galla passati da dimenticare. L’Allende parla del suo Sud America, del passato ma anche del presente, toccando il tema dell’immigrazione clandestina e della malavita e di tutto il marcio che toglie la speranza alle persone, che pur nel buio, cercano di trovare la loro piccola fiamma per continuare, anche se sono in molti quelli che s’impegnano per spegnerla del tutto.
Due over 60 e una ragazzina balbuziente si metteranno in gioco e cercheranno di risolvere un problema che ormai è diventato comune, affrontando molte difficoltà che andranno a toccare nel profondo i protagonisti.
Tanto di cappello all’autrice per le tematiche trattate pur essendo cose di cui ho già letto, uno sguardo da chi le ha conosciute più da vicino è sempre importante. Quello che personalmente invece non posso negare è la poca empatia trasmessa. La storia si alterna fra presente e racconti passati e nel passato sono molte le cose toccanti che succedono, ma restano solo in superficie, come se il lettore si trovasse a leggere di una catastrofe su un giornale, non come se leggesse la sofferenza che il protagonista sta provando e ha provato. Posso fare un esempio per spiegarmi meglio: sono una lettrice che assimila (effetto spugna) quello che legge e la mia sensibilità mi spinge sempre ad abbandonare alcune letture la sera per evitare di rivivere certe scene appena lette..questo libro l’ho potuto tranquillamente leggere la sera, perché pur trattando argomenti molto forti, mi sono scivolati addosso. Li ho recepiti, li ho letti e poi ho voltato pagina e quando si legge certi argomenti, non si dovrebbe mai solo voltare pagina.
Spero di essere stata chiara, una storia interessante per le tematiche ma molto meno per quello che trasmette e quel tocco di giallo ci può stare come no..
Buona lettura.
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Quattro vite per diventare uomo
Uno dei romanzi più attesi dell'anno che sta volgendo al termine, definito dai critici “il capolavoro di Paul Auster” o “una poderosa autobiografia”.
La mole è importante, non passano inosservate novecento pagine e la lettura richiede tempo per la numerica delle righe e tanto impegno per entrare nella ragnatela narrativa.
Non una vita narrata, bensì quattro possibili vite, quattro strade che il nostro giovane protagonista avrebbe potuto percorrere.
Un racconto che si dipana dalla soglia degli anni Cinquanta percorrendo un ventennio, il tempo che racchiude infanzia, adolescenza e giovinezza di un ragazzo americano come tanti, entrando all'interno delle dinamiche familiari e formative, facendole specchiare continuamente con la situazione socio-politica del periodo.
Il piccolo Archie, nasce, cresce e si forma attraverso tutte le vite che Auster gli cuce addosso, in una continua corsa ad ostacoli tra le beffe del destino e le difficoltà del vivere cui nessuno è esente.
Aspirazioni e delusioni, amori e solitudini si fondono in tutte le vite possibili.
Niente sconti forniti dalla sorte, l'essere umano si deve guadagnare ogni traguardo.
Lo schema narrativo è supportato da un contenuto florido e straripante di dettagli di nomi, luoghi, fatti, persone, opere letterarie, che portano talora allo sfinimento.
D'altronde l'autore deve dare la misura al suo lettore della formazione di un giovane nato nel 1947, in pieno periodo post bellico, in una America con numerose problematiche interne da risolvere, con conflitti sociali da gestire e da sanare.
Tanto lo spazio dedicato alla formazione scolastica, all'ingresso nel mondo variegato dei college, all'incontro con il mondo della scrittura sia essa vena poetica, giornalismo oppure narrativa.
Giunti al termine del labirinto dopo tanto viaggiare tra la marea di pagine, viene difficile pensare che Auster non abbia ritratto un pizzico di se stesso, soprattutto in quell'insistere sulla vocazione per la scrittura, presenza costante di tutte le vite del protagonista, oltre a rappresentare un periodo da lui vissuto.
Si percepisce fortemente che la penna che scrive era presente ed ha vissuto là e in quel tempo, lasciando nel romanzo un'impronta personale e palpitante.
Al termine del lungo viaggio è naturale interrogarsi se il costrutto complesso sia del tutto necessario ai fini dell'economia della narrazione o se una sapiente sfrondata lo avrebbe reso più agevole e più appetibile. Detto ciò e lasciando aperto l'interrogativo, il romanzo è senza dubbio frutto di un grande lavoro di scrittura, volutamente prolisso in alcune parti, una narrativa che abbraccia la storia senza perdere di vista il percorso psicologico dei protagonisti. Un percorso che si divide in un quadrivio, per confluire nell'esemplificazione della vita di un uomo, tra vita e morte.
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si cresce solo quando si ama
“L'amore salva?” per rispondere a questa domanda posta all'inizio del suo ultimo romanzo/saggio l'autore ci presenta la vita di trentasei donne che hanno amato artisti e letterati di fama internazionale quali L. Van Beethoven, V. Van Gogh, A. Modigliani, A. Hitchock, F. Fellini, G. Leopardi, J. Keats, P. Solinas, D. Foster Wallace, J. R. R. Tolkien, J. Cortazar solo per citarne alcuni. Donne che hanno donato o negato il loro amore, donne che sono state muse o che con le muse hanno dovuto lottare: mogli, amanti, compagne, amiche spesso rimaste nell'ombra sebbene fossero loro le vere artefici di tanta ispirazione.
Attraverso aneddoti, testimonianze, lettere e citazioni l'autore fa rivivere dedizione e passione, ma anche delusione e tradimento, storie di vita reale costituita da fugaci gioie e numerose sofferenze. Molte sarebbero le figure meritevoli di essere qui ricordate, mi limito a riportarne due che mi sono rimaste impresse. Anna Magdalena, cantante d'opera, entrando in una chiesa rimase rapita dalla musica celestiale di J. S. Bach e da quel momento dedicò la sua vita a lui, già vedovo e con quattro figli, per essergli fedele fino alla morte nel suo ruolo di moglie e madre dei tredici figli che allevarono insieme. La musica rimase sempre la loro principale forma di dialogo e quando il grande compositore divenne cieco, lei continuò a scrivere le partiture per lui tanto che alcuni critici hanno dubitato che certe opere siano frutto del genio di Magdalena più che di quello del suo noto consorte.
Molto toccante anche la storia di Anna che, giovanissima, fu assunta da F. Dostoevskij come stenografa per scrivere i libri che lui, dedito all'alcool e al gioco d'azzardo, per bisogno di denaro doveva consegnare al suo editore in tempi brevi. Il loro matrimonio durò quattordici anni, Anna lo accompagnò con devozione fino alla morte e anche nel momento del trapasso si confessarono la loro fedeltà e il loro reciproco amore.
L'amore è da sempre “il motore di tutte le storie”, l'antidoto in grado di fermare e dilatare il tempo, la compensazione all'insaziabile desiderio di infinito dell'uomo. Il filo conduttore, quel filo rosso che attraversa trama ed ordito dell'immagine di copertina, è l'archetipo di tutte le storie d'amore, il mito di Orfeo ed Euridice. D'Avenia con meticolosità analizza in dieci “soste” ciò che la tragica metamorfosi narrata da Ovidio trasmette al lettore contemporaneo andando anche oltre il significato letterale; in queste tappe l'autore si sofferma su temi di carattere filosofico: il tempo, il dolore, la felicità, l'arte e ovviamente l'amore. La storia di Orfeo è emblematica: solo dopo aver accettato e superato il dolore della perdita, per ben due volte, dell'amata Euridice e solo dopo la sua stessa morte, atrocemente dilaniato dalle Baccanti, Orfeo potrà ricongiungersi con la sua sposa in una dimensione nuova, quella di un amore puro, eterno, libero.
“L'amore è scampare alla morte come un naufrago e aggrapparsi al perimetro di un abbraccio, riconoscere il dolore dell'altro e farlo diventare anche il proprio. In questo continuo perdono della mortalità, dell'insufficienza, del limite altrui, l'amore dà scacco al tempo, e quindi alla morte. (p. 280). E così torniamo alla domanda iniziale: “L'amore salva?” la risposta è senza dubbio affermativa. “Ogni storia d'amore è una vittoria sulla morte” (p. 303). Rimane tuttavia aperta un'altra, ancor più difficile, questione con cui si chiude il saggio di D'Avenia: “Che l'amore possa salvare non è un mistero, il mistero è perché respingiamo la salvezza, gettandoci nelle spire del disamore” (p. 309). Ma questa è un'altra storia, quella della libertà che l'uomo ha di scegliere il proprio destino.
“Ogni storia è una storia d'amore” è un'opera densa: ad ognuna delle trentasei figure prese in considerazione l'autore dedica poche pagine, ma molti sono gli spunti che sollecitano la curiosità ed invitano ad approfondire la vita e le opere dei numerosi artisti citati e delle donne che li hanno ispirati. Alla densità di contenuti si accompagna inoltre uno stile piuttosto elaborato, ricco di citazioni, spiegazioni, argomentazioni atte a coinvolgere il lettore forse più sul piano intellettivo che su quello emotivo.
Una lettura arricchente ed appassionante consigliata a tutti coloro che credono nella forza e nel potere dell'amore perché, come afferma l'autore, “si cresce solo quando si ama” (p. 116)
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Tre esistenze "amorevoli"
Dacia Maraini, autrice che ha firmato capolavori quali La lunga vita di Marianna Ucria che ha raggiunto la notevole cifra di un milione di copie vendute, approda ora in libreria con un nuovo testo dal titolo Tre donne, dove mai titolo fu più emblematico. Le tre donne di cui parla il testo sono: la nonna Gesuina, la figlia Maria e la nipote Lori. Tutte e tre accomunate da un’unica caratteristica: tutte e tre tengono un diario. Lori lo tiene su di un quadernetto ben nascosto in un piccolo incavo della parete di camera sua, la nonna Gesuina possiede un piccolo registratore su cui incide il racconto delle sue giornate e che porta sempre con sé ovunque. Maria, invece, che fa la traduttrice di professione, scrive lunghe lettere, ostinatamente su carta, vergate con la penna stilografica. La nonna Gesuina, ex attrice riciclatasi in “donna delle punture” a domicilio, ha pensieri audaci e umore quasi sempre allegro, fa la casalinga tuttofare. Vorrebbe ancora amore e sembra anche sesso, nonostante l’età non più freschissima, e freneticamente chatta via Internet nella speranza di trovarvelo prima o poi. Infatti:
“Una attrice che fa l’infermiera? E’ tutto da ridere, come dice mia nipote. Ma se in tanti anni di palcoscenico più che a recitare ho imparato a curare le malattie, a fare le iniezioni, cosa ci sarà di storto? Ho un’anima da medico, mi piace curiosare nei corpi malati, mi piace capire il male dove sta, mi piace trovare, anzi direi inventare le cure. (…) Sono la maga delle iniezioni.”.
La figlia Maria scrive al suo corrispondente Francois, lontano registrando con puntiglio sentimenti ed avvenimenti. Lori, invece, diciassettenne inquieta, spesso egoista, ribelle con tatuato sulla schiena un gran drago, non è tanto gentile nei confronti della sua scombinata famiglia, ma è a ben scavare infinitamente tenera.
Un siffatto equilibrio, un po’ instabile, è destinato ad essere sconvolto quando nelle loro tre esistenze irrompe Francois,
“un bell’uomo, i capelli un poco grigi sulle tempie, ma proprio bello, col naso piccolo ed appuntito, gli occhi malinconici grandi e di un colore strano, sul viola, le labbra carnose rosee e sorridenti, due braccia lunghe come quelle di un orangutango, un corpo da atleta e senza pancia.”
E le pulsioni scatenate dall’arrivo del bel maschio in una comunità femminile, inevitabilmente, portano con sé l’irreparabile, ciò che non avrebbe dovuto accadere.
In Tre donne:
“ogni donna è una voce, uno sguardo, una sensibilità unica ed irrepetibile.”.
Il sottotitolo parla di:
“una storia d’amore e di disamore”,
e certamente l’amore è la colonna portante dell’intera narrazione. Amore che è: desiderio, fame, bisogno, mancanza o nostalgia d’amore, e ciascuna delle tre donne vi anela con determinazione, scoprendo tuttavia alla fine che lo cercava probabilmente nel luogo sbagliato.
Infatti la vicenda narrata è:
“una fotografia delle più imprevedibili sfumature del desiderio, vissuto nelle diverse età della vita. Parole che spesso testimoniano la donna che non ha mai smesso di lottare per difendere la forma più pura d’amore: quello per la libertà. Perché solo chi ha vissuto mille esperienze attraversando il mare in tempesta del ‘900, può testimoniare come l’amore sia l’unica bellezza a cui è impossibile rinunciare.”
L’autrice è, infatti, una firma esperta, il libro è uno spaccato femminista e femminile su un universo complicato e variegato, dove non ci sono né proclami né dogmi; ma solo e sempre il ritratto vivido e preciso di tre donne che meritano stima e comprensione. Tre esistenze che si librano alte nel cielo del firmamento con le loro gioie e dolori, passioni e tragedie. Una lettura intimistica di gran fascino.
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Una sanguinosa caccia al tesoro
Ludus in fabula è un giallo storico. L’ultimo di Danila Comastri Montanari che ha come protagonista il senatore detective Publio Aurelio Stazio; serie iniziata con Mors tua, che ha registrato un ottimo successo di pubblico. Danila Comastri Montanari è divenuta, infatti, un vero e proprio punto di riferimento per gli amanti del giallo storico, ma non solo: anche per gli estimatori delle civiltà antiche.
Il libro è ambientato nell’antica Roma nell’anno 47 d.C., dove una nuova caccia al tesoro imperversa tra i suoi abitanti con furore: è un gioco facile, alla continua e sollecita ricerca di indizi, elementare e quasi infantile:
“E’ un nuovo gioco molto in voga nell’Urbe, nel quale si devono trovare indizi misteriosi, che è necessario interpretare correttamente per recarsi poi in determinati posti della città, dove vengono lasciate altre tracce, atte a loro volta a dirigere i concorrenti in un luogo ancora diverso. E tutto ricomincia da capo.”
E’ durante una di queste cacce che Pomponia, grande amica del senatore Publio Aurelio Stazio, si imbatte in un macabro ritrovamento: una mano umana giovane, completamente mozzata, abbandonata sul basamento di una statua. E’ troppo per lei, che perde i sensi. Riavutasi non può che recarsi alla porta del suo buon amico, il senatore, per chiedergli di risolvere un caso così macabro. Non solo sarà presto chiaro che quello che all’inizio pare essere solo un modo ludico per trascorrere il tempo, in realtà è “un gioco di morte” che dissemina cadaveri innocenti. Infatti:
“quello che aveva avuto inizio come un banale gioco, ora si rivelava invece come una serie di omicidi tesi a colpire i deboli tra i deboli, bambinetti senza famiglia, senza casa, senza nessuno a difenderli, poveri rifiuti umani abbandonati come bestie selvatiche in una città spietata.”.
Ed ecco come gli interventi di Publio Aurelio Stazio e dei suoi uomini di fiducia quali Castore e il fido amministratore Paride e l’anatomopatologo Ipparco possono mettere fine a una così lugubre e pericolosa messa in scena. Il senatore non è nuovo a rivestire i panni del detective, infatti:
“Publio Aurelio Stazio è l’ultimo rampollo della nobilissima famiglia degli Aureli, che fa risalire le proprie origini ad Anco Marzio. Cresce con poche attenzioni da parte del padre, suo omonimo, uomo autoritario e violento, e della madre, che dopo aver divorziato, si risposa per ben cinque volte e va a vivere in Oriente. Lui cresce con la nutrice Aglaia. Acquisisce la sua fortuna a sedici anni quando il padre muore in un banchetto, lasciando padrone di un ingente ed immenso patrimonio. Ciò gli permette di soddisfare tutte le sue ambizioni: viaggiare, studiare filosofia, e soprattutto corteggiare ed amare tante donne. Risulta allergico al matrimonio, tanto che la sua unione con Flaminia, che sposa a ventidue anni, ha vita breve e va in frantumi dopo la morte del figlio ancora in fasce. (…) Si consola con numerose amanti, con poca o nessuna attenzione alle loro condizioni sociali, grazie alla sua ricchezza, al suo carisma e al suo bell’aspetto. (…) Come se la vita sentimentale, i libri, gli amici e la politica non fossero abbastanza per lui, si ritrova immerso in vari delitti. Contando su vari aiutanti.”.
Il libro è di affascinante lettura. Unisce perfettamente una trama ricca di pathos e di mistero all’amore per le civiltà del passato, descritte con rara minuzia di particolari e di conoscenze. L’antica Roma è dipinta con tratti sapienti e precisi. Una Roma che pare di toccare con mano tanto è vera e viva. La Roma di epoca imperiale con il alto gloria, smodata ricchezza, spesso viziosa depravazione e in basso povertà , fame, superstizione, schiavismo, delinquenza.. Una ricostruzione storica e di costume da leccarsi i baffi! Inoltre un uso ricercato di termini latini spiegati alla fine del testo che arricchiscono e completano la narrazione. Un viaggio nel passato, antico e fascinoso, per comprendere ed accettare un presente, a volte difficoltoso e malagevole. Un trait d’union tra ciò che è e ciò che è stato di rara bellezza. Uno studio e una passione per le civiltà antiche che traspaiono in maniera evidente per tutta la lettura, resa per questo ancora più affascinante ed intrigante.
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La memoria ha bisogno di radici
“Nelle grandi città , le persone che si sono perse di vista da tempo, o che non si conoscono, si ritrovano una sera su una terrazza per poi perdersi di nuovo. E nulla è davvero importante.”
In queste righe il vero tema del romanzo di Patrick Modiano “ Dall’oblio più lontano” uscito in questi giorni edito da Einaudi. Una storia semplice, apparentemente banale, che vede come protagonisti un giovane ventenne che vive della vendita occasionale di libri vecchi, una donna, Jaqueline e un uomo, Gerard Van Bever, di cui non si sa nulla, che si mantengono con le vincite al gioco nei casinò di provincia e di piccoli traffici poco chiari. Ciò che accomuna questi personaggi è la mancanza assoluta di radici stabili. Ognuno fugge da un passato al quale si accenna solo brevemente o che si ignora del tutto. Tre individui che gestiscono la loro libertà senza tuttavia riuscire a raggiungere uno stato di serenità che possa garantire loro un minimo di felicità. Il loro è un continuo vagabondare per le strade di Parigi, con qualche sosta nei bar, dove spesso allacciano relazioni casuali e superficiali con sconosciuti, senza tuttavia colmare quella profonda solitudine che non li abbandona. E i loro giorni senza meta trascorrono pervasi dal profumo penetrante dell’etere, facile rifugio nei momenti peggiori. Sullo sfondo di queste vite senza passato e senza futuro, una Parigi descritta dettagliatamente, itinerario per itinerario. Una Parigi che è l’unico punto fermo, l’unica certezza per queste esistenze alla perenne ricerca di una identità . Ed è proprio l’assoluta mancanza di identità la caratteristica principale del protagonista, di cui non conosciamo neanche il nome. E d’altronde anche per Jaqueline il nome ha carattere di provvisorietà: dopo essere scomparsa per lunghissimi anni, ella riappare con un nome diverso, Therèse. Dunque la realtà è ingannevole quanto mutevole. L’unica certezza che resta è la città con la sua toponomastica, con i suoi percorsi immutati, l’unica possibile sede di una memoria che svanisce se non radicata nel passato e proiettata verso il futuro.
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Il sindaco nel fosso...
Koch ci ha abituato alla sua penna cinica, priva di ipocrisia, spietata verso tutto e tutti, attraverso cui ci presenta un'Olanda non proprio idilliaca...
Un'Olanda piena di pregiudizi sociali e razziali, ben mascherati ma comunque presenti.
Un'Olanda sporchissima in cui la raccolta differenziata non funziona...dove si condanna uno scandalo a sfondo sessuale, ma si accetta di buon grado la ristrutturazione di una fontana per mano di schiavi cinesi sottopagati...
Un'Olanda molto più provinciale dell'immagine che vuole dare al mondo con le sue vetrine e le sue finestre sempre aperte "perché tanto non c'è nulla da nascondere".
In questo nuovo romanzo è Robert, il sindaco di Amsterdam, a parlarci: un uomo di successo, un sessantenne ricco e piacente all'apice della carriera, con una bella moglie straniera, di cui si guarda bene dal dirci di quale nazionalità sia, proprio in virtù di quei pregiudizi da cui neanche lui è esente.
Tutto il libro si basa su delle suggestioni, sulle rimuginazioni infinite di Robert dopo aver visto sua moglie, ad una festa, ridere di gusto "buttando la testa all'indietro" con un suo assessore insignificante ed ambientalista.
Eccolo lì...il sospetto del tradimento.
Da quel momento verrà risucchiato nelle spire di una gelosia (molto poco "nordica") che lo porterà a studiare ogni minimo dettaglio, espressione, movimento, respiro e sospiro di sua moglie, atteggiamenti che, logorandolo, lo porteranno ad un repentino declino sia personale che politico.
Si strangolerà con i fili delle proprie paure, decretando il proprio fallimento.
Intorno a lui vedremo ruotare tematiche importanti, quali l'eutanasia, la paura del decadimento fisico e psichico, la malattia, il suicidio, l'infinita immensità dell'universo e la "piccolezza" dell'uomo...tutte però spogliate della loro drammaticità e filtrate dallo sguardo tagliente tipico dell'autore.
Un romanzo ricco di spunti, di riflessioni sul mondo moderno, sul concetto di democrazia...eppure, a parer mio, molto lontano dalla forza dirompente de "La cena" e dalla cattiveria spiazzante di "Villetta con piscina".
A tratti prolisso e ripetitivo.
Un Koch un po' in sordina, un Koch che avrebbe potuto osare di più.
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The Golden House
New York, la famiglia Golden costituita dal padre Nerone (detto Nero) Julius Golden e dai tre figli maschi, due ottenuti dalla moglie più anziana e uno, il più piccolo, di anni ventidue, dalla consorte più giovane, fanno ingresso al Greenwich Village, a bordo di una limousine Daimler, con nuove identità, un passato da dimenticare, alcuna presenza femminile al seguito, e una serie di “golden standard” da rispettare. In merito, chiare sono le indicazioni del genitore: da adesso in poi, mai e poi mai, alcuno di loro avrebbe dovuto far riferimento a quelle origini che si sono lasciati alle spalle. Grazie, infatti, alle loro caratteristiche fisiche, indubbia sarebbe stata la mimetizzazione, basti pensare che Nero stesso, con la sua conformazione tozza, i suoi occhi neri, i suoi avambracci da lottatore, i suoi opulenti monili d’oro, i suoi capelli tinti tirati all’indietro, sarebbe potuto passare tranquillamente tanto per un inglese, quanto per un immigrato dell’Europa medio-orientale. Quale luogo migliore per ricominciare, passare inosservati e dimenticare? Quale luogo migliore per lasciarsi alle spalle quel passato triste che ha avuto inizio in India, in quel di Bombay, luogo dove nella notte tra il 26 e il 27 novembre 2008 i terroristi musulmani di Lashkar-e-Taiba, l’esercito dei Giusti, provenienti dal Pakistan nello scagliare i loro attacchi prima contro la stazione ferroviaria nota come Victoria Terminus e, di poi, contro il Leopold Café a Colaba, contro l’Oberoi Trident Hotel, il Metro Cinema, il Cama and Albless Hospital, la Jewish Chabad House e il Taj Mahal Palace, per quelli che furono tre giorni di assedio e di combattimento, mieterono, tra le varie vittime, anche la madre dei più grandi giovani Golden?
Spettatore, osservatore, che poi si è conquistato la scena è René, aspirante regista di origine belga, che vuole realizzare una pellicola sulla opalescente famiglia. Con il proseguo delle vicende, il suo ruolo nella narrazione si rinnova tanto da finire con l’essere il detentore della morale del componimento.
Sin dalle prime battute, “La caduta dei Golden” colpisce sia per intenti che per contenuti. Salman Rushdie, ormai settantenne, abbandona in questa opera il suo solito e classico genere per realizzare, per quanto possibile, il sogno del “grande romanzo americano”. E questa volta, a differenza di “Furia” classe 2001, che chiaramente conteneva al suo interno l’impronta del neo arrivato negli states, l’autore dimostra di aver messo radici e, seppur ammetta di non potersi definire un nuovo DeLillo, e seppur ammetta di avere ancora molte lacune su quello che è il pensiero americano, si offre al grande pubblico con la volontà di fotografare il volto, se non altro, di New York.
Con questa breve premessa e con questi punti di partenza, l’anglo-indiano illustra l’eterogeneità della Grande Mela, utilizzando quale strumento narrativo la voce degli immigrati. Questi sono il mezzo attraverso il quale sono delineate le mutazioni del nuovo continente, le evoluzioni che nell’ultimo decennio esso ha avuto. L’elaborato di Rushdie, che ha inizio con l’era Obama, affronta quelli che sono tutti i tasselli di una crescita discontinua, fatta da passi avanti e passi indietro, una maturazione che si fa ancora più frammentaria e incoerente, intermittente, con l’era Trump, presidente delineato come una sorta di Joker e la cui vittoria è prognosticata ancor prima dell’avvento vero e proprio.
Ma badate bene, nonostante il compito auto-assunto dallo scrittore, quelli che sono da sempre gli elementi costituenti la sua poetica non mancano. Non a caso, infatti, viene riscontrata la metamorfosi, la migrazione, il declino, caratteri questi, ricamati in una tela precisa, meticolosa, serrata, che non lascia spazi e che non consente repliche. Se a questo aggiungiamo uno stile opulento, prolisso, costituto da un flusso di pensieri ininterrotti che si mixano e coadiuvano agli eventi, non stupirà il rimando all’opera classica. Veri padroni del testo sono i personaggi stessi: questi tessono, tramano e conducono.
Non solo. Altro obiettivo de “La caduta dei Golden” è quello di far riflettere sulla falsità che ci circonda. E’ come se fossimo serrati da una patina in cui il reale e l’irreale si fondono rendendosi indistinguibili. Chi è che ci governa, quali sono le conseguenze delle scelte politiche, chi è davvero Trump? Perché è così difficile analizzarlo? Cosa ne sarà degli Stati Uniti dopo il suo passaggio? E cosa non va in noi? Perché tendiamo sempre a sottovalutare quella presenza strisciante del razzismo? Perché ammettiamo e consentiamo che dilaghi? Perché ci facciamo trattare come pedine mosse da un Re che ci conduce ai suoi obiettivi e che ci distrae con fantocci di problemi e colpevoli?
In conclusione, un volume che può risultare complesso da leggere per il linguaggio adottato e per la forte impronta americana di cui è intriso, ma che, certamente merita di essere conosciuto e che consente molteplici riflessioni su quella che è la società attuale. Americana, e non.
«Cos’è una vita degna? Che cosa il suo contrario? Sono domande a cui nessuno risponderà alla maniera di un altro. In questi tempi vili, noi neghiamo la grandezza dell’Universale, mentre affermiamo e glorifichiamo i nostri fanatismi locali, sicché non c’è granché su cui andare d’accordo. In questi tempi degenerati, uomini mossi soltanto dalla vanagloria e dal profitto personale – uomini vacui e pretenziosi per i quali nulla è vietato, purché favorisca la loro meschina causa – si proclameranno grandi leader e benefattori dediti al bene comune e accuseranno gli oppositori di essere bugiardi, invidiosi, piccola gente, gente stupida, pesi morti e, con un completo capovolgimento della verità, disonesti e corrotti. Siamo talmente divisi, ostili gli uni agli altri, pieni di santimonia e disprezzo, talmente persi nel nostro cinismo, da chiamare idealismo la nostra pomposità; siamo così disincantati nei confronti di chi ci governa, così pronti a denigrare le istituzioni del nostro Stato che il “Bene”, come termine è ormai svuotato del suo senso e richiede, forse, di essere lasciato da parte per un po’, come tutte le altre parole avventate. “Spiritualità”, ad esempio, “soluzione finale”, ad esempio; ma anche (almeno quando la si applica ai grattacieli e alle patatine fritte) “libertà”».
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Che Dio ce ne scampi e gamberi
Marco Malvaldi, professione chimico. Ho letto la bio dell’autore soltanto dopo aver assaporato i primi capitoli, e l’associazione è arrivata immediata: Primo Levi, anche lui chimico e scrittore, che però ha vissuto una vita completamente diversa, in un’altra epoca, praticando tutt’altro genere letterario. Eppure, l’affinità c’è, si nota e forse si può ricondurre alla chimica: la precisione, la cura e l’attenzione con cui i personaggi sono evocati, descritti e “messi in scena” fin nei loro minimi particolari, dalla professione all’aspetto fisico, dal temperamento all’istruzione, dalle abitudini ai mezzi di trasporto, dall’abbigliamento alla salute, dal linguaggio agli umori, senza tralasciare vizi e idiosincrasie.
Nel palcoscenico più suggestivo della nostra Maremma i personaggi sono riuniti per comporre molto più di una semplice somma: si amalgamano in un organismo dalle peculiarità uniche. Il Poggio delle Ghiande è il fulcro e il motore immobile di questo giallo raffinato, che ricorda davvero le atmosfere di Agatha Christie, con tanto di stanze segrete e amori nascenti, ma si differenzia con un alcuni ingredienti in più: l’ironia che accende i toni, la disponibilità a giocare con vari registri e inconsueti, spaziando tra il grottesco e l’amabile. La penna di Marco Malvaldi dipinge un gruppo dalla complessità variegata, in cui i giochi di attrazione e contrasto formano una equilibrio precario, interrotto presto dall’esplosione sotterranea che genera il delitto, la morte, la rottura definitiva dell’armonia.
Tornando alle affinità “chimiche”: la documentazione accurata che amplifica il piacere della lettura e talvolta consente al romanzo di espandersi in dimensioni impreviste, offrendo digressioni che arricchiscono l’equilibrio complessivo della narrazione senza appesantirlo. Notevoli, per esempio, le battute sull’arte, sulla sua capacità di innescare stupore e cambiamento; strepitoso il dialogo sui differenti modi di dirigere un’orchestra, che penetra sia la storia del romanzo sia la sua struttura narrativa: “Ecco, Poggio alle Ghiande è, era, il nostro direttore d’orchestra”.
Una storia pienamente godibile dall’inizio alla fine, con qualche rallentamento tra le spiegazioni degli ultimi capitoli, che forse lasciano stagnare troppo a lungo la tensione: un’opera multistrato da assaporare con calma o da divorare con appetito... secondo i gusti e i temperamenti.
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In overdose
“Teng’a criatura”
“Creature” si dice a Napoli. Cosi’ pure vengono chiamati dalle loro madri i ragazzini della Paranza, come se i “bambini” appartenessero al mondo dei balocchi mentre sul pianeta della droga si e’ diretti discendenti del Creato. Senza regole, senza infanzia, senza innocenza vogliono tutto e tutto si prenderanno in qualsiasi modo.
E’ una guerra tra clan, che sancirà i nuovi prìncipi delle piazze ed il Re di Napoli. Sono i vecchi e potenti boss, rintanati a governare nei loro bunker, sfidati da giovanissimi che mirano al potere ed al trono.
La paranza dei bambini sopravvive ed incalza, guidata dal Maraja che si rivela essere un ottimo stratega oltre che un leader brutale.
Da Forcella a San Giovanni a Ponticelli, l’anziano boss non puo’ scoprirsi ad uccidere un ragazzino. Sarebbe come ammettere di averne paura. Ma le creature crescono, piu’ ci si avvicina al Regno dello spaccio e piu’ la via verso il Creato sara’ sgombra anche per loro.
Tolto il conflitto iniziale con la memoria annebbiata, costretta ad una moltitudine di personaggi ed una infinita’ di interazioni, il ritmo promette bene.
Il libro inizia schizzando, come carburato a V Power e pilotato da un pusher cocainomane inseguito dall’Antidroga. Il punto e’ che la trama non decelera mai, costringendo i primi entusiasmi in una snervante overdose di eventi. E’ talmente fitto di colpi di scena che ci si trova ad implorare un po’ di calma, che il troppo storpia. Apprezzo la volonta’ dell’autore di denunciare il maggior numero di dettagli inosservati nella realta’ di cronaca, ma la missione non deve diventare ossessione.
Nel “ Bacio Feroce” ho scoperto un Saviano scarsamente brillante nella penna, accumulatore compulsivo di fatti e dettagli a discapito dell’empatia che altrove ha dato un taglio emozionale alla prosa.
Pareva insomma la sceneggiatura di una decina di episodi di fiction, piu’ che narrativa fine a se stessa. Sensazione pruriginosa quando si compra letteratura e ci si ritrova impalmati ad una promessa di telecomando.
Il bellissimo “La paranza dei bambini” era un romanzo di denuncia ben calibrato, vergato con ardore e rabbia, con cuore e con estro. Il suo sequel scorre si’ cruento, feroce e disilluso. Ma e’ scritto in modo esondante, bulimico; e’ scritto.
Diffusissimo il napoletano nella stesura dei dialoghi, trattasi di un dialetto tanto musicale, scenografico e imprescindibile nel contesto che la potenza impressa val bene la poca fatica nel comprenderlo.
Benino ma non benissimo.
Padri e figli
Era appena adolescente, Antonio, quando gli è stata diagnosticata la patologia dell’epilessia idiopatica. Dopo un primo consulto in Italia, il giovane, con il padre, matematico ed insegnante, e la madre, docente di lettere, ormai separati, decide di recarsi in Francia, a Marsiglia, presso lo studio del Dottor Gastaut, un luminare nel settore della malattia de qua. A seguito di questo la vita del paziente torna ad essere “quasi normale”, può riprendere gran parte di quelle abitudini a cui era stato costretto a rinunciare e la sindrome sembra ormai essere sotto controllo. Trascorsi tre anni (siamo circa nel 1983), padre e figlio – ormai diciottenne – tornano in quel de la ville francese per il responso ultimo: sarà Antonio definitivamente guarito oppure dovrà continuare a sottoporsi alla terapia?
Apparentemente, il ragazzo sembra essersi ristabilito, il medico però, decide di sottoporlo ad un’ultima prova, la cd “prova da scatenamento” (oggi vietata e sconsigliata negli ambienti clinici). Padre e figlio, obbligati a causa di quest’ultima, a restare svegli per ben 48 ore consecutive (senza farmaci curativi e supportati soltanto da sorta di pillole a contenuto anfetaminico, atte e necessarie a evitare che il sonno sopraggiunga), si conosceranno, forse, per la prima volta, e, in questo colloquio inaspettato, riusciranno a mettersi a nudo, con le loro paure, forze e fragilità. Un’intimità, quella ritrovata, che Antonio, ricorda ormai da uomo adulto, con un vigore e una forza tale da far supporre che quei giorni siano celati in tempi brevi e non nei recessi della memoria.
Il tutto è avvalorato da una penna briosa, rapida, fluente e affatto impegnativa. La prima sensazione che coglie il lettore nello scorrimento delle vicende è, infatti, la leggerezza, nonostante, i contenuti, siano di indubbia riflessione. Carofiglio si distingue dal suo solito modus operandi ed anche se è percepibile la sua impronta “dietro” il componimento, non si può non apprezzare il tentativo di rinnovamento che in esso è racchiuso. Significativo anche il dato di provenienza delle vicende, liberamente ispirate a fatti realmente accaduti.
Una storia intensa, meditativa che tocca le corde più intime dei rapporti umani e familiari.
«Ero scettico e lui per convincermi ha citato un grande matematico polacco, Stefan Banach: diceva che i buoni matematici riescono a vedere le analogie ma i grandi matematici riescono a vedere le analogie tra le analogie. E’ una definizione geniale, e il mio amico diceva che la stessa cosa vale per i giuristi: quelli bravi colgono le analogie, le omogeneità e le disomogeneità, i grandi le analogie fra le analogie. Sono capaci di portare il discorso su un livello diverso.»
«Se la gente crede che la matematica non sia semplice, è soltanto perché non si rende conto di quanto complicata sia la vita»
Dancing in the dark
“ Ballando nel buio “ è il quinto romanzo della saga con protagonista il commissario Michele Balistreri.
Nei quattro libri precedenti i numerosi salti temporali, vero e proprio marchio di fabbrica di Roberto Costantini, avevano fatto luce sulla giovinezza trascorsa da Balistreri a Tripoli fino al 1970 e su una serie di indagini ambientate nel 1982 o negli anni 2000.
Mancava un pezzo. Era lecito chiedersi cosa avesse trasformato l’ irascibile commissario del 1982 nel rassegnato Balistreri degli anni 2000.
La storia di “ Ballando col buio “ inizia nel 1974, a Roma. Sono passati quattro anni dalla fuga di Mike dalla Libia e la rabbia ed il dolore per la misteriosa e irrisolta morte della madre Italia sono ben lontani dall’ essere metabolizzati.
Il ventiquattrenne Michele è un idealista convinto di cambiare il mondo, in contrapposizione a quello che lui considera uno Stato debole e opportunista. Si mantiene lavorando in una palestra e frequenta alcuni movimenti organizzati di estrema destra formatisi dopo la chiusura di Ordine Nuovo. Non è nuovo a rappresaglie e scontri con fazioni di schieramenti politici diversi, ma sa che c’ è una bella differenza tra il liberare un’ università occupata dai comunisti e la deriva terroristica che alcuni soggetti all’ interno del movimento sembrano voler intraprendere.
Dieci anni dopo, nel 1984, Balistreri è già da qualche tempo commissario alla sezione omicidi. Un funzionario di polizia senza stimoli, servitore di un paese in cui non si riconosce. Fino a quando l’ uccisione di un vecchio compagno di Ordine Nuovo divenuto nel frattempo un parlamentare della DC, lo ricaccia con violenza nel pieno degli anni della militanza.
Il colonialismo italiano. L’ ascesa e la caduta di Gheddafi. L’ immigrazione. I rapporti tra Chiesa e Stato. Sono solo alcuni degli argomenti più o meno attuali, spesso storie rimosse dalla memoria collettiva, che l’ autore aveva brillantemente tratteggiato nella serie con un sapiente mix di letteratura gialla e noir, cui vanno in questo caso ad aggiungersi la strategia della tensione e le stragi tristemente note degli anni di piombo come quella a Brescia del 1974.
E anche stavolta nel proprio ambizioso ritratto verosimile e storicizzato Costantini si affida ad una schiera di personaggi per la maggior parte menefreghisti, superficiali, egocentrici.
Il tutto capitanato dall’ onnipresente Balistreri. Un antieroe estremamente riuscito dotato di caratteristiche tutt’ altro che empatiche, ma che non può non farsi apprezzare per schiettezza e coerenza ad un proprio e personale codice morale.
Il ritmo della vicenda è incalzante, l’ alternanza temporale suscita curiosità nel lettore ansioso di voltare pagina per scoprire gli sviluppi dell’ indagine e per aggiungere nuovi tasselli alla storia personale del commissario.
Il livello qualitativo della serie continua ad attestarsi su ottimi livelli.
Credo che l’ autore abbia compiuto un salto in avanti in termini di maturità letteraria.
Anni fa i primi due romanzi della serie mi avevano a dir poco entusiasmato, ma se riconsiderati oggi con un pizzico di esperienza da lettore in più soffrivano di lunghezza e intreccio fin troppo lunghi e complessi. Il terzo aveva chiuso dignitosamente il cerchio aperto dai primi due, conservandone le stesse caratteristiche.
Credo che dal quarto romanzo in poi Costantini abbia trovato la giusta dimensione con un numero di pagine minore e storie mature, lontane dall’ epicità delle precedenti opere probabilmente impossibile da mantenere nel corso di una produzione seriale, ma più intimiste.
Proprio come Balistreri, che si lascia conoscere e capire sempre meglio col trascorrere del tempo.
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Un Langdon atipico
Dopo la quinta avventura che ha come protagonista il professore di simbologia Robert Langdon, si può finalmente dire: Dan Brown ha scelto la sua collocazione tra gli scrittori contemporanei, e non ha la minima intenzione di smuoversi da quel modus operandi che lo ha portato al successo con quei due capolavori che sono "Il codice da Vinci" e ancor di più "Angeli e demoni". Le storie di Langdon sono, in fin dei conti, tutte molto simili tra loro, solo proposte in "salsa" diversa.
Origin non fa eccezione, anche se a quest'ultima fatica manca una componente importante che da sempre ha contraddistinto lo scrittore statunitense, e che probabilmente gli dava un qualcosa in più: la componente artistica e misteriosa. Si, perché mentre nelle sue vecchie avventure ritroviamo un Langdon alle prese con le opere dei più grandi artisti della storia, tra i capolavori del Louvre, del Vaticano, L'ultima cena di Leonardo, L'inferno del maestro Botticelli, alla ricerca di indizi nascosti che possano portarlo allo step successivo dell'avventura, in Origin tutto questo è non dico assente, ma quasi. A discapito della copertina, che suggerirebbe tutt'altro(giusto per informarvi, la "Creazione di Adamo" non ha alcun ruolo nella storia, se non quella di copertina che possa rimandare al tema del libro), l'arte ha lasciato il posto alla tecnologia.
Per carità, Dan Brown si legge con piacere e ti tiene incollato alle pagine; è uno degli autori di intrattenimento più capaci che esistano attualmente sulla scena, che fa sapiente uso delle sue doti per trasmettere alle masse informazioni storiche e artistiche in maniera che sia piacevole. E' l'autore che più mi fa prendere lo smartphone per informarmi e saperne di più su tutto quello che cita e inserisce nelle sue storie. Di certo non potevo aspettarmi una profondità che, in fondo, non è mai stata nel suo stile. Ma, bisogna dire, che mi è parso non molto ispirato e spero che non abbia dato fondo a tutte le sue risorse.
Il nostro caro Langdon, oltre a recarsi tra varie difficoltà nel luogo dove si nasconde il suo obiettivo, fa poco altro. Inoltre, l'attenzione è stata data a una moltitudine di personaggi, a discapito dello stesso protagonista che abbiamo imparato ad apprezzare. Ma andiamo nel dettaglio.
Robert Langdon si trova al museo Guggheneim di Bilbao, invitato da un suo vecchio allievo(e caro amico) diventato un futurologo ultramiliardario, che ha organizzato un evento in quel museo allo scopo di svelare la sua più recente scoperta, la quale promette di essere una rivoluzione alla pari se non superiore a quelle di Darwin, Copernico e tanti altri luminari della scienza del passato. La scoperta di Kirsch promette di rispondere scientificamente alle due domande che affliggono l'uomo dall'alba della specie: "Da dove veniamo? Dove andiamo?". Inutile dire che l'imminente annuncio di Kirsch ha attirato milioni di persone in tutto il mondo, ma anche l'attenzione di esponenti religiosi che farebbero di tutto per metterlo a tacere, salvaguardando la fede nel mondo. Persone senza scrupoli, che nonostante la realtà che rappresentano non disdegnano l'uso di sicari, pur di salvaguardare il proprio Dio.
Durante la presentazione avviene qualcosa che nessuno si aspetta, che comprometterà la trasmissione del video in cui è contenuta la verità. Langdon, accompagnato dalla solita donna di bell'aspetto, che sara nientemeno che la promessa sposa del principe di Spagna, e da un'intelligenza artificiale potentissima di nome Winston progettata dallo stesso Kirsch, si troverà lanciato alla ricerca di una password nascosta(nemmeno troppo bene). Le energie mentali e le competenze di Langdon non verranno messe a dura prova come al solito, come ci piaceva vedere, ma si troverà immischiato quasi in una "caccia al tesoro" nemmeno troppo complessa.
Insomma, "Origin si legge con piacere, ma manca quel qualcosa in più che ha sempre contraddistinto Dan Brown, e questo mi ha fatto storcere un po' il naso. Spero che questa fase discendente che è iniziata con "Il simbolo perduto", non sia irreversibile.
Per concludere, il tema di questa storia mette in risalto come la tecnologia stia prendendo il sopravvento in questa nostra società contemporanea, quasi assorbendola. E' un bene? Un male? Non saprei, ma una cosa la posso dire: in questo libro è stato sicuramente un male, perché ha tolto parecchio di quel fascino che il nostro passato, per quanto imperfetto, emana, e che Dan Brown era bravo a portare alla nostra attenzione.
Efficienza a discapito della bellezza, quella vera. E' questa la direzione che stanno prendendo umanità e letteratura? Speriamo di no.
"Fin dalla notte dei tempi, la mente umana si è continuamente evoluta, e non starà certo a me impedire questo sviluppo. Dal mio punto di vista, però, non c'è mai stato un progresso dell'intelletto che non abbia incluso Dio."
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Chi lascia la strada vecchia per la nuova...
Un’ossessione, la storia che nasce da un adulterio ed evolve tra altri adulteri fino all’epilogo finale. Un’ossessiva commistione tra la vita reale, i film e i libri, un progressivo distacco dalla realtà fino quasi alla follia. Un professore si innamora di una giovane attrice di basso livello, con lei iniziano i “giorni di miele”, così come Barnes li definisce nel suo bello e a tratti ironico libro. La gelosia che diventa presto tormento, un atavico bisogno di indagare sul passato della sua giovane amante, che diventa sua seconda moglie. Un impulso irrefrenabile a conoscere i trascorsi amorosi della partner, “Prima di me” per l’appunto, un prima di me che diventa, giorno dopo giorno, “adesso e qui”. Il protagonista entra in una spirale da cui diventa impossibile uscire, vede il tradimento in ogni cosa, ogni uomo incarna un rivale in amore, presente e soprattutto passato. Un passato che non è passato nella testa del professore, un passato che fa più paura del presente e annulla completamente ogni vago pensiero sul futuro. Il conflitto interiore di un uomo che lotta tra l’amore e la gelosia, un sentimento che ci viene presentato, non come un complemento dell’amore, ma come un insormontabile ostacolo ad esso.
L’ultimo romanzo di Barnes non tradisce lo stile di questo scrittore, diretto, “semplice”, senza orpelli inutili, uno stile pulito e facilmente comprensibile, anche quando la realtà lascia il posto alla finzione, la vita vera si mescola perfettamente con la vita raccontata dai film.
Un romanzo che si legge agilmente e che fa riflettere sulla gelosia, sulle fissazioni della nostra mente e su molti fatti di cronaca che troppo spesso ultimamente riempiono i nostri notiziari.
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Un diamante maledetto percorre la storia
Marco Buticchi, un autore da:
“oltre un milione di copie vendute in Italia”,
torna con una nuova ed appassionante avventura: La luce dell’impero. L’autore ligure è stato il primo ad essere pubblicato da Longanesi nella collana “I maestri dell’avventura”, accanto a Wilbur Smith, Clive Cussler, e Patrick O’Brian. In particolare questa sua fatica letteraria vede il ritorno sulla scena di Oswald Breil e Sara Terracini, in una avventuraa che è solo l’ultima di una lunga serie, iniziata con Le pietre della luna. Sara Terracini è una studiosa di archeologia, nata alla fine degli anni ’60, vive a Roma, fisicamente di rara bellezza, si è sposata con Oswald Breil, straordinario uomo. Quest’ultimo è stato funzionario del Mossad, e con il susseguirsi dei romanzi diventa prima viceministro della difesa, poi primo ministro israeliano. Affetto da nanismo, ha condotto una vita avventurosa e brillante, possedendo rare ed importanti doti intellettuali. Infatti:
“Breil, poco più di un nano, aveva combattuto ogni genere di minaccia come capo del Mossad, e come esponente politico ai massimi livelli, ricoprendo dapprima l’incarico di vice ministro alla Difesa, e, in seguito, quello di primo ministro della Repubblica di Israele. Ora, da pubblico cittadino mostrava una spiccata propensione per il rischio. (…) Mai lasciarsi ingannare dalla sua statura ridotta e dall’aria innocente , era un gran errore. Oswald aveva dato scacco ai peggiori delinquenti internazionali, a terroristi sanguinari, a sette potentissime.” (pp. 158/60).
Ed è così che i due e il loro splendido yacht Williamsburg sono coinvolti in una storia che affonda le sue radici in un’altra epoca. Infatti dal Messico del XIX secolo fino ai giorni nostri, un diamante di inestimabile valore collega fatti lontani nel tempo e nello spazio con un impercettibile filo. Il filo è rappresentato dal mistero di un diamante, di colore paglierino, di 33 carati, dal nome Maximilian II, che riesce ad unire la tragica storia di Massimiliano d’Asburgo ai cartelli della droga messicana dei giorni nostri.
Ma andiamo con ordine perché la vicenda, oltre a svilupparsi su tempi paralleli, è ricca di riferimenti storiografici precisi ed intensi. Infatti:
“C’è un mistero che accomuna la figura di Massimiliano d’Asburgo a quella di Domacio Ruiz, uno dei più potenti narcotrafficanti del mondo. E c’è una ricerca- ed una storia- che porta Oswald Breil e Sara Terracini sulle tracce di una pietra antica e maledetta, un omicidio e un intrigo che non sarà facile dipanare, ancor di più perché, in questo intrigo ci finiscono: la lotta per la supremazia di un territorio da parte dei cartelli della droga messicani, le indagini di Tomaso Moreno, ex giudice impegnato nel pool antinarcos e il potere arcano e terribile di un diamante avvolto in un’aura tremenda ed antica.”
Il lettore è, così, diretto verso due direzioni diverse ed opposte. Per cui si riuscirà finalmente a rompere la maledizione che grava sul diamante? E quale incredibile filo rosso riuscirà a collegare nei secoli l’antica cerimonia pagana a tutti gli altri tragici avvenimenti di cui ho detto?
In La luce dell’impero si costruisce una intricata e avventurosa trama, fatta di continui rimandi storici lontani nel tempo e nello spazio, ricollegati al presente. Talvolta la narrazione si ingarbuglia, e spesso ho perso il filo. Ho molto apprezzato il modo scelto dall’autore di mettere all’inizio di ogni capitolo dei brevi riassunti, in modo tale che il lettore riesce un po’ a sentirsi sollevato in mezzo a tutti quei continui flash back tra passato e presente. Un romanzo portentoso e per gli amanti del genere avventuroso perfetto. Personalmente ho faticato molto a dipanare il filo della matassa. Un romanzo, però, ricco e preciso dal punto di vista storico, sicuramente frutto di ricerche accurate e diligenti. Inoltre il romanzo è attorniato a sua volta da un particolare mistero. L’autore al fondo narra di una storia alquanto bizzarra, di un account Facebook avvolto nel mistero, e nell’anonimato di un alias, di lunghe chiacchierate via chat e, soprattutto di un documento che gli viene inviato da questa strana amicizia. In quest’ultimo si narra la vicenda di Massimiliano d’Asburgo con dovizia di particolari e di una approfondita ricerca storica dalla quale lui stesso è partito per scrivere questo libro. Mah! La suspence è, comunque, assicurata.
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AUTOBIOGRAFIA EPISODICA
Nell’estate del 2016, in vacanza nel suo monte Amiata, Camilleri quasi novantunenne, cieco, tiene in esercizio la sua memoria e ricorda consegnando sotto dettatura ventitré racconti, squarci di una vita lunga, incredibile e ricca di avvenimenti. L’esercizio di memoria non assume mai il tono memorialistico quanto piuttosto quello della giustapposizione di aneddoti che hanno il dono di immergerci in atmosfere del passato, nella vita culturale italiana e di rimando ci addentrano nella storia del Paese; Camilleri sempre lì, testimone e quasi indiretto protagonista di un segmento temporale scandito da grandi nomi e da grandi eventi che sono già entrati di diritto nella storia politica, sociale e culturale dell’Italia e dell’Europa, lui ancora vivente. Restio alla pubblicazione dei testi partoriti dal ricordo in un volume, lui autore prolifico la vivrebbe come una sovrabbondanza accessoria, si fa convincere dal prodotto editoriale che gli viene proposto. Il volume esce accompagnato da cinque illustrazioni inedite di Alessandro Gottardo, Gipi, Lorenzo Mattotti, Guido Scarabottolo e Olimpia Zagnoli; egli, dopo aver sentito la descrizione delle tavole prodotte, ispirate dai suoi testi, dopo averle minuziosamente ricreate nel suo universo visivo dipinto ormai di nero, recupera i colori, le forme, vede di nuovo e gode dell’arte. Basta questo: l’ennesimo esercizio di una mente eccelsa che non si arrende all’oblio, in nessuna forma.
La lettura è godibilissima, intrisa dello spirito del suo autore, mai una vena malinconica ma sempre una verve ironica e un grande sentimento di riconoscenza rispetto alla sua esperienza di vita; una bella occasione per tutti insomma leggere questa sorta di autobiografia episodica, non è necessario aver letto le sue opere o essere un suo estimatore, la curiosità nel neofita si accenderà automaticamente pur essendo presenti nel testo rari riferimenti alle sue opere o al suo Commissario: regna sovrana una modestia che non si nutre di falsi allori. Belle e sincere e scanzonate le pagine dedicate al serissimo mondo dei Premi Letterari… La goliardia è sempre nell’angolo, alleggerisce fatti di vita anche tragici, molte le pagine con lo sfondo animato dai bombardamenti della seconda guerra mondiale o dai soprusi dell’epoca fascista, eppure strappa sempre un sorriso. Alcuni aneddoti hanno poi dell’incredibile e ci si ritrova a pensare che la fantasia abbia preso il sopravvento ma non è così: la vita di Camilleri ha il dono della meraviglia, della veridicità, della levità e in alcuni casi anche dell’ubiquità. Semplicemente vera.
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Bevo gin. Pianifico omicidi.
Quanti hanno mai pensato di uccidere qualcuno? Magari motivati da una violenza subìta o da un torto intollerabile, potrebbe capitare a molti di desiderare o anche solo immaginare una vendetta definitiva, assoluta, spinti spesso dalla convinzione che sia l'unica possibile forma di giustizia verso chi altrimenti rimarrebbe certamente impunito.
Certo, come diceva qualcuno, tra il dire ed il fare c'è sempre il mare, e per fortuna direi.. altrimenti avremmo probabilmente risolto il problema della sovrappopolazione mondiale.
In alcuni casi, però, il confine tra l'idea e l'azione diventa molto labile, il mare che li separa si assottiglia sino a diventare ruscello tanto che qualcuno agevolmente riesce a passare da una sponda all'altra.
Lily ha 30 anni, lavora a Winslow nel Maine come bibliotecaria presso il college universitario, poco appariscente ma di una bellezza raffinata che traspare nei dettagli, pelle candidamente rosea, sguardo magnetico amplificato da occhi di un verde cristallino in aperto contrasto col rosso dei lunghi capelli.
Non passa inosservata a Ted, affascinante uomo d'affari, ricco, molto ricco, grazie ad una serie di fortunate scelte nel florido settore delle startup web.
La sintonia è quasi immediata, basta il pretesto di un drink durante l'attesa del volo che li avrebbe riportati a Boston e subito scatta la scintilla tra i due, sguardi complici che si ricercano senza troppe remore in un'aura di crescente intimità.
Ted inizialmente nutre qualche sospetto sulla casualità di quell'incontro, dubbi che si dissolvono in pochi secondi grazie alla scaltrezza di Lily e qualche gin tonic di troppo. Tra l'altro, Ted ha un disperato bisogno di sfogarsi, ha appena scoperto che sua moglie Miranda lo tradisce con Brad, l'architetto che segue i lavori nel cantiere della loro nuova villa a Kennewick Beach.
Ne ha avuto certezza una sera in cui senza preavviso si è recato alla villa fingendosi in viaggio per affari. E li ha visti, li ha spiati mentre lui prendeva Miranda da dietro dopo averla spinta su un tavolino, con tale veemenza da lasciar presupporre che non fosse la prima volta che lo facessero: chissà da quanto tempo Miranda lo tradiva con quell'uomo a sua insaputa, anzi senza lasciar trapelare il minimo segno di insoddisfazione nei suoi confronti.
Ed è questo che lo infastidisce maggiormente: non solo la rabbia per il tradimento subito quanto soprattutto la falsità della moglie che imperterrita e senza il minimo disagio continua a fingere amore nei suoi riguardi.
"La studiai in viso alla ricerca di una traccia di ipocrisia, ma invano. I suoi occhi castani brillavano di quella che pareva autentica gioia. Tanto che per un momento provai il calore di chi si sente amato. Ma un istante dopo il calore passò, e fui costretto ad ammirare per l'ennesima volta il talento da attrice di mia moglie. La sua natura bifronte."
Lily lo ascolta, con attenzione, registrando ogni minimo dettaglio di quella conversazione: non è invadente, ma sa come circuire un uomo, sa come guidare i pensieri di Ted nella sua direzione, verso il suo vero obiettivo.
'Miranda dovrebbe morire': è la frase con cui Ted termina il racconto della sua storia, pronunciata quasi senza pensarci, inevitabile sfogo del suo desiderio di vendetta.
Forse Ted si aspettava un minimo di disappunto da parte di Lily, un tentativo di distorglierlo da pensieri così spropositati; si troverà invece quasi disorientato nel momento in cui Lily gli darà ragione e gli offrirà il suo aiuto per uccidere la moglie.
Perchè persone così meritano di essere uccise:
"Onestamente, non credo che l'omicidio sia così brutto come lo dipingono. Tutti dobbiamo morire. Cosa cambia se un paio di mele marce cadono dal ramo un pò prima di quanto Dio avesse previsto? E tua moglie ha proprio l'aria di una che meriterebbe di essere ammazzata".
Il romanzo di Peter Swanson non brilla certo per originalità: tipica trama dalle tinte noir in stile americano, immancabili femmes fatales dall'irresistibile potere ammaliante, ciniche ed ambiziose da una parte, vendicative e giustiziere dall'altra; uomini soggiogabili come marionette, siano essi ricchi o desiderosi di un riscatto sociale; inganni, doppio gioco, complotti e colpi di scena, tutti ingredienti che Swanson riesce ad amalgamare nelle giuste dosi sfornando un romanzo dal sapore già noto ma comunque godibile.
Il punto di forza è nel ritmo incalzante che cresce progressivamente catalizzando la curiosità del lettore che difficilmente potrà resistere alla tentazione di arrivare quanto prima all'ultima pagina, seppur solo per avere conferma che l'epilogo sia quello facilmente deducibile man mano che si delinea la reale personalità dei due personaggi femminili, Lily e Miranda, che - inutile dirlo - sono le protagoniste indiscusse del romanzo.
Inevitabile, tra l'altro, perché è risaputo che la vendetta è donna.
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La disperazione di un'adolescente
Eugenia ha quindici anni quando i suoi genitori decidono di trascinarla via da Roma e dal suo mondo per portarla a Los Angeles. Il padre, Ettore, assecondato dalla moglie Serena, persegue uno strampalato sogno di raggiungere il successo come regista e per realizzarlo, ovviamente deve andare negli Stati Uniti, nella città dove si trova Hollywood. Così trascina la famiglia in questa avventura, che appare subito assurda alla protagonista e voce narrante del romanzo, Eugenia, a suo fratello Timoteo e all'improbabile nonna, che infatti dopo qualche mese negli USA se ne tornerà a Roma.
Eugenia arriva a Los Angeles nella primavera del 1992: in città c'è stata da pochissimo la rivolta dei Riots. Il testo ci parla un trasferimento forzato, della difficoltà di una ragazzina ad ambientarsi in un Paese straniero, con una lingua, usi e costumi diversi da quelli a cui era abituata. La realtà in cui deve vivere Eugenia è molto lontana rispetto a quella italiana: la giovane passa dal liceo di Roma, dove c'erano 200 studenti, allo sterminato campus statunitense dove ce ne sono 4.000; non può vestirsi con abiti di determinati colori perché potrebbe essere associata ad alcune gang; non conosce nessuno, non c'è un gruppo di immigrati italiani a cui affiliarsi.
Questo romanzo però secondo me non racconta soltanto la cronaca di uno sradicamento, anzi, a mio parere è solo la cornice della vera storia. A questo riguardo ho trovato l'incipit significativo.
“ Stavo guardando mia nonna, seduta a gambe incrociate e tette nude sulla spiaggia di El Matador, a Malibu, quando mi ricordai che da piccola io e lei pomiciavamo. Lei tirava fuori la lingua e io gliela dovevo leccare. Lo chiamava il gioco del lingua a lingua. Un raviolo molliccio le usciva di colpo dalla bocca in cerca di compagnia. Non potevo dirle di no. L'odore della sua saliva mi repelleva e il gioco non mi piaceva, ma mi era stato detto di farlo lo stesso perché lei era vecchia e io bambina. Andammo avanti così fino ai miei otto anni. La visione dei suoi seni nudi e penduli sulla spiaggia, quel giorno, mi sembrò fuori luogo come la sua lingua nella mia bocca anni prima. Era sempre tutto così nella mia famiglia. Non facevano mai le cose come si deve.”
Non è tanto il trasferimento da Roma a Los Angeles a provocare nella protagonista (e di conseguenza nel lettore) disgusto e riprovazione: è la famiglia di Eugenia. In particolare il padre e la madre, totalmente incapaci di essere genitori ma presi soltanto dal loro egoismo sconfinato.
Eugenia è un'adolescente in cerca di attenzione e presenza, di amore e cure che i genitori le negano. Certo, abitano nella stessa casa, non la picchiano, non abusano di lei: ma sono completamente assorbiti da se stessi, non si accorgono nemmeno del profondo disagio in cui si trova a vivere la figlia. La ragazza attraversa un periodo di disperazione in cui attua comportamenti autodistruttivi e pericolosi, fa delle esperienze degradanti e tristissime alle quali riesce a sopravvivere. Cresce e riesce comunque a provare amicizia, amore, a realizzare obiettivi a cui tiene.
Il libro di Chiara Barzini è un romanzo di formazione particolarmente amaro, inquietante, cupo, angosciante, ma anche potente e coinvolgente. Una lettura che lascia il segno e non lascia indifferenti.
L'autrice ha scritto il testo in inglese e in seguito lo ha tradotto in italiano, infatti “Terremoto” è stato pubblicato anche negli Stati Uniti, con il titolo “Things that happened before the earthquake”.
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Librarsi nel cielo delle imperfezioni
Simonetta Agnello Horby è una donna dalle mille sfaccettature. Infatti, oltre ad aver esercitato per anni la professione di avvocato, è una scrittrice di notevole successo. Ha firmato testi, che hanno profondamente segnato il panorama letterario, quali: La Mennullara, La zia marchesa, Boccamurata, Vento scomposto, La monaca, Il veleno dell’oleandro, Caffè amaro. Ora con la casa editrice Feltrinelli pubblica Nessuno può volare, un romanzo autobiografico in cui si confronta con la grave malattia che ha colpito George, suo figlio, oltre che ad argomentare argute e serie considerazioni, anche legali, circa la disabilità e la malattia in generale. E’ un “memoir” molto personale di una famiglia, la sua, che di “normale” pare avere molto poco. Inoltre Nessuno può volare è anche un docu-film, girato con il figlio George, per laeffe.
Un episodio poetico e, al contempo, tragico simboleggia meglio di chiunque altro il contenuto di questo libro: l’autrice è appena venuta a conoscenza in che consta la malattia che distrugge suo figlio George. La diagnosi è infausta e paralizzante: sclerosi multipla primaria e progressiva. Lei è a casa con la piccola nipote Elena che, ignara della tragedia, gorgheggia seduta su un tappettino. Ad un certo punto:
“un piccione marrone e bianco, appollaiato su di un ramo, in alto, ci guardava curioso. (…) Un fruscio di penne e volò via; si librava in alto, magnifico, ad ali spiegate. Bastò quel volo nel cielo alto di Londra a riportarmi alla realtà. Tutti gli uccelli sanno volare, ma nessun essere umano ci è mai riuscito. Nessuno. Nessuno può volare.”
Ed ecco spiegata l’irruzione della malattia all’interno di questa famiglia serena e benestante. Cambia, inevitabilmente, i tempi e le configurazioni della stessa. Ma:
“era anche una sfida. Come noi non possiamo volare, George non avrebbe più potuto camminare: questo non gli avrebbe impedito di godersi la vita. Nella vita c’è di più del volare, e forse anche del camminare. Lo avremmo trovato, quel di più.”
L’accettazione della malattia e della disabilità hanno, sicuramente, delle radici profonde all’interno della famiglia stessa dell’autrice. Ce lo racconta molto bene. Infatti nella sua dinastia, di origine siciliana, ognuno dei componenti ha le proprie caratteristiche, mentali e fisiche- talvolta anche bizzarre- ma sono tutti uguali e tutti inseriti in una società che riconosce, con rispetto e costanza, il loro ruolo. Emerge prepotente nella narrazione una costante decisa: il rispetto per il disabile, per il malato. Assoluto, forte, indiscutibile. Sempre ed in ogni caso. Anche nella terminologia stessa con cui si rivolge a loro c’è sempre, anche se a volte sotteso, un che di onorevole. Ed ecco che allora:
“con naturalezza di un cieco si diceva “non ci vede bene”, del claudicante “fa fatica a camminare”, dell’obeso “è pesante”, dell’invalido “gli manca una gamba”, dello sciocco “a volte non capisce”, del sordo “con lui bisogna parlare ad alta voce”, senza mai pensare che si trattasse di difetti o menomazioni. “
L’autrice ci fornisce una serie di ritratti, atti a comporre quel puzzle gigantesco che è la diversità, e che addentrano il lettore sempre più all’interno di questo formidabile nucleo familiare. Ed è così che facciamo conoscenza della cugina Ninì, sordomuta, della bambinaia Giuliana, zoppa e claudicante, abbandonata dal marito, del padre affetto da osteomielite, della prozia Rosina, affetta da una cleptomania che la porta a rubare posate e coltelli, che immancabilmente, le venivano sfilati dai grembiuli. Ognuno di essi è catturato all’interno della propria quotidianità, con affetto sincero e profonda gratitudine.
Infine si torna al figlio George, di cui alternativamente alla madre, conosciamo opinioni e traversie, sofferenze e percorsi di vita. Una voce mai lamentosa, anche di fronte alle asprezze e alle durezze della malattia, a volte ironica e sagace. George ama la vita e non smette mai di amarla, l’apprezza e la vive appieno, in ogni istante ed in ogni attimo. Descrivono entrambi un viaggio percorso da loro due che conduce per mano il lettore partendo dai parchi e dalle bellezze di Londra fino a Siena, Firenze, Milano, Napoli, Roma per terminare in quella Sicilia degli avi bella, decantata e sorridente. Un viaggio che è:
“anche e soprattutto un volo al di sopra di pregiudizi e luoghi comini, per consegnarci, insieme a storie molto toccanti, uno sguardo nuovo, più libero.”.
Un libro forte, intenso nella disabilità, con occhi nuovi e differenti. Una prospettiva di lettura che aiuta all’accettazione, alla comprensione, al mutuo soccorso inteso non come atto di mera pietà, ma di assoluto e rigoroso rispetto.
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Ascoltare e condividere i dolori dell'esistenza
Un sottile filo rosso collega le nove storie che costituiscono “Tutto è possibile”, l'ultimo romanzo di Elizabeth Strout, nota autrice americana che nel 2009 ha vinto il premio Pulitzer con “Olive Kitteridge”. “Tutto è possibile” è ambientato ad Amgash, Illinois, piccolo paese di provincia sperduto tra i campi di mais dove tutti credono di conoscersi, si incontrano e si salutano con un sorriso, salvo poi criticarsi con ferocia alle spalle e nascondere con accuratezza, nell'intimità delle proprie case, inquietanti scheletri negli armadi. Storie di solitudini incomprese, di sofferenze e di abusi mai confessati; storie di segreti svelati a chi sa ascoltare in silenzio e sa cogliere in uno sguardo un dolore inesprimibile. In “Tutto è possibile” incontriamo uomini e donne che portano ancora i segni indelebili delle cicatrici dell'infanzia: vittime inconsapevoli di padri violenti e madri anaffettive, bambini cresciuti nell'indigenza ma soprattutto nello squallore morale di genitori talvolta più simili a bestie che a esseri umani; ricordi che il tempo, il successo, il matrimonio, i figli non sono riusciti a cancellare, perché certi segni restano per sempre scolpiti nell'anima.
I personaggi che incontriamo nel libro hanno tutti un passato doloroso da raccontare, ma talvolta anche un presente fatto di una serenità conquistata a fatica. Perché “a stare male non si fa mai l'abitudine” e con il dolore si può solo imparare a convivere con la speranza, forse, di capire un po' di più se stessi e gli altri. Tutti i protagonisti di questi racconti meriterebbero di essere citati, mi limiterò a tre figure femminili che mi hanno particolarmente colpita. La prima è Patty, bambina dall'infanzia disturbata e dall'adolescenza inquieta, ora vedova in sovrappeso umiliata e derisa; Patty ha saputo trarre dalla sua esperienza una sensibilità che le consente di svolgere la professione di consulente scolastica: sostiene i giovani in difficoltà e li indirizza verso il riscatto sociale. La seconda protagonista ad avermi coinvolta è Dottie che da piccola rovistava nei cassonetti per trovare qualcosa da mangiare: possiede ora un B&B nel quale accoglie con premura e attenzioni i suoi clienti e ha la rara capacità di saper ascoltare e consolare chi porta nel cuore un dolore indicibile. La terza protagonista che ha catturato la mia attenzione è Mary che, dopo aver sacrificato quasi tutta la sua esistenza con un uomo che l'ha tradita e resa infelice per anni, decide finalmente, ormai anziana, di ritagliare un po' di felicità anche per se stessa andando a vivere in Italia con un giovane compagno, senza l'approvazione della figlia prediletta.
Storie talvolta di riscatto, talvolta di rassegnazione, ma sempre raccontate in modo coinvolgente ed appassionante. La Strout ha una scrittura asciutta, molto efficace: riesce con pochi tratti e brevi dialoghi a far entrare il lettore nel mondo in cui si muovono i personaggi facendone cogliere tutte le dinamiche, sia esteriori, sia intime.
“Tutto è possibile” è un testo amaro che parla di infanzie violate, di famiglie imperfette e di disuguaglianze sociali. Eppure leggendolo ho percepito un messaggio di positività e di fiducia, la speranza nella capacità di ascolto e di condivisione degli uomini e l'incoraggiamento a proseguire in un cammino in cui tutto è davvero possibile.
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Wyomare, attraversare non-luoghi.
Wyomare, vagabondare da un non-luogo ad un altro non-luogo, è il destino di quell’umanità ai margini della società, che non riesce a entrare in sintonia con se stessa e con il mondo che la circonda. È di questa umanità che ci racconta Smith Henderson nel suo romanzo di esordio, “Redenzione”, un testo di 562 pagine, scritto, sembrerebbe, per essere facilmente trasformato in una sceneggiatura cinematografica. Ed è infatti di sceneggiatura che si occupa principalmente Henderson, che attualmente sta lavorando alla serie tv tratta da “Il figlio” di Philipp Meyer.
La storia che vede al centro il personaggio di Pete, assistente sociale che si occupa soprattutto di proteggere bambini e adolescenti da ambienti familiari degradati e squallidi, è descritta a tinte fosche. Non mancano scene di violenza nelle quali anche la legge varca ogni limite e diviene fuori-legge, così come con un realismo a volte sconcertante si racconta di abusi e prostituzione. I rapporti umani sono problematici, il mondo che ci viene descritto è instabile e inquieto. Il destino si accanisce su Pete, che non riesce a prendersi cura né dei suoi protetti, Cecil, Ben, Katie, né della sua stessa figlia Rachel. Tradito in amore prima dalla moglie, poi da Mary, in contrasto con il fratello Luke, perennemente ricercato dalla polizia, il mondo di Pete è davvero desolante.
Non c’è dubbio che la realtà con cui vivono a contatto coloro che si occupano a tempo pieno della salvaguardia e del recupero dei più deboli sia per certi versi davvero allucinante. Sapere che al di là della sicurezza e del calore di case apparentemente serene possano esistere situazioni così dure e difficili lascia interdetti circa la freddezza con la quale l’opinione pubblica tratta l’argomento.
Il pregio di questo romanzo è dunque nell’atto di denuncia di Henderson teso a superare quell’indifferenza di cui tutti siamo colpevoli.
Da un punto di vista strettamente letterario, il romanzo è penalizzato dalla lunghezza, è a tratti prolisso, dà molto risalto alle descrizioni di ambienti esterni e poco ai sentimenti dei personaggi. È ciò che ne fa un testo idoneo a una realizzazione cinematografica.
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La ferocia del branco...
La ferocia del branco.
Il branco che usa il suo potere contro chi non ha strumenti per difendersi, ma nonostante questo non chiede, non supplica, non implora...
Sopporta l'umiliazione, trascina in silenzio la sua croce.
E gli adulti dove sono? Non ci sono...e se ci sono non guardano...e se guardano non capiscono...e se capiscono ignorano.
Ciechi..."ciechi che, pur vedendo, non vedono".
Oppure semplicemente scelgono di non parlare, di non fare, di non agire.
..."bambinate", dicono...
Bambinate che possono distruggere una vita, più vite, procurare ferite che non guariranno mai.
Ma per qualcuno il passato non vuole proprio saperne di passare.
E quindi torna.
Torna dove tutto è cominciato.
Passato e presente si sovrappongono in una via crucis che rivive, a distanza di cinquant'anni, la crocefissione di chi aveva solo lampi di paura negli occhi, e sgomento, e rabbia, e impotenza, e umiliazione, e rassegnazione...e neanche una madre a piangere ai piedi della croce.
Il Golgota dell'innocenza.
Ma questa volta, dopo cinque decenni, colui che si comportò come Ponzio Pilato sceglie di non lavarsene le mani.
Partecipa a quell'ultima cena, ma c'è un grande assente: quel Gesù che, dimenticato, ha scelto di dimenticare lui stesso, sempre più intelligente di tutti, ma sempre solo...
Quelli che erano stati i persecutori sono diventati degli adulti infelici, rancorosi, insoddisfatti, fintamente inconsapevoli del male perpetrato.
Si sono autoassolti all'interno di quella maledetta parola...bambinate.
Pasolini diceva che i bambini sanno "raffinatamente" far soffrire i loro coetanei, perché la loro volontà di far del male è gratuita, è una violenza allo stato puro.
Paterlini ha avuto il coraggio di togliere tutto lo strato zuccherino che riveste l'infanzia nell'immaginario collettivo e di restituire ad ognuno il giusto ruolo e ad ogni cosa il termine esatto.
Io ho sofferto, ho sofferto tanto, ad ogni pagina (soprattutto nella prima metà), una volta finito ho fatto fatica a trovare le parole da scrivere...mi morivano tutte in gola.
Un argomento che "sento" molto...e che Paterlini ha trattato senza mezze misure, con un linguaggio terso, efficace, duro.
Come dura è la realtà di chi questo inferno lo sta attraversando o l'ha già passato...e magari continua silenziosamente a portare la sua croce.
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Misterioso (anche troppo)
Questo libro di Peppe Fiore che mi accingo a recensire è misterioso per vari aspetti.
Ma partiamo dal principio: sulla quarta di copertina questa storia viene definita "un noir dei sentimenti". Ora, non volendo dare a questa affermazione il suo significato letterale (perché del genere noir questo libro ha ben poco), voglio dedurre che sia riferita al fatto che l'autore cerca di indagare nei lati oscuri dell'essere umano. Ora, è evidente il tentativo di Peppe Fiore di scendere a fondo nella psiche dei personaggi (soprattutto del protagonista Daniele), ma questo suo proposito si rivela efficace solo in alcuni tratti e in maniera nemmeno troppo profonda. Quello che meno mi è piaciuto è il poco approfondimento delle vicende, che alla fine scadono nel confusionario. Non si capisce chi ha fatto cosa; non si capisce quale sia il tormento che affligge il protagonista, cosa lo abbia causato e quali siano stati i suoi errori passati e futuri; non si trova il bandolo della matassa.
La psicologia del protagonista ruota tutta intorno a un personaggio, suo fratello Franco, con cui avremo a che fare poco o nulla se non con la mediazione di Daniele. Al termine della mia lettura la sensazione dominante era una diffusa incompiutezza, perché tanti sono gli interrogativi che apre questa storia, ma pochi sono quelli che vengono realmente chiusi (almeno in maniera chiara) al suo termine. La domanda che mi è sorta spontanea è: ma fai che ci sia un seguito? Se anche la risposta fosse sì (ma non credo), leggerei il seguito ma con qualche riserva, perché questa era secondo me una storia da portare a termine in questo stesso libro.
Dunque, non poche perplessità mi hanno accompagnato soprattutto nelle ultime pagine, quando mi sono reso conto che ancora troppe cose non trovavano spiegazione e si avvicinava inesorabile la fine del libro, e se anche fossero state soddisfatte tutte insieme... ho i miei dubbi che la scelta avrebbe funzionato.
Però, prima di rendermi conto che l'autore tardava a chiudere il cerchio, devo ammettere che la lettura è stata piacevole e lo stile dell'autore è abbastanza scorrevole e preciso nei dettagli, soprattutto per quanto riguarda l'ambientazione, che a mio modo di vedere è resa in maniera ottima e si lascia facilmente immaginare.
Peccato.
Tutto ha inizio con i due fratelli, Franco e Daniele, coinvolti in una brutta situazione vicino allo stadio di Fiumicino. Tutto ruota sui problemi del fratello del protagonista, ex calciatore di serie inferiore e malato cronico di gioco d'azzardo, sempre in debito con gente poco raccomandabile. Quella allo stadio non sarà la prima né l'ultima volta in cui i due fratelli si troveranno nei casini(sempre per colpa di Franco), ma dopo questo breve racconto tutto si sposta immediatamente su una montagna a Trecase, vari anni dopo, in un bar ormai abbandonato di una vecchia meta sciistica dismessa in seguito a una tragedia. Una ragazza salita con la sciovia è incredibilmente sparita vari anni prima, col suo corpo ritrovato mutilato. In paese tutti credono che il colpevole sia un orso, anche se la presenza di un animale del genere è alquanto improbabile in un posto come Trecase. Tuttavia, quando Daniele arriva sul posto per rimettere in piedi il bar, sembra che Trecase sia pronta a diventare nuovamente una meta turistica.
Fino a quando non viene travolta da una nuova tragedia.
Incompiuto.
"Franco gli aveva detto che amava la carambola perché il panno verde era un posto che seguiva le regole. Colpisci bene la palla, la palla colpisce un'altra palla, la palla va in buca. La colpisci male, la palla finisce sulla sponda, sei fregato. Erano solo stupidi pezzi di legno foderati di alluminio e verniciati, gettati nel mondo per rotolare e cozzare tra loro e nient'altro. Come gli esseri umani. Eppure gli esseri umani, così gli aveva detto suo fratello, si fossero comportati con un decimo del raziocinio delle palle da biliardo, lui non avrebbe avuto tutti i casini che aveva."
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CORRADO E I SUOI RICORDI
Corrado Lazzari è il protagonista di questa libro molto particolare, è un uomo anziano che vive da solo in un palazzo dove è l’unico coinquilino.
Il sentimento che pervade l’intera lettura del romanzo è la solitudine e la difficoltà di rimanere soli con se stessi.
Corrado è stato uno dei più grandi attori del Novecento, questo lo capiamo perché la narrazione in terza persona ci riporta molti episodi del passato dell’uomo, ci racconta i suoi viaggi, le persone che ha incontrato, i lavori di cui ha fatto parte.
Il palazzo in cui vive l’uomo è al centro di Roma, una città che non è più la stessa di tanti anni fa, che sta perdendo a poco a poco la speranza e la vita.
Roma è diversa, ormai spenta e non illuminata più dai splendori di una volta e dalla bellezza di cui Corrado ha solo un ricordo lontano, una città che in passato l’ha emozionato e affascinato.
Corrado è un uomo schivo, riservato e anche un po’ burbero non lascia avvicinare nessuno, solo una ragazza gli porta da mangiare , è Alessandra una giovane che studia lettere alla Sapienza.
L’uomo si vuole isolare e lasciare tutti fuori dalla casa in cui vive, come se si volesse allontanare da un mondo che non sente più suo, di cui non fa più parte.
Un giorno Alessandra prova a chiedere aiuto a Corrado per il suo percorso di studi, ma l’uomo inizialmente non vuole aiutarla, ma poi tutto cambia e i due iniziano a parlare. Corrado inizia ad essere “Il maestro” del titolo, a spiegare e ad insegnare quello che sa e quello che ha fatto per una vita.
Quello che notiamo è un forte contrasto tra il passato glorioso, pieno di successo, di soddisfazioni, pieno di amore, di viaggi e un presente di solitudine e di tristezza, dove regnano solamente la malinconia e dove ogni gesto diventa abitudinario.
Con Alessandra ritrova il piacere di parlare con qualcuno, di non essere più solo e la ragazza gli confessa le sue paure, i suoi momenti difficili e come se il maestro fosse una sorta di padre, di zio che la consiglia.
Lo stile di Carofiglio è molto scorrevole, il romanzo si legge velocemente e la narrazione è quasi teatrale, frammentata, con periodi molto brevi.
Il filo conduttore dell’intera storia è l’opera “Amleto” di William Shakespeare, che viene citata in più pagine e che è molto cara ai due protagonisti.
Un romanzo che è pieno di malinconia, di tristezza e di rimpianti, un uomo che è rimasto solo, nonostante il gran talento, il successo, gli amici.
Un libro che ti fa pensare, che ci insegna a non dare nulla per scontato, a dare il giusto valore e importanza alle persone che ci stanno accanto.
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God save the Queen
Api, vento, tempesta, sentieri, Ebridi, amnesia, cottage, omicidio, labrador.
“Ti odio, ti odio, ti odio”, poi mio padre si uccise.
Io non ti conosco, non so nemmeno chi sono. Questa e’ casa mia ?
Studi scientifici dimostrano che.
INVIO.
Un eco thriller e’ sempre un gradito compagno di lettura se calibrato nel modo giusto. “Il sentiero” riempie il tempo piacevolmente lasciando un marcato spiraglio di riflessione per una questione che appare molto seria, al soggetto lungimirante.
L’argomento ecologico che si cela nei meandri della narrazione e’ stato bene approfondito dall’autore, il medesimo trasmette una serie di nozioni in maniera coerente, dal pulpito di studi concreti.
Ben tornita la penna, le pagine procedono intriganti in fluida eleganza, grazie anche al continuo intreccio tra la vicenda ed il meraviglioso contesto paesaggistico.
Regge bene la trama in un giallo ben studiato dove i conti tornano, e dove sono ben lieta di avvisare della mancanza dell’impetuoso, rocambolesco sprint all’americana.
Un autore che non conoscevo ed approfondirò, un buon libro a cui non nego essermi affezionata.
Ovviamente consigliato, e che Dio salvi la regina.
Buona lettura.
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Il nocciolo vuoto
Chi siamo? Cos’è che definisce il nostro io, la nostra coscienza? Come è possibile cambiare, e rimanere gli stessi? In fondo, si può dire che siamo tutti impostori e bugiardi, almeno in parte? E se è così, che cos’è veramente la menzogna? E l’onestà? E che dire del coraggio?
Non soltanto narrativa crime, non soltanto un ritmo che trascina, non soltanto approfondimento psicologico, non soltanto critica (aspra e senza sconti) delle crudeltà e dei miti contemporanei... questo romanzo è molto di più. Romanzo di formazione, tanto per cominciare: il lettore cresce, cerca, soffre, crea, cade e risorge insieme alla protagonista, ne condivide le disillusioni e le scoperte, e soprattutto si pone le stesse domande.
Una storia che, oltre ad aprire interrogativi, azzarda pure qualche risposta, senza timore di annoiare o distrarre. Una storia con personaggi forti, complessi, stupefacenti, che sembrano fatti apposta per schernire luoghi comuni e stereotipi. Una vicenda di bruschi cambiamenti ed eterni ritorni, di riflessioni e d’azione, che riflette la disarmonia della vita piuttosto che tentare di ordinarla intorno a una struttura dalle simmetrie suggestive.
Il romanzo si divide in due parti, che coincidono con due tempi ben distinti ritagliati nella vicenda della protagonista, ma presente e futuro narrativi si inseguono in cerchi sempre più stretti, fino a raggiungere al nocciolo finale che include in un solo continuum temporale l’intero personaggio, dalla nascita alla morte più volte sfiorata ed evitata, eppure sempre presente. La morte, infine, risulta soltanto uno tra i tanti cambiamenti, di certo non il peggiore, ma unico e definitivo (così pare).
Una scrittura magistrale per un romanzo che mescola in modo originale e con disinvoltura azione e riflessione, tessendo un romanzo non semplice, talvolta contorto in collegamenti e citazioni, comunque ben funzionante, come un organismo vivo. Un’opera molto ambiziosa, in cui non mancano i difetti: come in gran parte della narrativa crime, la verosimiglianza latita, tra personaggi ben delineati spunta qua e là qualche macchietta, temi complessi si esprimono in sintesi non sempre icastiche; ma è anche un’avventura da cogliere al volo, adatta a lettori esigenti e amanti della contaminazione.
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Chapeau, Follett!
«Era sempre stata lì, ogni giorno della sua vita: solo il cielo sopra di essa cambiava con le stagioni. Gli diede una vaga ma potente sensazione di conforto. Le persone nascevano e morivano, le città prosperavano e tramontavano, le guerre cominciavano e finivano, ma la cattedrale di Kingsbridge sarebbe rimasta fino il giorno del giudizio»
Con “La colonna di fuoco”, classe 2017, giunge a termine la trilogia iniziata nel 1989 con “I Pilastri della Terra”, proseguita con il “Mondo senza fine” edito nel 2007 ed avente ad oggetto le vicende storiche tra il XII al XVI secolo.
Gli avvenimenti si aprono nel Gennaio del 1558 a Kingsbridge, città immaginaria inglese teatro delle avventure sin dal primo romanzo, con il ritorno a casa del diciottenne Ned Willard, dopo un anno di assenza e di permanenza in quel di Calais. La situazione sin da subito appare ben diversa da come l’aveva lasciata: se da un lato, problematiche di espansione e mantenimento territoriale si affacciano nella realtà del popolo britannico, dall’altro, il cuore del giovane è messo a dura prova vedendosi sottrarre, Margery, la donna che ama, a causa di un matrimonio combinato atto a garantire alla famiglia Fitzgerald, aristocratica, il titolo nobiliare. Mentre Ned è, infatti, un protestante e un commerciante, Bart Shiring, visconte di Shiring, cattolico, è considerato il pretendente perfetto per raggiungere l’obiettivo della famiglia. Della volontà della quindicenne, dei suoi sentimenti, non può tenersi conto, lo scopo finale ha priorità assoluta. E proprio per questo, non esistono scrupoli, tanto che i genitori decidono di far leva sulla profonda fede e devozione in Dio della futura moglie, pur di, strapparle la promessa di acconsentire all’unione.
Costretto a lasciare nuovamente Kingsbridge, ed ingaggiato da Sir William Cecil, il consigliere di Elisabetta Tudor che dopo la sua incoronazione vedrà tutta l’Europa rivolgerglisi contro e che affiderà a quest’ultimo il compito di creare una rete di spionaggio incaricata di proteggerla dai numerosi attacchi nemici, il protagonista si ritroverà ad essere uno degli uomini a far parte dei primi servizi segreti britannici esistenti. Il suo amore per la giovane Margery sembra ormai condannato, e per quasi mezzo secolo, questa condizione parrà essere procrastinata. Ma sarà davvero così?
Nel contempo, mentre la lotta tra cattolici e protestanti ha raggiunto livelli particolarmente infuocati, la Francia ha dichiarato guerra alla Spagna per il controllo del regno di Napoli e altri stati della penisola italiana, e l’Inghilterra si è schierata con la Spagna. La Francia, di fatto, riesce a riprendersi Calais ma non anche gli stati italiani tanto agognati.
In questo contesto si inserisce Pierre Aumande, figlio illegittimo di una mungitrice di Thonnance-les-Joinville residente a Parigi, che vivendo di espedienti, una volta al cospetto della famiglia Guisa non esita ad accettare l’incarico di ricerca dei protestanti. L’investigazione su questi ultimi, sui luoghi da loro frequentati ed in cui si riuniscono per celebrare i “riti blasfemi” nonché sui loro modi di diffusione del credo, porteranno all’introduzione della figura di Sylvie Palot, figlia di Giles e Isabelle Paolt, la cui casa è sita all’ombra della grande cattedrale di Notre-Dame, abitazione al cui pian terreno si colloca il negozio di famiglia, esercizio destinato alla vendita e produzione di libri. Altra unione politica fondamentale, sarà quella tra Francesco, quattordicenne figlio maggiore di Enrico II e della regina Caterina ed erede al trono di Francia, e Maria Stuarda, una rossa di straordinaria bellezza di appena quindici anni, regina di Scozia.
Sul versante di Siviglia, Barney Willard dovrà in primo luogo affrontare problemi legati alle persecuzioni religiose, assisteremo infatti a proclamazioni di ereticità avverso tutte le confessioni diverse dalla cattolica, ed in particolare, avverso la protestante e la musulmana. Ebrima, mandingo di origine, servo all’inizio del racconto, riuscirà a diventare un uomo libero, e dunque a realizzare il suo sogno.
E’ in questo scenario che si insinuano, ancora, le famiglie Wolman e Willemsen, atte a rappresentare i Paesi Bassi; è in questo scenario che gli estremisti clericali seminano volenza, sfruttando i diversi culti a proprio interesse e valenza, poiché fine essenziale è quello di imporre a prescindere da tutto, il potere e la supremazia, poiché fine essenziale è vincere sulla tolleranza e sul compromesso, nonché, piegarne i sostenitori.
Attraverso un linguaggio fluente, avvalorato altresì da una serie di personaggi ben costruiti che sanno amalgamarsi perfettamente ai protagonisti che hanno fatto la storia (a titolo esemplificativo possono annoverarsi tra i presenti: Maria Tudor, Elisabetta Tudor, Sir William Cecil, Sir William Allen, Sir Francis Walsingham, Enrico II, Caterina De Medici, Maria Stuarda, Giacomo Stuart, Giacomo VI di Scozia e re Giacommo I D’Inghilterra, e molti altri ancora), Ken Follett dà vita ad un romanzo storico di grande spessore, un elaborato completo sotto tutti i punti di vista, uno scritto che è capace di conquistare il cuore di lettori eterogenei, anche di quelli che non sono tra gli amanti del genere.
E vi riesce grazie ad un’impostazione chiara ed esaustiva, un’impostazione che tramite il mutamento di prospettiva (si passa dalla Gran Bretagna, alla Francia, passando per la Spagna e per i Paesi Bassi) nulla risparmia e nulla lascia al caso. Non solo. L’opera è completata da minuziose descrizioni (che consentono a chi legge di rivivere sulla pelle le avventure delineate) nonché da dialoghi ben calibrati e bilanciati tra loro, dialoghi che sono fondamentali per la delineazione degli eroi che colorano queste pagine. Il risultato finale è quello di trovarsi di fronte ad una perla di semplice e rara bellezza, una perla che seppur dipani le sue vicende in secoli turbolenti ma ad oggi lontani, in realtà si presenta e si palesa di grande attualità.
Questo, grazie anche – e non di meno – alle molteplici tematiche che vengono affrontate. L’inglese non si risparmia e con occhio acuto riesce a mixare problematiche quali il conflitto religioso, le guerre ivi relative, le ostilità radicabili nell’estremizzazione del concetto di razza, di sangue puro ed impuro, gli odi, le discriminazioni, le violenze del più forte sul più debole, la questione e posizione femminile, le lotte di potere e di avidità, ed anche quel desiderio sempre più pressante di libertà, una libertà sognata, irrealizzabile, e di poi conquistata, ma così difficile da mantenere…….. Perché, quando si può davvero affermare di essere liberi? Cos’è questo concetto così labile, inconcreto, intangibile eppure fondamentale per la vita di ognuno di noi? Quando possiamo veramente ritenerci privi di catene?
In conclusione, Ken Follett non delude e regala al grande pubblico la degna conclusione per una eccelsa trilogia. “La colonna di fuoco” si fa amare sin dalle prime battute e chiede a gran voce di essere letta perché sa che non scontenterà. Ed è proprio così. Non disillude, bensì, regala emozioni e riflessioni di non poco conto.
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Khmer e Barang
Nella mia vita non ho letto tantissimi romanzi di viaggio, nè ho mai letto altre opere di Lawrence Osborne, ma questo titolo mi ha attirato per la sua ambientazione, un luogo che almeno una volta nella vita vorrei visitare: la Cambogia, coi suoi templi(specialmente Angkor Wat) e le sue tradizioni.
L'ambientazione è ben descritta, forse anche troppo, considerati i detagli che spesso rendono la lettura meno scorrevole. E' un romanzo che richiede più impegno di quello che mi sarei aspettato, uno sforzo che viene però controbilanciato(anche se non del tutto), dalla resa perfetta dei luoghi descritti, dei profumi, dei sapori, delle tradizioni, di una cultura così diversa dalla nostra. E' ovvio che l'autore sa di cosa sta parlando e ne abbiamo la conferma nella pagina dei ringraziamenti, in cui omaggia un suo caro amico che è sopravvissuto a un campo di sterminio durante il genocidio cambogiano sotto il regime dei Khmer Rossi, il quale coi suoi racconti fati all'autore ha ispirato questa storia.
Incontriamo il nostro protagonista Robert durante la sua vacanza(anche se sarebbe meglio dire fuga) in Cambogia. Robert è un giovane professore d'inglese, stanco della vita che conduce da sempre in una terra natia che non gli manca affatto. Robert decide che, forse, la Cambogia è il luogo adatto per ricominciare, un luogo che sente affine alla propria anima nonostante gli innumerevoli difetti che presenta in bella mostra. Ad aiutarlo nella sua scelta di ricominciare da zero è un'importante vincita in uno dei tanti casinò del paese; vince una cospicua somma di denaro che gli regala una sicurezza economica pronta a spalancargli porte sprangate fino a poco tempo prima.
Un uomo che vince tali somme, però, non passa inosservato in un paese in cui gli abitanti sono pochi e i barang(bianchi) sono ancor meno, e Robert non è esente da questa regola. La sua vincita innescherà una serie di eventi e di incontri che gli cambieranno la vita, che lo porteranno a credere a cose che prima riteneva superstizioni impossibili, che lo avvicinerà a quella cultura che farà sempre più sua e che gli entrerà silenziosamente nell'anima.
Sullo sfondo, la Cambogia ancora sconvolta dal suo passato difficile, da una Rivoluzione che ha lasciato ferite non ancora cicatrizzate, ferite che hanno segnato un popolo ancora convalescente, ma che sta provando lentamente a rialzarsi. Al passato dei Khmer(cambogiani), rappresentati in questa storia dal controverso poliziotto Davuth, si contrappone il passato dei barang rappresentati dal nostro protagonista, e da questo contrasto nascerà una storia interessante, scritta discretamente, ma che vi terrà impegnati più di quanto crediate.
E' comunque uno di quei libri che lascia qualcosa, dunque vale la pena dargli un'occasione.
"Anche la loro tristezza era diversa. Veniva dagli anni Settanta, epoca che qualsiasi cinquantenne ricordava con lucidità. Era la tristezza delle generazioni che avevano perso tutta la gioventù per niente e la cui unica via d'uscita era dimenticare. La tristezza dell'Inghilterra, invece, stava precisamente nella sua portentosa memoria, nel rifiuto di dimenticare alcunché."
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quando la neve si tinge di "giallo" (o di "rosso"?
La neve può piacere o meno, ma il bianco che si posa sui tetti e sulle strade non può che suscitare un senso di candore, purezza, calma. Questo però se la neve cade su tetti e strade: se la neve copre totalmente il corpo di una giovane donna, di sicuro non suscita queste emozioni. Anzi.
Il nuovo libro di Arno Saar, aka Alessandro Perissinotto, inizia con il ritrovamento di un cadavere nella zona dei vecchi baraccamenti di Tallinn. Marko Kurismaa, commissario di polizia, è chiamato ad indagare sulla morte della giovane. L’indagine è resa difficile dalla neve che sembra non voglia far trovare alcun indizio o alcuna traccia.
Tallinn descritta da Perissinotto potrebbe essere paragonata quasi a una grande metropoli come New York, con una zona ghetto, luogo del ritrovamento: “Niente nomi, soltanto uno squallido numero. Marko non conosceva troppo bene quella zona e neppure la amava. Lo faceva soffrire lo stato di abbandono in cui erano state lasciate quelle costruzioni che, in fondo, erano un pezzo di storia di Tallinn”. Mi sono chiesta perché un autore italiano dovesse crearsi un alter ego estone per scrivere gialli ambientati in questa terra fredda. Sul retro della copertina l’autore commenta così: “Una parte di me aveva ancora una gran voglia di scrivere gialli, quella parte di chiama Arno Saar”.
Infatti, questo è il secondo romanzo con protagonista il commissario Marko Kurismaa e di ciò me ne sono resa conto durante la lettura del testo quando in una nota a piè di pagina si fa riferimento al libro precedente “Il treno per Tallin”. Sono intenzionata a leggerlo però ammetto che non lo farò in tempi brevi. La lettura di questo romanzo è stata per me piuttosto difficile. Ho letto gialli di autori italiani, scandinavi, americani. Ognuno ha un proprio stile ma nel complesso, a seconda della nazionalità, gli scrittori un po’ si assomigliano. Non a caso molto spesso si dice che i gialli scandinavi sono cupi e i loro protagonisti lo sono altrettanto. In “La neve sotto la neve” ho quasi visto un tentativo di imitazione, piuttosto forzato, di questo stile. Il libro in sé non è per niente male, ma questa sensazione mi ha accompagnato per tutta la lettura.
Proverò di sicuro a leggere altri romanzi di questo autore, romanzi però scritti “con il suo vero nome”, in modo da cercare di capire effettivamente quale sia il suo stile. Detto questo, è un romanzo che comunque suggerisco: l’Estonia ha una storia piuttosto travagliata, che sarebbe interessante approfondire.
Quindi, che dire se non buona lettura? :)
“Il mare che circondava la penisola di Kopli quel mattino era di metallo; era d’acciaio e di piombo, a seconda di come la poca luce che filtrava dalle nuvole spesse, ne colpiva la superficie liscia, priva di increspature. […] Dietro al cumulo si vedeva il fianco di una delle case di legno semiabbandonate che rendevano quel posto uno dei più tristi di tutta Tallinn”.
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Nuove avventure per Lisbeth e Mikael
Quinto episodio della serie dedicata alla saga di “Millennium” nonché seconda opera a firma David Lagercrantz, “L’uomo che inseguiva la sua ombra. Millennium 5” è un elaborato fluente che sin dalle prime battute sa conquistare il lettore.
Lisbeth Salander è detenuta all’interno del carcere di massima sicurezza di Flodberga quando i fatti hanno inizio. Essa, è stata infatti condannata a due mesi di reclusione per sottrazione di minore e condotta negligente e pericolosa a seguito del suo coinvolgimento nella vicenda seguita all’omicidio del professor Frans Balder e più precisamente per aver, di propria iniziativa, nascosto un bambino autistico di anni otto e dunque avendogli salvato la vita. All’interno della struttura detentiva la vita non è semplice e a pagarne i danni sono sempre le persone più deboli. In particolare, oggetto di vessazioni e persecuzioni è Faria Kazi, giovane donna originaria di Dacca e la cui condanna ha a che vedere con l’appartenenza, del suo nucleo familiare, ad una branca estremista della religione islamica. Detentrice del potere e delle prevaricazioni è invece Beatrice, detta “Benito” (in onore del noto dittatore che non ha bisogno di presentazioni), Andersson.
Ovviamente la nostra eroina dal tatuaggio del drago non si lascerà sopraffare dalle prepotenze della leader del penitenziario ed anzi, farà di tutto per aiutare la giovane in difficoltà. Ma non si fermerà qui. Verrà a conoscenza, a seguito di un colloquio con Holger Palmgren di una serie di nuovi documenti attinenti al suo passato e, da lì verrà ad apprendere del nome di Leo Mannheimer. Dell’indagare verrà investito niente meno che l’affezionato – e sempre amato – Mikael Blomkvist, il quale, nel disseppellire gli scheletri nell'armadio incapperà in hackeraggio, crisi finanziarie, titoli, borsa, finanza, e chi più ne ha più ne metta..
Non mancheranno, ancora, di essere trattate tematiche di grande attualità quanto, appunto, la condizione della donna nell’ambito della religione islamica e non saranno da meno, ancora, gli intrighi e gli intrecci a cui siamo stati abituati.
Dal punto di vista stilistico, il testo si presenta fluido, di facile lettura, altamente descrittivo di luoghi e circostanze, e non è carente nemmeno per quel che riguarda l’aspetto di caratterizzazione dei personaggi, “nuovi e vecchi” che siano.
Ne consiglio la lettura a chi ami i thriller ben strutturati e con una trama solida e funzionante.
Un piccolo avvertimento. Non cercate Larsson nel testo. E’ vero che Lagercrantz riesce a ricreare le atmosfere proprie del primo autore, ma per ovvie ragioni, la storia non può ripercorrere le stesse fila dei primi tre capitoli poiché gli eventi ad essi legati sono con questi medesimi terminati. Se anche Stieg fosse sopravvissuto ed avesse continuato a scrivere, avrebbe a prescindere dato un taglio diverso alla storia, proprio per delinearne un’evoluzione e proprio per evidenziarne una nuova connotazione. A tal proposito, ritengo superflui, evitabili, ed eccessivi i rimandi al passato o i tentativi di incentrare lo sviluppo della medesima sul trascorso della Salander. L’argomento è, semplicemente, esaurito.
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amori, speranze e delusioni
Adalberto Casteggi è un affascinante oculista quarantenne di Milano che accetta di sostituire un anziano dottore all'ospedale di Bellano; incantato dalle atmosfere lacustri, per essere più vicino all'ambulatorio affitta un delizioso appartamentino a Varenna, una “bomboniera” in cui “scappare il fine settimana o quando gliene fosse capitata l'occasione”. I modi gentili e il bell'aspetto di Adalberto colpiscono, già dalle prime visite, più di una paziente e Rosa Pescegalli, proprietaria di una profumeria di Bellano, trentasei anni ben portati e una scollatura mozzafiato, non si sottrae alle attenzioni del prestante dottore. Tra i due scatta fin da subito un'intesa che si trasforma ben presto in una relazione tra cenette romantiche e notti nel buen retiro sulle rive del lago. Il Casteggi, però, porta la fede al dito, tiene nel cassetto del comodino un paio di occhiali molto femminili e nel suo letto si respira un inebriante profumo di donna. Scontato pensare che si tratti di tracce della moglie, ma Rosa non ne è convinta e comincia ad indagare. La Pescegalli non è certo un'ingenua e lei delusioni dagli uomini non ne vuole più avere: le brucia ancora la scottatura presa anni addietro quando, piena di belle speranze, si era fidanzata con Salvatore Locitri, promettente terzino ingaggiato dal Lecco nella stagione '55-'56. Cosa nasconde l'avvenente Adalberto? Quali sono le sue reali intenzioni? E la storia avuta con il bel Salvatore, quanto influisce ancora nella vita della seducente Rosa?
Andrea Vitali, classe '56, medico e scrittore prolifico ed apprezzato dal pubblico e dalla critica, ci porta anche con questo suo ultimo romanzo tra le atmosfere della vita di provincia e ci coinvolge in una storia leggera, ma non banale. La trama è ben costruita e si dipana su diversi piani temporali lasciando ampio spazio, nella parte centrale del libro, ad un lungo flashback che narra la giovinezza di Rosa e la sua tormentata relazione con il promettente calciatore Salvatore Locitri. Gli eventi dominano sulle riflessioni, i fatti sui sentimenti: Vitali non indugia sulla psicologia dei personaggi, ma li fa agire e dialogare in modo rapido, diretto. Storie semplici di gente semplice scritte con un linguaggio che arriva al lettore con schiettezza, con una prosa spesso molto vicina al parlato, ricca di espressioni colorite ed ironiche. “Bello, elegante e con la fede al dito” è un romanzo che va letto senza la pretesa di avere tra le mani un capolavoro, ma con l'idea di passare qualche ora di piacevole distrazione. Consigliato a chi già conosce ed ama questo autore o a chi desidera una lettura poco impegnativa.
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Lei, Lui, loro.
«La ragazza allora si copre un occhio, e copre il suo. Mi vedi? Si»
Lui è Milo, “One Way”, Montero, un pugile fortemente indebolito da un intervento invasivo ad un occhio; intervento a seguito del quale ha perso lo sprint, il coraggio, l’energia, ha perso la tenacia di (e per) combattere. Eppure, quel soprannome, non è mai stato casuale. Egli era “One Way” perché non arretrava mai, al massimo poteva fare un passo indietro per saltare addosso e far male, per far sentire che c’era, perché c’era (e c’è) solo la strada dell’andare avanti, mai all’indietro. E lui, piuttosto che intraprenderla questa seconda via, era disposto a tornare nello spogliatoio senza grugno. Era, ma è ancora “One way”, deve solo ricordarlo, deve solo volerlo ricordare.
Lei è una modella, di dubbia moralità, disposta a scendere a compromessi, ove necessario, che non resiste alla chiamata di Montero. Irene, la sorella di quest’ultimo, ha un unico obiettivo ed interesse: LA TUTELA DEL PATRIMONIO E DELLA RICCHEZZA CONSEGUITA GRAZIE ALLE VITTORIE SUL RING. Affinché la posizione di agio e privilegio sia mantenuta, è disposta a tutto. Non manca, a tal proposito, di farlo presente a Lei. Non manca, a tal proposito, da farlo presente a lui. E’ essenziale che torni a combattere e a schiacciare i suoi nemici, così come che accetti di collaborare alla stesura della sua biografia. Compito, quest’ultimo, che è affidato a, Leo Ruffo, giornalista/scrittore, omosessuale, in attesa dello scoop che gli consenta nuovamente di “cavalcare l’onda”.
Sullo sfondo, giochi di potere, ostentazioni di ricchezza, droga, sesso, alcool, tatuaggi e LA VENDETTA. Eh sì, perché in un mondo quale quello descritto e delineato dalla penna di Mari, non poteva mancare questo carattere. Perché si sa, c’è sempre un qualche motivo che può indurla e se questo è determinato dall’aver violato l’integrità di una persona esterna alle vicende, non vi si può passare sopra, occorre necessariamente ricorrervi per ottenere giustizia, per avere redenzione dalla colpa indiretta.
Ovviamente, ad ogni azione corrisponde una reazione, che, anche in questo caso, non mancherà a tardare. Ma quale strada intraprenderanno i protagonisti? E Leo Ruffo, che è chiamato come il lettore ad osservare le vicende del clan, che è investito della veste di confidente e testimone, da quale parte deciderà di stare? Da quella di Irene? Da quella di Lei? Da quella di Montero?
Attraverso la scelta di un linguaggio rude, scarsamente fluente e caratterizzato da periodi brevi composti da termini poco eruditi che spesso confluiscono in volgarità sia sintattiche che contenutive, l’autore dà vita ad una storia che non può essere che definita spietata perché da nulla risparmia e da nulla esenta il lettore. Questo passa da stati di disturbo, a fasi di consapevolezza, a fasi di quasi abbandono, a fasi di auto-interrogazione sulla finalità del componimento, a constatazioni del caso. Perché è vero che il libro arriva, ma poteva essere raggiunto il risultato anche con meno, soprattutto in considerazione della relativa originalità della trama (che può sostanziarsi nella narrazione delle vicende del classico “pugile perduto” e della modella “sfruttata” e di poi in cerca di rivalsa, personaggi attorno ai quali si insinuano i consueti riti dei potenti) e della presunta sfera filosofica/meditativa che si vuol introdurre mediante lo strumento del vedo/non vedo ricollegato all’occhio sano/malato.
La conseguenza di questa mia personalissima impressione è che, o si entra subito in simbiosi con l’elaborato, o al contrario, se ne resta assolutamente indifferenti, faticando, non poco, ad andare avanti.
Ultima nota, non guasterebbe una revisioncina all’editor. Nel testo sono presenti errori evitabili con una più accurata analisi.
«E’ il fatto di vedere, insomma, e prima dell’intervento non ci avevo mai pensato. Ma quando sono tornato sul ring per quel match di beneficenza l’ho capito. Sono diventato campione europeo e mondiale senza vedere bene i colpi che mi tiravano. Semmai li sentivo. Gli ultimi che ho visto bene sono quelli che ho dovuto prendermi per vincere il titolo italiano tanti anni fa. Invece dopo gli interventi ho ricominciato a vederli benissimo. Vedo la velocità e il peso che si portano dietro, la forza del mio avversario e il resto, tutto quanto. Non c’ero più abituato. E’ stato come svegliarsi dopo una lunga notte da sonnambulo. Ma alla fine andiamo tutti incontro alle cose.» p. 91-92
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- no
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Laggiù nel mondo
Questo romanzo è un quadro iperreale, crudele, fantastico. Narra i primi sette giorni nell’al di là di un uomo onesto e generoso privo di sepoltura, che nel suo viaggio verso un poetico paradiso di reietti raccoglie i ricordi della sua vita e di altre vite, fino a comporre l’esperienza corale di una comunità pittoresca: i non sopravvissuti al disastro antropologico della Cina contemporanea.
La terra di chi non ha avuto sepoltura non offre la pace eterna ma un punto di vista ampio e cristallino del mondo laggiù, un mondo dove la corruzione non lascia scampo a nessuno. Non c’è scampo per chi gode dei privilegi del potere, che non sfugge alle insidie della morte e delle nuove tecnologie. Non c’è scampo per chi usa bellezza e intelligenza per migliorare la sua sorte, perché l’avidità trasforma la vita in fango. Non c’è scampo per chi si accontenterebbe di una vita semplice e virtuosa, perché la virtù spalanca le porte alla sventura e alla miseria.
Nemmeno l’amore più autentico riesce a sfidare le brutture della ricchissima Cina. Laggiù, i politici fanno sempre più fatica a insabbiare disastri, incendi, catastrofi, miseria. La penna dell’autore non esita a descrivere senza veli e senza fronzoli uno scenario degno di un film catastrofico o di un girone dantesco, dove i ricchissimi mangiano alle spalle dei poveri e la disuguaglianza produce mostri e disperazione.
Il viaggio del protagonista inizia con un ritmo serrato tra neve e pioggia, ma si stempera in un movimento più dolce e in un linguaggio quasi poetico per descrivere il paradiso dei senza sepoltura, l’unico angolo rimasto, almeno nell’immaginario, dove non esistono ossa più uguali delle altre e dove gli scheletri riescono ad accudire con amore, a cantare tra alberi e fiori, a piangere, a ricordare e a irridere l’odio che li aveva divisi nel mondo laggiù, luogo dove la civiltà ha perso ogni traccia di innocenza e anche la bellezza della natura tende a scomparire.
Vale la pena di seguire il protagonista fino alla fine delle brutture scoperchiate senza pudore dal romanzo, ne vale la pena per la qualità della scrittura e per aprire gli occhi su una realtà che si può e si deve conoscere e narrare, sempre.
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Polveri, ombre e misteri tra presente e passato
In questa nuova indagine a firma Antonio Manzini, l’eclettico Vicequestore Rocco Schiavone, è chiamato ad indagare su due casi simili eppure apparentemente inconciliabili ed incompatibili tra loro.
Aosta. Il corpo di una trans, probabilmente prostituta, viene rinvenuto in un fiume. La squadra del funzionario entra immediatamente in azione e ben presto, nonostante le varie vicissitudini e complicanze, viene a conoscenza non solo dell’identità della medesima ma anche del fatto che dietro a questa si cela un qualcosa di ben più grande dei singoli soggetti intervenuti nel caso, un qualcosa che sarà in grado di scavalcare Schiavone, la questura, Baldi, Costa e tutti gli altri protagonisti oggetto della vicenda…
Durante le indagini del primo caso, un altro ritrovamento. Questa volta siamo a Roma, luogo dove un uomo viene rinvenuto privo di vita, senza documenti, ma in possesso di due foglietti. Su uno di questi è riportato il numero di nientemeno che Schiavone. Perché? Chi è costui? Per quale ragione al momento della sua morte aveva quel recapito con sé? Che c’entri qualcosa Baiocchi? Ed ancora, perché si è persa ogni traccia di Sebastiano? Sicuramente sarà sulle tracce dell’assassino della sua Adele, ma che non si fidi più nemmeno del vecchio amico nelle forze dell’ordine?
Al contempo, non mancano aspetti introspettivi attinenti ai singoli personaggi della Questura di Aosta, in particolare, una circostanza molto personale toccherà Caterina, una circostanza che spiegherà molti lati del suo carattere ma che favorirà anche un avvicinamento con il burbero capo, il quale, a sua volta si ritroverà a dare una mano a Gabriele, sedicenne un po’ in difficoltà suo vicino di casa, a cui, oltre che a spiegare come fare a difendersi dai bulli di scuola, darà anche ripetizioni in materia musicale a suon di buoni e sempre cari Pink Floyd e David Bowie.
Ma non finisce qui. Il Vicequestore non si troverà a dover affrontare solo e soltanto due casi tra loro estremamente complessi, egli dovrà altresì fare i conti con quelle “polveri” del passato che non accennano a scomparire, a quelle polveri collegate a Marina e ai suoi dubbi legami con amici troppo al confine i cui rapporti saranno messi in discussione proprio con il discorrere degli eventi, e con quelle “ombre” che sembrano non volerlo abbandonare. Chi si cela dietro le sue spalle? Chi immancabilmente riesce a conoscere delle sue mosse ancora prima che, a momenti, esso stesso le maturi? E perché? Sarà in questo contesto che, il tradimento, lo colpirà nuovamente, inarrestabilmente.
Una trama solida e ben articolata è quella di “Pulvis et Umbra”, una trama che si snoda e dipana su più punti mostrando non solo una crescita del protagonista e delle vicende al medesimo appartenenti, ma anche una vera e propria maturazione dell’autore che, episodio dopo episodio, dimostra di aver acquisito sempre più padronanza della sua penna ma anche delle storie narrate che risultano essere, a posteriori, ben collegate tra loro e in costante crescendo.
In conclusione, un giallo intrigante, una serie di enigmi da risolvere, una buona prova. Forse, ad oggi, insieme a 7-7-2007, la migliore.
«Era questo che intendeva Marina quando parlava di sicurezza e protezione? Avere un angolo di mondo dove pensieri e paure restano fuori e rimane solo la dolcezza di un sonno tranquillo? [..] Abbiamo una sola vita, Marì, e ce la siamo giocata male. Mi correggo. Abbiamo una sola vita e me la sono giocata male. Perché è tutta colpa mia.» p. 76
«Hai visto, Lupa? E’ tornata a trovarci. Eppure la vita deve essere bella, lo sai? Se pure un vitello che ha fatto una vita schifosa chiuso in una gabbia piange quando lo portano al mattatoio, allora sì, allora deve essere proprio bella. E’ una lezione che dovrei ripetermi ogni giorno. Ma io oggi non riesco neanche a respirare. Tu non lo sai cucciola mia, ma un sacco di animali vanno in letargo quando arriva l’inverno. Si accucciano in una buca sotto terra, chiudono gli occhi e muoiono per un po’ di mesi. Quando tornano al sole sono nati un’altra volta e ricominciano a sorridere, a saltare, perché è vita nuova, piena di colori e di odori. Noi no. Noi a dormire non ci andiamo mai sul serio, e così invecchiamo e la pelle si raggrinzisce, come il sangue. Tutto si stacca, Lupa, si consuma e non torna più come prima. Mi guardi, con la lingua di fuori, e siamo soli io e te, un’altra volta, e sei tu che mi devi dare coraggio, amica mia, perché io non ce l’ho più. Stai qui, attaccata a me. Chiudi gli occhi. Dormi, Lupa. Sogna gli ossi e i prati dove correre. Vola pure. Io da qui ti guardo e aspetto di capire come si fa. Ti giuro, appena ci riesco ti seguo» p. 402-403
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Attenzione! Anticipazioni.
Edito da Feltrinelli è finalmente arrivato in Italia il libro tanto acclamato in America, “Lincoln nel Bardo” ad opera del più celebrato, al momento, autore di racconti , il texano George Saunders. In alcune interveste lo scrittore ha affermato di avere finalmente osato la forma romanzo poiché, voltandosi indietro ed esaminando la sua produzione, si sentiva comunque già soddisfatto, tanto da poter contemplare perfino un fallimento. E lui ha osato e parecchio. Chi si appresta alla lettura di quest’opera si prepari infatti ad accantonare qualsiasi tipologia romanzesca possa sovvenire alla propria memoria di lettore. È una giustapposizione di voci; ci si ritrova fin dall’incipit a familiarizzare con esse e a seguirle placidamente con un misto di curiosità e di sorpresa cercando di capire ciò che un latitante narratore mai ci narrerà. Si conoscono dapprima Hans Vollman e Roger Bevins III, il primo anticipa la sua storia personale e mentre il secondo lo ascolta giunge un fanciullo, “un semplice ragazzino”. Si annaspa inizialmente per tentare di capire dove si svolge l’azione e chi siano i due anche perché un’altra giustapposizione di voci ( sono simulazioni di fonti scritti del XIX secolo) concorre a ricostruire la storia di un ricevimento presidenziale che in quel lontano febbraio del 1862 forse non avrebbe dovuto aver luogo viste le condizioni di salute di Willie, uno dei due figli della coppia presidenziale , dilaniato dalle atroci sofferenze del tifo che lo porterà alla morte mentre il medico rassicura i genitori sulla stabilità delle sue condizioni. Il ricevimento è poco opportuno in tempo di guerra, una guerra civile che ora inizia a mietere vittime sempre più numerose. Lui è Abraham Lincoln, il presidente abolizionista della schiavitù, la guerra è quella di secessione americana. Willie muore, viene imbalsamato e successivamente tumulato, questo avviene in terra mentre nel Bardo è accolto da Hans Vollman e Roger Bevins cui si aggiunge il reverendo Everly Thomas. Il Bardo, così come descritto ne “Il libro tibetano dei morti” è un non luogo, è infatti uno stato della mente coincidente con la separazione della coscienza dal corpo. Durante lo stato mentale del Bardo si vivono allucinazioni ed esperienze, la vita nel Bardo è contraddistinta da sofferenza per la mancata accettazione della propria morte, per la difficoltà del distacco dai propri cari e anche dai beni materiali. Quest’opera mette in scena il distacco del Presidente dal suo figlio morto a undici anni, i giornali dell’epoca narrarono infatti l’episodio di Lincoln che aprì la bara del figlio già deposta nella cripta per poterlo riabbracciare un’ultima volta. È dunque la storia breve e allucinata di un estremo saluto. Il Bardo messo in scena da Saunders colpisce per efficacia descrittiva, parrebbe assimilabile alla nostra idea di Purgatorio con le scenografie da Inferno dantesco, ci si ritrovano anime trasfigurate, abbozzi di contrappasso, rappresentazione indiretta di un tempo che fu. Fa pensare inoltre che il nuovo stato ultraterreno mantenga intatte le caratteristiche e i comportamenti di coloro che un tempo furono. E poi, che saranno?
Complessivamente gradevole, scorrevole, interessante.
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Un testo fondamentale per chi ama la letteratura.
Traspare tutta la passione dello studioso di letteratura in questa analisi critica di Alessandro Piperno sul fine della narrativa, sul rapporto scrittore-lettore e scrittore-personaggio.
Il lettore e lo scrittore si trovano ovviamente su campi diversi: molto più libero e autonomo il primo, assai più condizionato il secondo ora da specifiche scelte editoriali ora dall’esigenza di rispondere al gradimento del pubblico.
A chi si chieda quale sia il fine della narrativa, Piperno dissolve ogni dubbio: i libri non possono cambiare il mondo, un romanzo non può dare risposte agli interrogativi più grandi. Le opere letterarie hanno il fine di raccontare delle storie e non possono andare oltre. Né d’altra parte si può in senso assoluto identificare autore e personaggio, o lettore e personaggio. Ciascuno occupa il suo spazio e ogni immedesimazione è illusoria e fuggevole. Si pensi, afferma Piperno all’ironia con cui la Austen ha tratteggiato alcuni dei suoi personaggi più riusciti. Sarebbe difficile identificare la scrittrice con uno di loro. “Un personaggio, se davvero è grande, merita di esistere a prescindere dal suo inventore.”
Non è facile stabilire la qualità di un romanzo. Non ci sono canoni estetici universalmente validi. Solo il tempo può decretare il successo di un libro. Non c’è da meravigliarsi se di un romanzo, col tempo, si stenti a ricordare la trama, o i personaggi. Ciò che rimane è spesso l’atmosfera, sono le sensazioni che ha suscitato. Lo stesso romanzo, riletto dopo molto tempo può apparire del tutto diverso. È dunque il tempo il fattore più importante nella valutazione di un’opera. Altrettanto difficile è dare la definizione di classico. Classico, dice Piperno, si può definire quell’opera che porta un rinnovamento, come il discorso indiretto libero usato da Flaubert.
Per ciò che riguarda l’originalità, non c’è da meravigliarsi se ogni autore attinge a piene mani da altri autori, presi a modello o semplicemente ammirati. D’altra parte il romanziere di successo è colui che scrive solo di esperienze vissute, colui, cioè che fa riferimento a quella che Proust definiva “la patria interiore”.
Interessanti sono le pagine dedicate alla tecnica dell’incipit, diversa secondo i tempi e gli autori. C’è chi introduce l’eroe o l’eroina del romanzo dopo aver scritto pagine che potessero in qualche modo prepararne l’ingresso, come nel caso di Tolstoj e della sua Anna Karenina, o chi preferisce introdurlo subito, in medias res.
Dopo questa interessante parte introduttiva che funge da prologo, Piperno si sofferma sugli otto autori di cui, dice, non potrebbe fare a meno, analizzandone alcune caratteristiche che li hanno resi unici. Abbiamo così otto brevi brillanti saggi su Tolstoj, Flaubert, Stendhal, Austen, Dickens, Proust, Svevo e Nabokov.
“Il manifesto del libero lettore” è dunque un testo piacevolissimo e utilissimo che avvicina lo studioso di letteratura allo scrittore e al lettore, amplia i confini della pagina scritta, offre l’opportunità di approfondire, comprendere, valutare.
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“E' giunto il tempo di accendere le stelle”
Pedoni, alfieri e regine. Nel mondo che Musso ci propone in questo suo ultimo romanzo, siamo tutti pezzi di una scacchiera, che si muovono incessantemente interpretando i giochi ideati da un beffardo destino. Incontri, sventure, occasioni o rivelazioni, non si può sapere cosa potrà riservarci la prossima mossa, ma una cosa è certa, sarà tanto imprevedibile quanto sconvolgente.
A cambiare per sempre le esistenze di Gaspard e Madeline è un banale disguido, un incantevole appartamento di Parigi affittato a entrambi per errore. Lui è un tenebroso drammaturgo di successo, che vive da tempo fuori dalla società, fiero della propria solitudine e lontano da tutto ciò che detesta: le persone, la tecnologia, i sentimenti, la speranza. Madeline è una ex-poliziotta, bella, combattiva e ottimista, alle prese con un momento oscuro della vita, quello dei primi bilanci: un fiume di insoddisfazioni, delusioni e rancori ha fatto saltare dighe ed equilibri, travolgendola.
Potrebbe essere l’inizio di una commedia romantica, ma nei romanzi di Musso niente è come sembra. E’ infatti l’appartamento a rivelare ai due personaggi e a noi lettori una nuova storia. La vita del famosissimo pittore Sean Lorenz, ex proprietario della casa. La tragedia del suo figlioletto Julian, rapito e assassinato all’età di due anni. Lo spezzarsi di una famiglia, di un uomo, di un artista che non ha più saputo prendere in mano un pennello. Ma quella casa nasconde anche un enigma. Forse Sean aveva iniziato nuovamente a dipingere, e forse dietro quelle opere scomparse si cela un’altra, terrificante storia. Ecco che Madeline e Gaspard si ritrovano così coinvolti in un’intrigante caccia al tesoro dal ritmo serratissimo e dagli incastri ben congegnati, per portare alla luce una misteriosa e agghiacciante verità in cui irrazionalmente sperano di ritrovare anche una parte di loro stessi.
Confrontando questo thriller con gli ultimi due pubblicati, “Central Park” e “La ragazza di Brooklyn”, mi pare di riconoscere la volontà dell’autore di allontanarsi sempre più dal confine del fantastico e di semplificare i caleidoscopici intrecci cui ci ha abituato, per concentrarsi invece sulle atmosfere e sull’approfondimento umano e psicologico dei personaggi. La narrazione si arricchisce così di dettagli pittorici, in cui spiccano i colori madreperlacei e minerali delle magnetiche opere di Lorenz, che emergono dalle righe con grande vividezza. E di temi cari all’autore come l’infanzia e la genitorialità. Madeline e Gaspard inseguono le tracce di un bambino morto, ma anche dei bambini che sono stati, dei figli che non hanno avuto, tra affetti perduti e amori sprecati. Per cercare una possibile salvezza.
Sebbene l’intento e la direzione siano del tutto apprezzabili, all’elaborato manca forse un po’ di quella fluidità narrativa che da sempre caratterizza le opere di quest’autore, mostrando un certo appesantimento, soprattutto nella parte iniziale. Ciò nonostante, un buon thriller in cui ancora una volta Musso si conferma abile nel raccontare una storia in cui si stratificano i dolori, i sentimenti, le possibilità della vita.
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