Le recensioni della redazione QLibri

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    15 Giugno, 2018
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Rinascere da capo

Titolo ambiguo, “Cattiva”: lo è la madre, cattiva, con i propri pensieri disperati che urlano silenziosi, o la figlia, con i suoi pianti improvvisi senza apparente motivo? O forse lo sono in egual misura entrambe, ciascuna portatrice a suo modo, seppur a livello inconsapevole, di bisogni egoistici?
Attraverso una scrittura intima, inquieta, priva di edulcorazioni di sorta, a tratti anzi quasi sfrontata e coraggiosamente schietta, si anima la vicenda narrata nel nuovo romanzo di Rossella Milone, edito da Einaudi. Una piccola storia che si rivela grande come non può che esserlo ogni volta il miracolo della vita che si rinnova e si affaccia inerme e incosciente al mondo.
Una coppia di genitori, Emilia e Vincenzo, da un lato, una bimba di appena due mesi dall'altro. Con sensibilità e delicatezza tutte al femminile, viene posta al centro di queste pagine l'esperienza della maternità e, in particolare, la nascita del primo figlio, vera e propria rivoluzione nella vita di una donna che, per ovvi motivi, risulta sempre maggiormente coinvolta (e sconvolta) da un evento come questo rispetto a ciò che invece succede alla figura paterna. Un groviglio di sentimenti, emozioni, sensazioni, capitolo dopo capitolo, trova precise e intense descrizioni, mentre a poco a poco emerge il convincimento che nella cura della prole ci sia qualcosa di ancestrale, istintivo, addirittura “animalesco”; e allora non ci si stupisce neanche più pensando di essere una lupa o qualsiasi altra bestia di cui sopravvive appunto l'istinto nella parte più recondita delle nostre cellule. Del resto, come l'autrice ben sottolinea, non vi è niente di razionale nei primi mesi di vita di un bambino, semmai è tutto molto illogico, imprevedibile, profondamente materico e corporeo.

“E allora mi chino su di lei, le accarezzo la fronte, le ficco la mia gola sul viso, una preda che si arrende e mostra la giugulare. Voglio che qualche parte di me che non conosco – i pori, il modo unico in cui si compongono le mie particelle invisibili di acqua e urea – sappia cosa si fa, sappia come calmarla, darle la sicurezza che pretende. Io non lo so. Ci sarà qualche parte dentro di me che ancora tiene le pinne, o la coda, che ancora tiene il sangue freddo dei rettili da cui provengo, che ancora si ricorda come si fa a tenere a bada un cucciolo che frigna, […] quella parte di me che sta assopita nel mio tempo perduto, sepolta come un fossile – saprà come si fa?”

La linearità della storia s'intreccia a ricorrenti e ampi flashback che ripercorrono talvolta l'infanzia, talaltra episodi dell'età adulta della protagonista, mentre il ricordo delle varie fasi del parto si snoda in parallelo con il proprio carico di ansia e dolore. Facendo ricorso a un io narrante davvero emozionante e coinvolgente, la penna della Milone ci consegna il ritratto di una giovane donna che cammina lungo il non facile percorso da seguire per diventare madre, pericolosamente in bilico tra feroci notti insonni e voglia di normalità, tra timore di allontanarsi troppo dalla propria figlia e inconfessabile desiderio di fuggire; su tutto, pesanti come macigni, incombono un senso di inadeguatezza ad affrontare la nuova situazione postnatale e quello di solitudine che sfocia spesso violento nelle forzate veglie notturne e permea fin da subito anche la vita di chi nasce.

“Quando uno nasce, nasce per sé, ed è in quel momento lì che l'individuo mette al mondo la propria solitudine: quando nasci, quando muori, il resto non conta, ché la fatica di nascere e di morire è la fatica di contenere tutto quello che c'è al centro, e gli altri non possono fare nulla, in quegli attimi fortissimi tutto quello che ti rimane è quello che sei.”

“I pescatori rimangono. Il mare rimane. C'è un pezzo di città che sta sveglio con me. A sentirmi meno sola non mi sento, la notte ha un suono troppo robusto, quasi ingombrante, ché anche se stiamo svegli – io e quegli uomini – ciò che condividiamo non è la veglia, ma una specie di isolamento.”

Particolarmente suggestive le immagini di Napoli e della sua costa in versione notturna, quella città di mare dove “[...] il sonno, si è perso nei vicoli strettissimi” e sulla quale aleggia sempre la presenza rassicurante del suo vulcano. Un bel romanzo originale incentrato sull'estrema fragilità femminile in un momento certamente unico e speciale nella vita di ogni donna, ma non per questo privo di sofferenza e sentimenti contrastanti che finiscono per provare psiche e corpo. Pagine che parlano dell'immensità di quell'amore che fa sì, quando viene al mondo una nuova vita, che chi è madre rinasca per buona parte una seconda volta.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    14 Giugno, 2018
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Hippie, ieri e oggi

Siamo nel 1970 quando due luoghi, Piccadilly Circus, a Londra, e il Dam, a Amsterdam, si contendevano il privilegio di essere considerati il centro del mondo. È ancora il 1970 quando i biglietti aerei avevano un costo talmente elevato da poter essere considerati un privilegio delle élite, è ancora il 1970 quando un gruppo di ragazzi dai lunghi capelli, gli abiti sgargianti e il loro libertinaggio venivano considerati una minaccia per il “buoncostume e per la società”. È ancora il 1970 quando i genitori di questi giovani così screditati cercavano di far loro comprendere quella che secondo la loro visione del mondo era la giusta strada da intraprendere, è ancora il 1970 quando i Beatles stessi si avvicinavano e allontanavano dal movimento fautore della ricerca del karma, è ancora il 1970 quando il “Gazzettino invisibile” diffondeva la notizia di un sentiero hippie, un itinerario che conduceva dall’Olanda, da Amsterdam a voler essere precisi, fino in Nepal, a Kathmandu, mediante l’ausilio di un biglietto del pullman che costava meno di cento dollari e che consentiva di percorrere paesi ricchi di curiosità e interessi quali la Turchia, l’Iraq, l’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan e altre aree dell’India, in appena tre settimane.
E ancora è il 1970 quando le strade di Paulo e Karla si incontrano. E sì, quel Paulo non è niente meno che Paulo Coelho stesso. L’uomo che, nato a Rio de Janeiro il 24 agosto 1947, è oggi uno degli scrittori più affermati e acclamati del panorama letterario. Ha una vocazione precoce per la scrittura, una vocazione che viene accantonata a causa dei rigidi dettati familiari che lo avviano agli studi di economia. Il suo è un animo ribelle, però, un animo che a causa dei forti contrasti con i genitori lo porta negli anni dell’adolescenza al ricovero psichiatrico con tanto di sottoposizione ad elettroshock e che successivamente, proprio nel 1970, lo induce a lasciare gli studi di economia per intraprendere un periodo di vagabondaggi e scrittura. In questo contesto farà tante esperienze di vita, proverà droghe, si lascerà fluttuare nell’amore, condurrà riflessioni, imparerà a conoscersi e a vedersi con i propri occhi e conoscerà, ancora, poeti e cantautori che lo avvicineranno all’esoterismo in particolare sarà il poeta Raul Seixas a legarlo al gruppo denominato “Società Alternativa” che, con le sue pratiche esoteriche, portava avanti una lotta contro la dittatura militare. Non mancheranno ancora arresti, percosse e torture, non mancherà ancora l’avvicinamento alla religione del cattolicesimo.
Tutto questo e molto altro ancora sono quegli elementi che condurranno Coelho a dar vita a quel realismo magico misto a spiritualità che lo caratterizza e che ne ha consacrato, nonostante i primi quasi flop de “L’alchimista”, la fama e l’apprezzabilità.
“Hippie” è una vera e propria biografia dell’autore, un memorandum in cui quest’ultimo ci rende partecipi di quegli anni che ne hanno scandito la crescita e la giovinezza e in cui lo stesso ci dona la storia della sua vita. Scritto con una penna leggera, non impegnativa, e atto a ricostruire anche la società del tempo dalla visione interna e esterna alla dimensione dei figli dei fiori, il testo si presenta quale un elaborato adatto a tutti, un elaborato che non si fatica a leggere e che si apprezza per la sua genuinità. Le storie raccontate sono tutte vere, sono vissute e provate in prima persona dall’uomo in questo suo viaggio di riscoperta, e anche se cronologicamente possono essere state sfalsate o ricostruite secondo una logica narrativa più coerente alla stesura che alla realtà, non mancano di colpire.
Certo, deve piacere l’autore e deve interessare conoscere della sua giovinezza, altrimenti la lettura resterà fine a sé stessa. Altro pregio della medesima sono i messaggi di amore, di comprensione, di condivisione, di altruismo, di interrogazione, di sguardo rivolto anche agli altri e non solo a sé stessi, che questa contiene.

«È importante condividere. Per quanto possa apparire scontato, è fondamentale non lasciarsi condizionare dal pensiero egoistico di arrivare da soli alla fine del viaggio. Chi agisce in quel modo, scoprirà soltanto un paradiso vuoto, privo di interesse, e presto si ritroverà sopraffatto dalla noia» p. 85

Una lettura leggera, estiva, piacevole, che si conclude in pochissime ore. Adatta a chi cerca scritti riflessivi ma non particolarmente impegnativi.

«Lotta perché è necessario lottare, è arrivato il momento del combattimento.
Lotta perché sei in armonia con l’universo, con i pianeti, i soli che esplodono e le stelle che si rimpiccioliscono e si spengono.
Lotta per seguire il tuo destino, senza pensare a guadagno o lucro, a perdite o strategie, a vittorie o sconfitte.
Non agire per una gratificazione personale, ma per la gloria dell’Amore Supremo che, anche se può offrire soltanto un fugace contatto con l’Universo, chiede una devozione totale: un semplice atto d’amore, null’altro.
Un amore senza obblighi o pretese. Un amore che gioisce per il semplice fatto di esistere e poter manifestarsi.» p. 98

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    13 Giugno, 2018
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una fallace ascesa sociale

I soldi sono tutto porta la prestigiosa firma di Fabio Calenda. Lui è nato a Parigi, e ha vissuto a Roma. Ha diretto gli studi finanziari e la formazione in una banca d’investimento e ha collaborato per dieci anni con il supplemento finanziario del quotidiano “La Repubblica”. Ha pubblicato il fantasy archeologico La porta del tempo e successivamente Rosso totale, la storia d’amore tra due ragazzi di opposta estrazione sociale durante gli anni di piombo a Roma.
Ora in questo libro una storia che racconta di una truffa colossale; un libro amaro, scritto con una prosa lieve e precisa, che denota buona conoscenza dei meccanismi che regolano e costruiscono l’alta finanza. Una vicenda che inizia a Roma nel novembre 2006 e termina a dicembre del 2009. Il protagonista assoluto è Gianni Alecci, cinquantacinquenne, con due figli, moglie a carico che lo disprezza continuamente, una suocera a dir poco difficile, un’amante più giovane Lou, che alterna momenti di grande passione ad altri in cui poco lo apprezza. Una che:
“Gli va proprio a sangue, non soltanto per le sue acrobazie tra le lenzuola, ma anche per la prontezza di lingua e per le sue bizze, rivelatrici di una fragilità disarmante. (…) Il coinvolgimento fisico non gli impedisce di vivere la storia come un magnifico altrove in cui rigenerarsi, prima di ripiombare nel grigiore della routine: un giardino segreto pieno di delizie da assaporare con avidità, anche al costo di incappare in qualche spina.”.
Mentre la moglie Eleonora è una lagna, sciatta, poco curata, lo disprezza in continuo e gli fa pesare le sue scarse capacità. Lei:
“sta diventando sempre più sciatta, lo fa apposta. Da secoli non mette piede dal parrucchiere. Un tempo sotto il casco di Grazia ci passava la vita. Non gliene frega più niente di tenere i capelli in ordine: tanto più adesso, dopo l’alzata di ingegno di tagliarseli. E dire che aveva la capigliatura più bella di Roma.”.
Ma lui ha una strategia:
“conosce alla perfezione la ricetta per gestire un caso del genere: attendere che fiocchino le accuse, subito dopo cadere dalle nuvole e negare tutto, anche l’evidenza.”.
Il figlio più grande, Roberto, appena potuto è fuggito all’estero, a Londra, lontano da nonna e madre, ma ciononostante gode della loro massima stima. E’ quasi un mito, il suo volere legge ferrea:
“lo sguardo di Roberto esprimeva un’attesa, che lui interpretò come senso di colpa. (…) La scelta di Roberto di terminare il liceo in Inghilterra suggellò il distacco definitivo. (…) Londra è stata la sua salvezza. Da solo, c’è andato, neanche a sedici anni, pur di fuggire il clima avvelenato dalla tua stramaledetta ostilità.”
Stefano, il figlio più piccolo, è un adolescente problematico che poco comprende ed accetta le dinamiche familiari che tentano di irretirlo. In questo quadro di sofferenza e di scarsa avvedutezza, Gianni tenta l’ascesa sociale, deve trovare ad ogni costo soldi che gli permettano di compiere il grande salto di qualità. L’occasione gli è offerta dal suo amico avvocato Alberto Lepore,
“Lepore aveva ingranato, diventando in tempo record un penalista di grido, (…) era stato il più solerte a mantenere il filo della consuetudine, suscitando incontri diradati ma regolari.”.
La fortuna gli viene incontro nell’investire ingenti patrimoni in Aletheia, una società di fondi offshore, gestita da un asso della finanza: Vincenzo Greco, un suo ex compagno di classe al liceo. Convinta moglie e suocera in questa, Gianni cerca e trova innumerevoli altri investitori. Ecco che le porte dei salotti più esclusivi gli si aprono e nel giro di due anni il suo status muta, diventando un vincente. Ma c’è un fantasma che si sta affacciando prepotente: la crisi. E allora? Le difficoltà ritornano e il bel sogno si rivela un inutile e vacuo castello di carte.
Liberamente ispirato alla vicenda del cosidetto “Madoff dei Parioli”, la storia è priva di scrupoli, di scarsa moralità e di scarsi valori. Racconta di un mondo acido e cinico, di un uomo profondamente solo, privo di scrupoli e di nessun sentimento. La caccia al soldo, alla ricchezza e a qualunque prezzo è di rilevanza nel libro, che si è rivelato, al termine, una lettura poco piacevole proprio nella sua intima caratterizzazione e nei contenuti.

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Fr@ Opinione inserita da Fr@    13 Giugno, 2018
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Un viaggio nel passato per capire chi siamo

Nella Bologna degli anni Ottanta (che sembrano così vicini e così lontani allo stesso tempo) Tommy Bandiera cresce con la mamma Alice dopo la morte del padre. L’infanzia trascorre con la mamma, la nonna, gli zii, in particolare l’avventuroso zio Ianez (un nome, una garanzia), i giochi e le gare in bici con gli amici - fratelli Athos e Selva fra cortile e parrocchia, e le prime relazioni con le coetanee, in particolare con Ester, conosciuta per un caso particolare al cinema.
Di Ester, bella e impossibile, si invaghisce anche il nuovo arrivato a scuola Raul, che sarà per Tommy una vera propria nemesi ma anche un modello di vita irraggiungibile. L’adolescenza alle superiori, vissuta nel tentativo di capire chi si è e cosa fare nella propria vita, vede protagonista questo triangolo, assumendo così il racconto le tendenze a essere quasi una educazione sentimentale, iniziata con la giovane età del protagonista e terminata nell’estate dei diciotto anni.

“Tu che sei di me la miglior parte” edito da Mondadori è un romanzo corposo, da non sottovalutare leggendo la trama, il titolo o osservando la copertina. L’autore Enrico Brizzi, noto ai più per “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” realizza un incredibile dipinto dell’Italia anni Ottanta e Novanta, gli oggetti, i luoghi, le abitudini. Per me che non ho vissuto quegli anni è stato un vero viaggio nel tempo, come se invece li avessi provati sulla mia pelle: non riesco nemmeno a immaginare cosa possa essere la lettura di questo romanzo per chi come Tommy ci è nato, cresciuto, vissuto.

Ma il romanzo è più di una semplice presentazione di chi eravamo una trentina di anni fa, è davvero molto di più. Accompagnando Tommy in tutta la sua infanzia possiamo quasi considerarlo un vero romanzo di formazione, a tratti dolce e a tratti spietato…. Un po’ come è la vita.
Infatti l’autore ci fa vivere in prima persona, un’altra volta per molti lettori probabilmente, tutte le avventure, i problemi, i sentimenti che abbiamo dall’infanzia fino all’adolescenza. Ci fa scoprire come se fosse per la prima volta cosa è l’amicizia, la fiducia, l’amore, il sesso, le feste, la necessità di stare soli e capire cosa fare e cosa essere. L’autore ci racconta cos’è la vita, che, purtroppo o per fortuna non è mai bianca o nera, ma piena di sfumature, tutte diverse.

Quindi, che dire se non buona lettura? :)

"Sedevamo sull'erba a due passi dal laghetto, e mentre mangiavo il mio trancio di pizza non potevo levare gli occhi di dosso a Ester. Ogni suo gesto esprimeva la fierezza diuna giovane donna che comincia ad aprirsi la strada da sola. Mi faceva pensare a sua madre, così come mi era apparsa la prima volta; ormai la bellezza dell'una era quella dell'altra, e mi dissi che appartenevano a unaspecie rara e speciale, una stirpe di creature mandate sulla terra a far sognare e disperare gli uomini".

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Consigliato a chi ha vissuto gli anni '80 e '90 sicuramente ma anche a chi non avendoli vissuti vuole fare un salto indietronel tempo.
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    12 Giugno, 2018
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Zia Hank, la terribile!

Irving Ravetch e Harriet Frank sono stati due tra i più apprezzati sceneggiatori di Hollywood degli anni tra il ’60 e l’80. Più volte nominati per Oscar e Golden Globe, hanno vinto numerosi premi con le loro opere. Ma sono stati anche una famiglia; una famiglia complessa ed ingarbugliata che può essere sintetizzata con una delle prime frasi di questo libro di memorie: “un fratello e una sorella sposarono una sorella e un fratello. La coppia più anziana non aveva figli e quindi quella più giovane glieli prestava”.
Michael, ma per tutti Mike, è il figlio maggiore di Merona e Marty Frank, ma è stato anche “adottato” sentimentalmente dagli zii Irv e Hank (contrazione da Harriet Frank). Soprattutto zia Hankie, vulcanica, impetuosa, irruente donna in continuo movimento, in continua azione, monopolizza l’affetto di Mike cercando di trasformarlo nel figlio che lei non ha potuto avere; cercando di riservare per sé sola tutto il tempo libero che il ragazzo ha, per ricolmarlo di attenzioni, per dargli l’educazione che ritiene egli meriti, anche a costo di far sentire discriminati gli altri due figli del fratello e della cognata.
Sino all'età di otto, dieci anni, Mike è lusingato dalle attenzioni che gli vengono rivolte. È felice per la montagna di regali di enorme pregio che gli vengono fatti continuamente. Si esalta quando la zia lo porta per mercatini d’antiquariato o lo istruisce su ciò che è buono (b.) e ciò che è non buono (n.b.) quindi da evitare. Però, crescendo, comincia a percepire che questo affetto è patologico e asfissiante, opprimente. La zia è generosissima con tutti, ma la sua generosità non è disinteressata: pretende che gli altri ricambino rendendosi sempre disponibili ad ogni suo minimo richiamo, per assecondarla nei suoi capricci. Di capricci zia Hank ne ha tantissimi: dall'arredamento compulsivo della casa all'antiquariato; dalla letteratura al teatro, al cinema (mi raccomando non "ai film” che è solo il termine per definire la pellicola di celluloide!! ). Tutti rigorosamente selezionati tra b. e n.b. secondo i suoi gusti estremamente selettivi ed insindacabili. La musica classica è ottima, ma solo fino a Brahms; nella letteratura Shakespeare è obbligatorio, mentre sono b. Hemingway e Faulkner, assolutamente n.b. Roth e Zola. Per ciò che riguarda il cinema Lubitsh e De Sica sono b., Fellini (con l’esclusione delle prime opera) è n.b. L’arredamento “formale” è b. quello mo-der-no (detto così, sillabato) assolutamente no ed è meglio evitare anche chi lo sceglie, in quanto trattasi certamente di persona non affidabile.
Zia Hank è inclusiva ed esclusiva, egocentrica e competitiva con tutti. Ma soprattutto non accetta mai un no come risposta. Ogni tentativo di allentare le briglie con cui tiene vincolati parenti ed amici viene considerato una offesa mortale a lei medesima ed una palese dimostrazione di ingratitudine che la offende, deprime e contro la quale reagisce con smisurata durezza. Come comprenderà Mike molto tardi nella vita, Harriet con la sua generosità (apparente) vuole comprare l’affetto degli altri, vincolandoli alla sua volontà. La zia non ama, conquista. Se ci si oppone si viene collocati immediatamente in una lista di proscrizione che può durare anche anni o tutta la vita e che può dar luogo ad episodi di crudeltà feroce nei confronti degli esclusi che vengono spietatamente umiliati e offesi anche pubblicamente.
Proprio per questa oppressiva, ma anche affascinante, ammaliante, dinamica presenza, Mike farà estremamente fatica ad emanciparsi subendo avvilenti episodi di bullismo scolastico, crisi di sensi di colpa, malattie psicosomatiche, furenti litigate. Inutile sarà cercare supporto nei genitori, che non sanno come opporsi alla irruenza di Hank, inutile e controproducente cercare aiuto presso Irving, che è un uomo gentilissimo, spigliato, logico e di ironia sferzante, quand'è solo, ma che, quando si parla di Hank, diviene solo il marito sempre condiscendente, sempre pronto a soddisfare i capricci di lei, sempre passivo e remissivo, sempre difensore a spada tratta di ogni illogico eccesso.

L’A. con questo romanzo – che, in realtà, è una accurata biografia della vita dei Mighty Franks (i Formidabili Frank, il modo con cui Herriet definiva la sua famiglia), ma soprattutto della sua personale esistenza vicino ad Harriet jr Frank – mette a nudo il lato oscuro della famosa sceneggiatrice, ponendo in atto un’opera di esperta, ma pure impietosa dissezione autoptica del suo rapporto affettivo con la zia. In un passaggio del libro si osserva come Hank fosse riuscita a contraddire pure Tolstoj ove afferma che “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo”: infatti la famiglia Frank era felice, ma a modo suo. Ma quella dei Frank è stata davvero felicità o solo pura apparenza volta a celare una profonda, indicibile pena?
Sotto certi aspetti l’opera può essere intesa come una lunghissima seduta psicanalitica durante la quale Mike Frank adulto maturo, “butta fuori” tutto quanto si è accumulato nel petto del Mike bambino, adolescente e giovane uomo, per liberarsi finalmente dei blocchi che ciò gli ha causato. Ma così facendo li scarica tutti sulla nostra coscienza di lettori.
Proprio per questo motivo dopo le prime divertenti pagine si comincia a sentire un crescente imbarazzo a proseguire nella lettura. Sembra quasi di osservare dal buco della serratura la vita altrui senza staccare l’occhio neppure quando compaiono scene imbarazzanti o rigorosamente private.
Io non sono mai stato amante del gossip, che trovo stucchevole e noioso. In questo caso, non di gossip si tratta, ma di una demolizione sistematica della figura pubblica di una donna che, detto per inciso, all'atto dell’uscita del romanzo era ancora in vita all'invidiabile età di oltre 100 anni e che dovrebbe tuttora essere vivente.
L’A. con uno stile impeccabile, agile e coinvolgente, ma decisamente maramaldesco (in senso proprio, vista anche l’età della “vittima”), ci porta ad odiare questa figura guidandoci per mano attraverso i patimenti da lui sofferti che ci fa sentire come nostri e contro i quali ci spinge alla ribellione. Conquista la nostra solidarietà, ottiene il nostro supporto morale, ma alla fine ci lascia con un gusto amaro in bocca. Infatti se si trattasse solo di un romanzo (di pura fantasia) sarebbe un’opera eccellente: vibrante, intrigante, coinvolgente; toccante, a volte. Ma ciò che ci viene narrato è tutto vero, forse solo un po’ romanzato, ma realmente accaduto nei tempi e nei modi descritti. Allora ci si chiede: che diritto abbiamo per andarci ad impicciare di faccende altrui e divenire giudici del comportamento di chi non ha neppure avuto l’opportunità di parlare in propria difesa?
Per tale motivo, pur trattandosi di un libro effettivamente ben scritto e interessante, non mi sono sentito di attribuirgli un voto di piacevolezza particolarmente alto.
___________________________

Una piccola postilla conclusiva da super pignolo: ad un certo punto nel romanzo, che procede in attento ordine cronologico, si incorre in un fastidioso scivolone. Cioè vengono collegate alla storia narrata circostanze sicuramente posteriori. Si dà luogo, così, ad un palese anacronismo che è irrilevante, nel contesto generale della narrazione, ma che per parecchie pagine confonde e spiazza fino ad insinuare lo spiacevole dubbio di non aver capito bene lo svolgersi della trama. A quel punto forse era meglio omettere quel riferimento o accettarne una diversa collocazione temporale! No?

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... e apprezzato libri sul tipo di "Mammina cara" di Christina Crawford e, in genere, i memoir che scavano nella vita privata dei personaggi famosi per metterne in risalto le debolezze umane. Se già si conosce la storia professionale di I. Ravetch e H. Frank (autori di "Hud il selvaggio, "La lunga estate calda", "Cowboys", "Norma Rae", "Il buio in cima alle scale") può essere, poi, una occasione interessante per osservarli nella vita privata, con uno sguardo un po' impiccione ed indiscreto.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    10 Giugno, 2018
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Una scomparsa autorevole

Il presidente è scomparso è considerato il thriller dell’anno, e reca in sé due autorevoli firme: uno è stato il Presidente degli Stati uniti nel 1992, rimasto in carica fino al 2001. Concluso il mandato ha creato la Clinton Foundation, dedicata al miglioramento delle condizioni di salute della popolazione mondiale, allo sviluppo delle pari opportunità per le donne, alla lotta contro l’obesità infantile e alla prevenzione in campo medico, allo sviluppo delle opportunità di crescita economica e allo studio degli effetti del cambiamento climatico. E’ autore di una serie di saggi che ha riscosso un grande successo di pubblico. L’altro, James Patterson, è un giallista di fama internazionale. Detiene il record dei Guinnes dei Primati per il numero di volte in cui i suoi romanzi hanno raggiunto il primo posto nelle classifiche del New York Times.
Insieme si cimentano nella scrittura a quattro mani, che diventa una ricetta perfetta per scrivere un thriller politico destinato a divenire un bestseller mondiale. Uno ha la competenza e una perfetta conoscenza dei meccanismi della politica americana e l’altro quelli della tecnica investigativa. Uniti sono questi gli elementi che caratterizzano e segnano fortemente tutta la narrazione, tramutandola in un thriller che non può non affascinare il lettore.
Il libro si apre con il Presidente degli Stati Uniti, Jonathan Duncan, impegnato a difendersi davanti alla Corte Costituzionale da un’accusa tanto grave quanto infamante, quella di impeachment:
“prima o poi, ogni presidente si trova a dover prendere decisioni in cui la scelta giusta da un punto di vista pratico è invece quella sbagliata sul piano politico. Se la posta in gioco è alta, bisogna seguire la propria coscienza e sperare che l’opinione pubblica cambi idea. In fondo è per quello che si viene eletti.”.
I suoi avversari politici sono furiosi e scatenati, vogliono assolutamente annientarlo. Lo accusano di aver avuto contatti telefonici ufficiosi ed equivoci con una delle pedine più importanti del terrorismo internazionale, tal Suliman Cindoruk:
“E il capo di questi Figli della Jihad non è forse un tale Suliman Cindoruk, signor presidente?
Ecco ci siamo. Cala l’asso.
Sì, Suliman Cindoruk è il loro leader.
Ed è considerato il cyber terrorista più pericoloso e prolifico del mondo, è così?
Mi sembra una buona definizione.
E’ nato in Turchia, ma non è musulmano. E’ un estremista laico e nazionalista che vuole combattere l’influenza occidentale sul Medio Oriente e sull’Asia Centrale. La sua jihad non ha nulla a che fare con la religione.”
Inoltre la scomparsa in Algeria di un importante agente americano, pare sacrificato alla causa, apre scenari inconsueti per il Presidente, che attaccato ovunque decide di sparire temporaneamente. Pare per salvare il suo stesso Paese e la sua integrità. Ma un Presidente può scomparire nel nulla, anche se per poco tempo, senza che nessuno ne sappia nulla? L’uomo più potente e difeso al mondo scompare, evanescente come l’acqua. Lo stesso Bill Clinton in alcune interviste ha specificato che in casi di grave ed assoluta criticità anche l’uomo più potente al mondo può scomparire, sebbene per periodi brevi e al fine di risolvere questioni spinose. Così operando anche ad essere protetto nel modo e ne tempi normalmente configurati. Il libro è molto intrigante, e traspare nettamente una conoscenza perfetta non solo dei meccanismi e dei sotterfugi della politica americana, ma anche del ruolo e della vita che si svolge all’interno della Casa Bianca. L’ambientazione è tratteggiata in modo sapiente, ad esempio quando parla:
“La “stanza” è la Sala Roosevelt, di fronte allo Studio Ovale. Perfetta tanto per le riunioni, quanto per la finta udienza della commissione speciale, visto che tra i cimeli appesi alle pareti campeggia sia il ritratto di Teddy Roosevelt a cavallo con l’uniforme dei Rough Riders, sia il Premio Nobel per la pace attribuitogli per la risoluzione del conflitto russo-giapponese. Non ci sono finestre, gli ingressi si possono chiudere e proteggere facilmente.”
Un thriller che scarica adrenalina, si sente e si percepisce la pressione degli eventi, il peso delle decisioni lampo, il ruolo determinante ed egemonico di una figura così importante. Di grande attualità per gli argomenti trattati, che spaziano dalla minaccia jhadista, al terrorismo internazionale alla minaccia del cyber e dell’hackeraggio. Un libro che narra con perizia e sapienza narrativa dei misteri e dei segreti celati intorno alla Casa Bianca, quella fortezza che pare inespugnabile agli occhi di tutto il mondo, ma che forse non è proprio così. Per non parlare delle difficoltà psicologiche, delle logiche astruse di potere, vissute da un uomo forse più potente al mondo, che in questo caso si rivela anche e soprattutto nel lato umano della propria personalità e della propria intima solitudine. Nessun dubbio che questo libro sia destinato ad avere un successo planetario.

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Libri per ragazzi
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    08 Giugno, 2018
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Per #Millennials

È estate quando i genitori di Evy, conclusa la scuola, decidono di mandarla in vacanza dalla nonna Lea in montagna.
Quest’ultima, non vedente, è una persona molto saggia e autosufficiente che non manca di consigliare la nipote e di accostarla a quelli che sono i veri e sani valori della vita. Per la quindicenne la permanenza sui monti significa essere isolata da quelli che crede essere i suoi best friends in quanto la connessione non funziona se non sulla vetta del massiccio, ritrovare vecchi amici d’infanzia, quali Alice, ma anche incontrarne di nuovi come Manuel nonché innamorarsi del “lupo bianco” Chris. Da un primo approccio di amore-odio tra i due si instaura una piacevole intesa che verrà scossa dai primari sconvolgimenti adolescenziali. Matureranno altresì anche i rapporti di amicizia, Evelyn in particolare, ridimensionerà quello con Leila e Johnny, per avvicinarsi ad un più maturo concetto del legame in sé.
Con “#OPS” Elisa Maino offre al pubblico un libro semplice, con una trama non particolarmente elaborata, un linguaggio non volgare ma tipico dei suoi quindici anni – dove pullulano gli OPS!, gli slang e anche le colonne sonore del momento (in merito consiglio l’ascolto dei Pink Floyd) – e per questo munito di quelle tipiche contraddizioni proprie di chi ancora deve crescere e maturare soprattutto in ambito di scrittura. Il libro è sufficientemente lineare, la trama regge, però talvolta la sensazione è quella di qualche passaggio mancante, di qualche dettaglio ovviato. Si presta ai cuori sognatori perché privo di quelle esagerazioni o fatti eclatanti che potrebbero sconvolgere completamente lo scorrimento e si avvicina, per purezza, a quegli scritti che tra adolescenti andavano una quindicina di anni fa. Non ci troverete cioè sesso, parolacce, droga, o altro. Anzi. Evy insegue un sogno, quello di diventare una ballerina professionista (come la Maino stessa, viene da chiedersi), si circonda di persone solide (Chris seppur coetaneo – tra tutti – è colui che va per la sua strada non cedendo al “gruppo” ed è colui che, insieme alla nonna, è più maturo e per questo capace di mantenerla sulla retta via), si impegna per raggiungere il suo obiettivo allenandosi con costanza, non beve e non fuma. Questo è molto apprezzabile soprattutto visti gli eccessi che sembrano essere diventati per i ragazzi la regola. Ribadisco, il volume ha – logicamente – delle incongruenze tra cui il fatto che i personaggi si limitano ad una descrizione sommaria rischiando anche di contraddirsi, tra cui il fatto che sussiste un uso spropositato di nomi inglesi con annessi e connessi e tra cui il fatto che solo le ambientazioni tutto sommato riescono, ma si legge.
Pertanto sconsiglio la lettura di questo romance ai più grandi e a chi è abituato a saggi, classici, thriller e a libri di maggiore sostanza mentre lo consiglio ai cd. “Millennials” e in particolare agli adolescenti tra i 12 e i 16/17 anni che potranno trovare nelle sue pagine quella dimensione di pace, sogni e valori che la tecnologia che talvolta attenta.

«Questo mondo non è cambiato da quando ho perso la vista. In questo universo c’è tanta oscurità, ma c’è anche tanta luce, ricordatelo» p. 82

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Consigliato a chi ha letto...
si = ai ragazzi fra i 12 e i 16/17 anni che cercano un libro che sappia farli sognare e senza eccessi e ai docenti che cercano qualche lettura estiva - e non impegnativa - da consigliare alle proprie studentesse per avvicinarle alla lettura
no= ai più grandi che cercano romanzi di maggiore spessore e che per questo cercano volumi di maggiore spessore.

Infine, una nota per l’autrice: Elisa, resta con i piedi per terra, studia e impegnati per raggiungere quello che è il tuo sogno che sia la danza e/o lo scrivere o altro. E se questo sogno è far della scrittura il tuo mestiere ricordati che la base di partenza è buona ma che dovrai lavorare ancora per capire qual è la tua dimensione, per raggiungere anche lettori più adulti e per capire di cosa, in futuro, vorrai parlare. Va per la tua strada, non farti influenzare dagli amici, dai social, dalla moda. Non perdere la tua identità. Non dimenticare chi sei e perché hai scritto. Sii come il tuo Chris prima ancora che come la tua Evelyn. Buon proseguimento.
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    07 Giugno, 2018
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Contrera

L’ex poliziotto Contrera non è certo persona di moralità incorruttibile, anzi. Se è stato costretto a lasciare l’arma e la divisa per dedicarsi all’attività di investigatore privato, è proprio perché più volte si è abbandonato alla tentazione dettata da quel confine sottile tra legalità e illegalità e più precisamente dall’illiceità. Qualche bustarella da un lato, qualche occhio chiuso dall’altro, qualche partita di droga non riconsegnata per essere venduta, qualche piccolo espediente per arrotondare lo stipendio sono solo alcune delle colpe a lui ascrivibili. Ma Contrera è un uomo che non si perde d’animo. Anche se la sua vita è andata a rotoli, anche se non ha più rapporti con la ex moglie e con la figlia quindicenne dai capelli verdi Valentina, anche se si arrabatta con quei pochi euro raggranellati mediante i pedinamenti di mariti infedeli, anche se il suo ufficio è sito in una lavanderia a gettoni di un marocchino, Mohamed. E sarà proprio quest’ultimo a coinvolgerlo in questa prima particolare indagine stilata da Christian Frascella. Eh sì, perché il nipote del proprietario, Driss, si è cacciato in guai seri con degli strozzini albanesi, uomini loschi e appartenenti alla mala a cui deve almeno settemila euro. Il primo contatto di Contrera con il capoccia Oskar e il suo gruppo di seguaci non va nel migliore nei modi, ma neanche nei peggiori se si considera che il detective riesce ad ottenere una dilazione di pagamento di ben dieci giorni. Pochi, ma sempre meglio della morte, no? Asserisce l’uomo dalla giacca mimetica alla guida di una panda young del ’97. Di fatto per il povero sbruffone di un Contrera le cose sono solo destinate a peggiorare e questo, in particolare, quando Oskar, dopo un colloquio poco fruttifero con l’agente stesso, viene rinvenuto privo di vita nel suo locale e con un coltello piantato nel petto, questo quando tutti i sospetti della sua morte ricadono proprio sul giovane marocchino, avvistato mentre si dava alla fuga dal luogo del delitto. Molte le incongruenze nella ricostruzione dei fatti, lacunose anche le prove a carico del giovane, eppure la polizia, condotta dal vicequestore De Falco sembra aver già riscontrato in lui il colpevole perfetto. E Contrera che ha un codice d’onore tutto suo, che ha sempre la battuta pronta per nascondere quelli che sono i guai, i rimorsi e i dubbi della sua vita deviata, che comunque ha un tacito accordo con Mohamed non può proprio fare a meno di non indagare. Deve scoprire la verità e trovare Driss prima che sia troppo tardi. Ce la farà?
Ambientato nella Torino oscura della criminalità in una città quindi ben diversa da quella ricca e positiva che siamo abituati a vedere e scritto con una penna ironica, fluida, ilare, “Fa troppo freddo per morire” è un poliziesco/comedy che a tratti, per le qualità del suo eroe principale, ricorda la serie di Rocco Schiavone di Antonio Manzini ma che comunque se ne distanzia e differenzia per indagine, struttura della storia e enigma ricostruito. Frascella riesce quindi a creare un protagonista che si odia e si ama al contempo a cui si affianca una prima indagine piacevole e solida. Non solo, l’autore riesce anche a delineare il panorama multiculturale attuale, evidenziandone pregi e difetti ma senza mai cadere in banalità e/o luoghi comuni.
Una buona prova.

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Romanzi
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    05 Giugno, 2018
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Anni lenti

Mi sono approcciata a questo libro non conoscendo l'autore, spinta dalla trama che sembrava interessante, seppur non scevra da potenziali banalità, ma si sa dipende dalla penna di chi scrive rendere la più semplice delle storie una bellissima esperienza letteraria.
L'ambientazione è la Spagna degli anni sessanta, le prime cellule separatiste basche che si formano, l'odio che trasuda verso Franco, la quotidinità delle famiglie, l'universale grettezza del popolino.
Se c'è una cosa che almeno nella prima parte del romanzo è ben fatta è l'atmosfera, polverosa di quei quartieri bagnati da una pioggia minacciosa, lenta e incessante.

Non è stata una lettura che mi ha lasciata soddisfatta, ancora prima che per la sceneggiatura per lo stile.
La scelta di utilizzare la metascrittura mi è sembrata artificiosa e inutile al fine di far vivere la storia, perché se da una parte la contrapposizione tra le memorie del protagonista e gli apunti dello scrittore danno forza alla figura del protagonista stesso, dall'altra succhiano tridimensionalità a tutti gli altri personaggi, relegandoli nella penombra di un passato lontano col quale male si empatiza.

Si capiscono le intenzioni dell'autore, ma a mio avviso il risultato è privo di forza e alla sua conclusione non si rimane con nessuna immagine fissata nella mente, con l'impressione di non aver conosciuto nulla in più se, come me, non si era appreso prima da altre fonti.

Non mi sento di consigliarne la lettura, seppur abbia molte qualità, uno stle veloce e semplice, dialoghi mai banali, lessico colto, ma comprensibile e la simpatica caratteristica di mostrare come pensa uno scrittore mentre crea, i suoi pensieri, i suoi dubbi le sue paure; ma ripeto quello che secondo me è l'essenza della storia è soffocata da artefici stilistici, che sono certa hanno fatto la fortuna del titolo, ma che io non sono riuscita ad apprezzare in pieno.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    05 Giugno, 2018
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Guillermo e Manolo

«Tutto era lento e insieme frenetico, mentre continuavano ad arrivare corpi su corpi, straziati, uomini a volte coscienti, a volte no, e quasi tutti piangevano, urlavano, si lamentavano, ma alcuni si limitavano a guardarsi attorno in silenzio con gli occhi sbarrati. Erano i peggiori, perché capivano che stavano morendo, ed erano pochi ma pur sempre tanti, troppi per noi che non bastavamo mai per tutti, noi incapaci di salvarli, e a volte dimenticavo tutto, chi ero io, cosa ci facevo lì, cosa stava succedendo. Finché intravedevo una possibilità, un corpo quasi intero, uno squarcio netto, un rosario di ferite da schegge, spaventose ma superficiali, e allora, in un attimo, mi tornava in mente tutto: Forza, svelti, questo lo salviamo…»

Madrid, 30 Marzo 1947. Una domenica come tante dopo il conflitto, dopo anni di sangue. Un incontro. Una donna, Amparo, che conosce la vera identità di Rafael Cuesta Sànchez, una donna che sa che in realtà dietro a questa falsa identità (una delle tante) si cela Guillermo Garcìa Medina. Una donna che al momento del loro incontro non ha idea che quel rendez-vous è stato determinato da una pregnante necessità; quella di aiutare niente meno che Manuel Arroyo Benìtez. Ma per capire quale legame si cela dietro questo appuntamento inaspettato dobbiamo tornare indietro nel tempo e poi, nuovamente, andare avanti sino agli anni della Guerra Fredda.
Madrid, 1936, la carneficina. La speranza di potersi salvare dai bombardamenti, ospedali di fortuna. È in questo scenario di morte che si aprono le vicende. Guillermo è appena un tirocinante eppure in quei pochi mesi ha acquisito una conoscenza e padronanza della medicina senza eguali. Fuori da quelle mura improvvisate la vita si dipana tra sostenitori della Repubblica e sostenitori di Hitler. Tra i neri vi è niente meno che Amparo Priego Martìnez, nipote di Don Fermin, amica d’infanzia del protagonista che chiederà il suo aiuto per poter far fronte alla situazione politica dove tutti sono nemici di tutti.
È il 1937 quando la strada del medico si interseca inesorabilmente e ininterrottamente con quella di Manuel Arroyo Benìtez, nato a Robles de Lanciana, e noto anche come Leon, Felipe Ballesteros Sanchez nonché Peter Louzàn Valero, Josè Gallardo Ortega e chissà quante altre identità. Nato da una famiglia poverissima con tanti figli dove la sua presenza o assenza nemmeno veniva notata, cresciuto come chierichetto per poi proseguire gli studi presso il liceo e concluderli nell’università di legge per avvicinarsi ancora alle lingue e alla carriera diplomatica (almeno all’inizio), Manolo è un uomo ferito che necessita di cure, ma, è anche una spia. Una trasfusione, sarà determinante per il suo avvenire.
E da questo incontro nascerà una collaborazione nonché una amicizia, un legame, senza eguali, un rapporto che li accompagnerà per tutta la vita. Una amicizia, questa, che si dipana in una storia avventurosa che si muove nel tempo e nello spazio, passando tra Spagna, Svizzera, Inghilterra, Germania, Russia, Stati Uniti e Argentina, e tra soldati, diplomatici, nazisti, agenti della Cia. La missione, inoltre, principale dei due sarà quella di smascherare un’organizzazione clandestina volta a far espatriare i criminali del Terzo Reich, sottraendoli alla condanna. A dirigerla, nel cuore della capitale spagnola, è niente meno che Clara Stauffer, nazista e falangista. Infiltrazioni, azioni in incognito e sotto falsa identità, tra criminali di guerra e tesori trafugati, sono protagonisti indiscussi di un romanzo in cui il confine tra “i buoni” e i “cattivi” è sottilissimo.
Almudena Grandes con “I pazienti del Dottor Garcia”, ricrea lo spaccato storico che va dal preludio della Seconda Guerra Mondiale, l’ascesa di Franco, il venir meno di uno stato repubblicano, l’avvento delle prime trasfusioni e dei successivi progressi della scienza medica, sino ad arrivare nel pieno degli anni settanta e cioè negli anni della Guerra Fredda e della caduta del dittatore spagnolo. Il testo è un elaborato solido, forte, con una trama ricca di colpi di scena e priva di sbavature. A personaggi inventati, ancora, se ne alternano altri realmente esistiti che rendono più vivido e concreto il racconto. La scrittrice ha di fatto compiuto un perfetto lavoro di ricostruzione storica a cui si affianca una narrazione fluida che ricorda quella di Ken Follett nella Trilogia del Novecento e che per questo si rende adatta a tutti, piacevole, avvincente e di facile scorrimento. Qualche difficoltà può essere determinata dai continui cambi di identità degli attori che ne determinano le fila e dal grande numero di personaggi inseriti, ma, la stessa, non manca di ricordare a chi legge chi ha innanzi in quel momento preciso delle avventure e qual è il ruolo di quelle che potranno o non potranno essere comparse.
E se anche la storia può non sembrare particolarmente originale stante la già ritrovata tematica delle spie e della ricerca dei criminali nazisti in altre opere (basti pensare a “Il profumo delle foglie di limone” di Clara Sanchez, per non andare lontano) e stante l’impostazione narrativa simile a quella di autori quali il già citato Follett, l’autrice non delude e anzi viene ricompensata a pieni voti della fatica fatta.
“I pazienti del Dottor Garcia” è infatti un libro che merita di essere letto, che conquista, affascina e avvince il conoscitore, che è vario per situazioni e per elementi storici e che porta anche ad interrogarsi su quel confine tra giusto e sbagliato e buoni e cattivi che spesso attanaglia l’essere umano. Non fatevi spaventare dalla mole, merita.

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siti Opinione inserita da siti    31 Mag, 2018
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I pericoli del fanatismo

Romanzo d’esordio del premio Nobel, scritto in Yiddish e pubblicato a puntate su “Globus”, rivista letteraria di Varsavia, nel 1935, tradotto poi in inglese nel 1955.
Goray, piccola comunità polacca, risollevatasi dagli attacchi dei cosacchi che hanno sterminato e disperso la popolazione ebrea nel 1648, è ora una comunità pacifica guidata da un rabbino che a tratti quasi si annoia anche se fatica a incanalare i malumori dei membri della sua famiglia in perenne discordia. Progressivamente la comunità viene investita da straordinarie dicerie: prossima è la venuta del Messia e con essa la fine della lunga schiavitù del popolo ebraico, si avvicina il giorno della liberazione. E giunge l’anno 1666 e in piena aderenza ai calcoli cabalistici Shabbatay Tsevi si rivela come il Messia tanto atteso, egli chiede devozione totale al male in cambio della fine dell’esilio e della tanto agognata Terra d’Israele. Tutti gli sono devoti… In questa cornice storica si inserisce la vicenda romanzata di Rechele della quale si racconta la breve e triste sventura che accompagna il triste collassare degli eventi.
Le pagine si susseguono in un alternarsi di cadute e di risalite, di dannazioni e di resurrezioni, di grandi flagelli e di momentanee schiarite, di condanne e di pentimenti e con essi vacilla anche l’attenzione del lettore che arranca tra toni cupi ed eventi incredibili, consapevole comunque di avere tra le mani le pagine di un grande narratore, seppur all’esordio.
Consigliato se interessati alla storia degli ebrei nell’ Europa orientale del XVII secolo, all’esoterismo ebraico, alla cabala, al primo nucleo del futuro sionismo.

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Romanzi
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    31 Mag, 2018
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Eleanor

Eleanor Oliphant ha trent’anni, una laurea in lettere classiche e da nove lavora in una agenzia di grapich design dove si occupa di note di credito. È una persona normale, caratterizzata da un aspetto normale e che mira alla normalità. È alta più o meno nella media, ha un peso approssimativamente nella media, ha lunghi capelli lisci castano chiaro che le arrivano giù fino alla vita, una pelle chiara e un volto che è un palinsesto di fuoco in quanto caratterizzato da un naso troppo piccolo e occhi troppo grandi, orecchie affatto eccezionali e una serie di lunghe cicatrici che le scendono dalla tempia alla gola deturpandole metà viso. La sua vita è scandagliata da una routine bel definita in cui dal lunedì al venerdì lavora presso l’agenzia fino circa alle 17.30 pranzando con qualcosa acquistato in bar fuori dall’ufficio (perché ha constato che portarselo da casa è controproducente visto che gli alimenti si deteriorano prima dell’effettivo consumo) e cenando con la solita pasta al pesto, il venerdì sera, poi, mentre tutti si danno ai bagordi lei si concede una pizza margherita acquistata presso il suo rivenditore di fiducia sorseggiando la sua bottiglia di vino. Terminato questo mix alternativo si fa un’altra grande concessione consistente in una bottiglia di vodka con cui si lascia andare solo e soltanto quel giorno alla settimana. Il sabato e la domenica riduce il consumo elargendosi qualche sorso disseminato nelle ore diurne onde essere certa di non essere ubriaca ma nemmeno totalmente lucida. Perché sia chiaro, nessuno deve pensare che lei sia una ubriacona. Già gli sguardi dei suoi colleghi d’ufficio sono eloquenti circa le sue stranezze, certo non vuol dargli altri motivi per additarla in senso negativo. D’altra parte lei è una persona per bene, parsimoniosa, con una vita tranquilla e vezzi che è felice di conservare. A quelle già illustrate si somma infine l’ultima e forse più significativa consuetudine di Eleanor: la telefonata con la mamma il mercoledì sera. Questa è una conversazione telefonica che si svolge sempre alla stessa ora e il solito giorno anche perché la madre della protagonista è agli arresti e dunque non può concederle che quei 15 minuti di considerazione – dolorosa e cattiva – alla settimana.
Eppure di punto in bianco l’abitudinarietà della Oliphant viene stravolta. A un concerto incontra l’uomo della sua vita, o almeno così crede. Ciò la porta a ritenere necessaria una maggiore cura del suo corpo e del suo aspetto, la porta a tentare di inserire nella sua vita uscite e elementi che mai avrebbe pensato di introdurre, e ancora la porta ad acquistare un telefono cellulare nonché un laptop per effettuare le sue ricerche da casa. Tutte quelle spese in così poco tempo? Quasi non si riconosce più. Tuttavia sono necessarie, deve adattarsi a quella che potrebbe diventare la sua nuova esistenza.
Al contempo nella sua realtà riesce ad entrare anche Raymond Gibbons suo collega della sezione dell’helpdesk e dunque specializzato in personal computer e tecnologia. L’uomo dai capelli rossicci chiari tagliati corti nel tentativo di nascondere l’ assottigliamento e la diradazione, una barbetta bionda stopposa, una pelle molto molto rosa, un abbigliamento alquanto opinabile, nerd nel midollo, fissato con i videogiochi e associato a un maiale ad una prima occhiata dalla protagonista, riuscirà con la sua semplicità e genuinità ad aprirsi un varco nella rude e impenetrabile corazza della donna finendo con l’instaurarci un rapporto di amicizia molto profondo che azionerà gli ingranaggi per il suo effettivo cambiamento. Sarà nel vero senso della parola il primo essere umano ad essere amico di Eleanor. Si perpetreranno, tra l’altro, tutta una serie di circostanze che consentiranno al lettore di conoscere del passato di questo personaggio eclettico e di grande profondità. Pagina dopo pagina questo sarà sempre più coinvolto e rapito dalle vicende tanto da non riuscire a staccarsene.
“Eleonor Oliphant sta benissimo” è infatti uno scritto di gran contenuto ma anche di grande forza empatica. È caratterizzato da una serie di personalità forti e magistralmente delineate che conquistano e convincono chi legge. La ragazza, in particolare, con il suo linguaggio erudito, il suo equilibrio faticosamente conquistato, il suo distacco emotivo da tutto quel che le accade attorno e anche la riscoperta di sé, la maturità conquistata dagli eventi che la porteranno a fare i conti con il passato, ad affrontarlo, a parlarne, a rompere quella cupola invisibile che si era costruita intorno, la rendono palpabile, concreta e impossibile da non amare.
Al tutto si somma uno stile narrativo arguto, forbito, fluido, intelligente che si avvalora della tecnica del “narrare ma non spiegare”, del “fai vedere, ma non limitarti a una mera esposizione (e che è ravvisabile in scrittori quali Fredrick Backman e i suoi “L’uomo che metteva in ordine il mondo” e/o “Britt-Marie è stata qui”e/o “Mia nonna saluta e chiede scusa”), elementi questi che consacrano lo scritto quale un piccolo gioiello semplicemente indimenticabile.
Goliardico, ricco di contenuti, sagace, riflessivo.

«Quando si legge di “mostri”… nomi noti… si dimentica che avevano una famiglia. Non spuntano fuori dal nulla. Non si pensa mai a chi resta ad affrontare i postumi.» p. 336

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    25 Mag, 2018
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Il canto delle sirene

“Il cielo sopra l'Everest”, scritto da David Lagercrantz e pubblicato da Marsilio nel maggio 2018, racconta una immaginaria spedizione sull'Everest, svoltasi nel 2000. Gli avvenimenti narrati nel libro prendono liberamente spunto da una reale vicenda che si svolse nel 1996 ed ebbe come drammatico epilogo la morte di ben 8 alpinisti, colti da una tempesta mentre scendevano dalla vetta più alta della Terra.
Il testo di Lagercrantz è un “page turner”, un libro che si legge tutto d'un fiato: gli eventi sono raccontati con lo scopo evidente di catturare l'attenzione del lettore, uno scopo che viene pienamente raggiunto.
Un gruppo di alpinisti, la maggioranza dei quali non professionisti, si accinge a raggiungere la vetta dell'Everest. Per poterci riuscire hanno dovuto pagare delle somme esorbitanti ed affidarsi a guide e portatori esperti di alta quota. Tutti sembrano avere una motivazione ineccepibile per tentare quest'impresa un po' folle: è nella natura dell'uomo sognare di oltrepassare i propri limiti e molte persone di quella sfortunata spedizione sono incuranti di rischi e pericoli e vogliono solo aggiungere un'altra sfida vinta alla loro collezione. All'interno del gruppo però la solidarietà e l'amicizia sono soltanto apparenti, sotto la superficie covano invidia, rancore, gelosia, disprezzo di sé e desiderio di vendetta. Tutto questo, unito alla completa mancanza di rispetto verso lo spirito della montagna, non può portare di sicuro al buon esito dell'impresa.
Lagercrantz padroneggia con maestria l'intreccio della narrazione alternando analessi e prolessi che tengono il lettore incollato alla pagina. Inoltre dimostra di essersi documentato scrupolosamente sull'argomento: leggendo si ha quasi l'impressione di trovarsi sull'Everest, a quote non propriamente confortevoli per l'essere umano, tra mancanza di ossigeno, probabile congelamento, perdita di liquidi, rischio elevato di pazzia e morte. Tuttavia ho avuto l'impressione che la psicologia dei personaggi sia stata descritta in maniera un po' superficiale e talvolta banale. Ed anche lo stile dell'autore mi è sembrato un pochino anonimo, con ripetizioni frequenti delle stesse frasi e degli stessi concetti.
Quindi, in conclusione, consiglio “Il cielo sopra l'Everest” a chi è in cerca di un romanzo d'avventura dal ritmo serrato e dall'ambientazione affascinante. Chi cerca qualcosa in più potrebbe rimanere deluso.

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Romanzi
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    24 Mag, 2018
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More "Less" for all...



Arthur Less è un uomo che fugge.
Fugge dalla perdita del fidanzato (che si sposa con un altro), dal fallimento del suo ultimo romanzo (che nessuno vuole pubblicare), dal suo cinquantesimo compleanno (che lo terrorizza), ma più di ogni altra cosa fugge da se stesso...
Alle soglie della mezza età, non si sente ancora pronto a lasciar andare la giovinezza e quindi scappa, corre lontano per non farsi raggiungere dalla vecchiaia e dalla solitudine.
Ma si sa, puoi anche girare mezzo mondo, prendere aerei, attraversare città, deserti e tempeste di sabbia, alla fine, il "tempo" ti troverà, ovunque tu sia...e insieme ad esso anche tutti i problemi che pensavi di aver seminato.
Arthur Less è un novello Peter Pan, incapace di crescere, inadeguato, imbranato, un po' vigliacco...
La sua adorabile goffaggine, insieme ad una narrazione lieve ed ironica e ad un finale riuscitissimo, mi hanno conquistata e mi hanno fatto superare fasi della lettura piuttosto noiose.
Perché lo ammetto, questo tipo di romanzo un po' rocambolesco, non è esattamente nelle mie corde, ma sono comunque contenta di averlo letto, di aver fatto la conoscenza di questo personaggio così imperfetto, così ingenuamente inconsapevole di ciò che gli sta intorno, da riuscire a trasformare la tragedia in commedia, ogni volta.
È un perdente che alla fine vince sempre.

Questo libro, nella sua leggerezza, è un viaggio alla ricerca di se stessi, un voler dimostrare che possiamo vivere anche senza il nostro "abito blu con la fodera fucsia", quello in cui ci sentiamo sicuri, quello che ci protegge e ci identifica, e dentro il quale spesso ci nascondiamo.
Togliamoci i nostri abiti blu, spogliamoci delle nostre paure e del nostro senso di inadeguatezza, e teniamoci la nostra spontaneità, il candore con cui guardare il mondo e la capacità di amare...

E infatti questo è anche un libro sull'amore, sull'eterna diatriba tra passione bruciante e quotidianità...
"Cos'è l'amore? Una cosa buona e cara? Oppure fuoco e fiamme?"
O forse "il trucco sta nel non innamorarsi"?

Premio Pulitzer 2018, con questa motivazione: " Un libro generoso, musicale nella prosa e ampio in struttura e portata, sul diventare grandi e sulla natura essenziale dell'amore".
Sottoscrivo, ma, ad onor del vero, io preferisco il Greer de "La storia di un matrimonio", più intenso e profondo.

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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    22 Mag, 2018
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così credibile da essere incredibile

Come una donna passa dal buttare la spazzatura a diventare una consulente della polizia in un'indagine per omicidio. Marnie, una tatuatrice si imbatte nel cadavere di un uomo che sembra essere stato parzialmente scuoiato per rimuovergli un tatuaggio. Viene ingaggiata dal responsabile delle indagini, che contro il parere del suo diretto superiore ipotizza l'esistenza di uno scuoiatore seriale alla caccia di tatuaggi particolarmente belli. Un personaggio, che convinto che anche l'arte del tatoo meriti di essere inserita tra quelle più nobili e che quindi valga la pena collezionare anche i migliori pezzi prodotti da questi artisti.
L'autrice ha deciso di tratteggiare a colori vividi, con molti dettagli i tre protagonisti principali del volume. Ha invece solo abbozzato le altre persone che ruotano nella loro orbita. Una scelta che di solito mi piace poco, ma qui trovo sia vincente. In questo modo tutta l'attenzione è sul crimine, mentre i dettagli di contorno fanno quello che devono fare: il contorno.
Il serial killer ci parla in prima persona e si rivolge a noi con supponenza, ostentando la sua abilità e le sue conoscenze. Senza pudori o vergogne ci racconta del piacere che prova nel sentire la pelle morbida o il sangue caldo delle sue vittime sotto le mani. Si venta di quanto i suoi coltelli siano affilati, della sua abilità nel maneggiarli e nella sua capacità di destreggiarsi tra i segreti della conciatura del pellame. Con noi si apre, ci racconta del suo passato, de suo mentore, dei suoi progetti. ma non è uno stupido nulla gli sfugge sul suo aspetto, sul luogo dove è localizzata la sua tana.
Marni il secondo dei protagonisti è una donna che dapprima ci appare fragile: un coniglietto bagnato fradicio che trema di fronte alla sua ombra. Intuiamo che il passato è stato cattivo con lei e il presente nonostante si sforzi di essere buono non riesce a conquistare la sua fiducia. Niente di più sbagliato, dentro di sé ha una scorta di risorse e di capacità di iniziativa invidiabile.
Infine Francis Sullivan: l'ispettore. Difficile riuscite ad inventarsi un investigatore non ancora visto senza ridurlo a una macchietta. La Belsham c'è riuscita. Francis ha i capelli rossi, è timido, non beve, non fuma e va a Messa, anzi ha anche la chiave della chiesa per accedervi quando ne ha bisogno. Ma è tutt'altro che un bigotto e uno sprovveduto. Promosso nonostante sia il più giovane del suo gruppo, si trova davanti al suo primo caso da capo. Ostacolato dai suoi sottoposti e sottostimato dai suoi superiori non gli resta altro che fare affidamento su testardaggine e orgoglio.
La trama nel complesso è ben strutturata. i racconti di indagini e delitti sono del tutto credibili. L'autrice riesce a descriverci con naturalezza scene raccapriccianti e pratiche disumane. I numerosi dettagli sulle tecniche usate dal killer sono sicuramente frutto di un attenta preparazione. Il mondo che gira attorno ai negozi di tatuaggi ci viene raccontato segnalando le bizzarrie che caratterizzano i protagonisti, ma anche le loro normalità e fragilità.
La Belsham crolla solo nelle ultime pagine. dopo aver combattuto con orgoglio per oltre 350 pagine contro banalità e cliché, cade nelle ultime pagine propinandoci ancora una volta la solita vecchia trita e ritrita storiella sentimentale tra la donzella in pericolo e l'eroe sul cavallo banco che l'ha salvata. Da lettrice navigata, capisco che ci sia la necessità di mantenersi aperte le porte per un eventuale seguito delle indagini di questa coppia. In definitiva, però l'episodio non mi ha affatto rovinato il piacere della lettura alla quale confermo il parere positivo..

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Romanzi autobiografici
 
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ALI77 Opinione inserita da ALI77    21 Mag, 2018
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L'AMORE NON TI COMPLETA MA TI COMINCIA

E’ la prima volta che affronto un libro di Matteo Bussola, non sapevo cosa aspettarmi e ne sono rimasta piacevolmente sorpresa.
Dopo aver letto questo romanzo mi sono detta: finalmente ho trovato un autore italiano che sa cosa significa scrivere ed emozionare con le parole.
Le parole sono proprio al centro della sua scrittura, l’autore le ricerca con cura e importanza e dà un vero e proprio “peso” a quello che scrive.
Il tema fondamentale dell’intero testo è l’amore di coppia in tutte le sue “fasi”, ma più in generale sull’amore, da quello ricambiato a quello immaginato e purtroppo anche a quello fallito o che abbiamo perso.
Matteo scrive dei racconti e assegna un titolo ad ognuno di loro, dividendo l’intero libro in quattro sezioni: il rosso che significa passione, il blu per nostalgia e consapevolezza, il verde per memoria e scoperta e infine il bianco per la rinascita.
I racconti riguardano sia le esperienze dello scrittore fino alla sua situazione attuale con Paola e le loro tre figlie. Oltre alle sue vicende personali troviamo anche le storie che gli sono state raccontate e il lettore in alcune pagine si riconosce in queste storie comuni.
Quello che mi ha colpito di più è la scrittura di Matteo che è viva, con le parole noi riusciamo ad immaginarci la storia che lui ha vissuto e questo lo riesce a fare solo una persona che ha una grande padronanza della lingua italiana.
Le sue esperienze passate hanno permesso di rendere lo scrittore la persona che è oggi, il racconto ci viene proposto in maniera autentica e sincera.
L’amore non è sempre bello, ma ogni storia è diversa dalle altre e anche nel libro passiamo da una fase di conoscenza, felicità, passione ad un periodo di dolore e di sofferenza.
L’amore richiede degli enormi sacrifici e molte volte non finisce come noi ci aspettiamo.
Il libro è una sorta di lungo percorso che porta alla fine alla consapevolezza del vero amore, ripercorrendo le varie tappe della vita di Matteo che riesce a capire e a riconoscere quale sia per lui il vero amore.
Lo scrittore si rende conto di quali sentimenti prova, solo quando si guarda dentro e apre il suo cuore ad un’altra persona e lo fa seriamente senza regole, senza barriere e senza ostacoli.
Il libro non ha di per sé una trama, ma queste pagine che apparentemente sono slegate tra di loro sono propedeutiche al raggiunto della fine e alla scoperta dei sentimenti.
Lo stile dell’autore è molto curato e molto preciso, riesce a catturare le emozioni e a raccontarci con impeto e realismo le storie d’amore più diverse.
Forse per la prima volta troviamo un testo in cui l’amore non viene raccontato in maniera banale e scontata ma viene finalmente descritto in modo onesto e senza creare delle “false aspettative” sui lettori.
L’amore che troviamo in questo libro, non viene raccontato in maniera sdolcinata o proponendoci delle favole, ma ci viene detta la cruda realtà senza filtri, senza romanzare il testo.
E’ proprio questo che rende il libro vivido e reale e vicino a noi, alla nostra quotidianità.
In ogni pagina troviamo delle frasi da sottolineare che rappresentano delle piccole-grandi verità sull’amore.
Le storie d’amore non sono tutti uguali alcune parti del libro mi hanno emozionato e fatto riflettere di più mentre altre mi hanno divertito.
“La vita fino a te” rappresenta uno spaccato dell’amore di oggi, di quante complicazioni e di quante difficoltà due persone trovano per vivere insieme i sentimenti che li uniscono ma soprattutto per scoprire cosa provano veramente.

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Racconti
 
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Belmi Opinione inserita da Belmi    21 Mag, 2018
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Il vicequestore imperfetto

“Mi rendo conto che mi sono divertito come un ragazzino coi trenini elettrici, la speranza è quella di restituire al lettore anche solo una piccola parte della gioia che queste storie mi hanno regalato”.

Antonio Manzini presenta così la sua nuova raccolta di racconti, composta da cinque indagini con protagonista il vicequestore Rocco Schiavone.

Ho “conosciuto” Rocco Schiavone qualche anno fa con il primo libro della serie “Pista nera”. La “conoscenza” era finita subito perché il protagonista non era proprio nelle mie corde, Manzini per i miei gusti aveva osato troppo.

Ho iniziato quindi la lettura con diffidenza, ma lo stile dell’autore mi ha subito coinvolto ed è riuscito a farmi vedere uno Schiavone, sempre corrotto, imperfetto e un po’ troppo fuori dagli schemi, ma anche simpatico, ironico e di cuore.

Le indagini in realtà sono quattro anche perché un racconto (per me il più bello) tocca un argomento che non ha a che fare con le indagini ma con tanto divertimento e simpatia, si parla della partita di pallone fra questura e magistratura, una vera chicca!

Per quanto riguarda gli altri, ogni vicenda comprende circa una quarantina di pagine e lo spazio per le indagini non è molto, quindi più che indagare, con questi racconti, si ha la possibilità di conoscere Schiavone e le varie interazioni che ha con i suoi colleghi, i superiori e come, anche se ancora molto imperfetto, ha cuore e tanta simpatia e ironia.

Da quello che ho letto in giro, queste non sono proprio storie nuove per gli amanti che hanno seguito l’intera serie, ma sono una ripetizione e molti si sono un po’ sentiti “presi in giro” dalla pubblicazione.
Per chi come me, invece, se le ritrova davanti per la prima volta, sarà davvero difficile non divertirsi.

Mi hanno così divertito che sto ripensando di dare una seconda opportunità alla serie…

Buona lettura!

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Gialli, Thriller, Horror
 
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    20 Mag, 2018
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la strana scomparsa di una giornalista

Joel Dicker, nato a Ginevra nel 1985, ha pubblicato La verità sul caso Harry Quebert, Gli ultimi giorni dei nostri padri, Il libro dei Baltimore. Ora torna in libreria con un poderoso libro dal titolo: La scomparsa di Stephanie Mailer.
Un libro giallo, ma non solo, piuttosto corposo (più di settecento pagine), che ho letto con interesse e curiosità, che non mi ha mai stancato, grazie alla capacità straordinaria dell’autore che riesce sempre a sorprendere e a creare il giusto tempo dell’attesa. Presentato nel recente Salone del Libro di Torino, Joel Dicker ha dichiarato che con questo libro lui vuole dimostrare che:
“La verità non esiste e la funzione è solo un gioco della realtà”.
La vicenda si svolge ad Orphea, una città immaginaria degli Hamptons, alle porte di New York. Una cittadina tranquilla, la cui quiete viene bruscamente interrotta una notte del 30 luglio 1994, in cui:
“Quadruplice omicidio a Orphea: il sindaco e la sua famiglia assassinati. Sabato sera il sindaco di Orphea, Joseph Gordon, sua moglie e il figlio di 10 anni sono stati trucidati nella loro casa. La quarta vittima è Meghan Padalin, di 32 anni. Quest’ultima, che al momento dei fatti stava facendo jogging, deve avere assistito per caso alla scena ed è stata freddata in piena strada, davanti alla casa del sindaco.”
Molti anni dopo il detective incaricato di seguire il caso, Jesse Rosenberg, sta per abbandonare il lavoro per andare in pensione. Durante i festeggiamenti viene avvicinato da una giornalista dell’Orphea Chronicle, Stephanie Mailer, la quale gli comunica che :
“Secondo lei, nel 1994 abbiamo preso un granchio. Dice che nell’indagine ci è sfuggito qualcosa e abbiamo sbagliato il colpevole. (…) Che la risposta era sotto i nostri occhi e non l’abbiamo vista.”
All’epoca era stato incriminato un ricco ristoratore, Ted Tennenbaum. Purtroppo dopo averne fatto la sua conoscenza, della donna se ne perdono completamente le tracce. Trovare l’assassino e scoprire che fine ha fatto Stephanie diventa una questione principale per gli investigatori, soprattutto per Anna Kanner, nuova vicecomandante
“arrivata a Orphea sabato 14 settembre 2013. (…) Davanti a me si schiudeva una nuova esistenza. Gli unici reperti della mia vita precedente erano i mobili che avevo fatto portare da New York.”.
Sullo sfondo ci sono i preparativi per una nuova edizione del festival teatrale, le manovre politiche dei politici locali, i problemi personali e familiari dei tanti personaggi coinvolti nelle indagini parallele, fino al momento in cui si stabiliscono improbabili e turbolenti collegamenti tra passato e presente. Affascinante è la descrizione dei complessi rapporti che legano le persone che abitano e formano la piccola comunità, intessuti di rivalità, invidie, adulteri, sentimenti di odio, di rivalsa e di vendetta.
Il libro e la sua narrazione sono tese, mozzafiato e sorprendenti nelle sue conclusioni. Lo stile di scrittura è fresco, frizzante, non si perde in inutili digressioni. La curiosità è continuamente sollecitata, e l’intreccio ben congegnato e costruito inchioda il lettore in una lettura forsennata. Una vera e propria discesa negli inferi di una notte buia, attorno al quale ruota una trama densissima e corposa.

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Consigliato a chi ha letto Joel Dicker, La verità sul caso Harry Quebert
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    18 Mag, 2018
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A sangue freddo

Tredici modi di guardare contiene una raccolta di 4 racconti molto diversi come stile. Il primo, quello che dà il titolo alla raccolta e che occupa una metà del libro, è molto brillante e piacevole, una specie di giallo senza suspense. E’ pungente, vivace, forse un po’ costruito rispetto agli ultimi due racconti che preferisco. Il protagonista Mendelsshon senior è un personaggio interessante con le sue amnesie e la sua intelligenza pirotecnica. Il racconto procede avanti e indietro come seguendo i passi di un balletto; si ha l’impressione di seguire i movimenti di un valzer, secondo un ritmo e una musica nascosta. Questo fatto toglie al testo qualsiasi drammaticità, come pure qualsiasi interesse per il caso poliziesco. L’interesse è tutto rivolto alle schermaglie verbali del vecchio e alla sua autoironia pungente. Il giallo di per sé non ha né capo né coda, nel senso che è del tutto assurdo che il povero Mendelsshon venga aggredito e ucciso. Del resto l’autore spiega di avere scritto il racconto dopo avere subito lui stesso un’aggressione simile a sangue freddo del tutto ingiustificata.
Segue Che ore sono lì da te con un’atmosfera afghana (nostalgia di casa e attesa del cecchino) e poi gli ultimi due racconti bellissimi, simili come scrittura di qualità eccelsa. Raccontano due storie molto drammatiche: la prima di una madre che smarrisce il figlio adottivo adolescente e lo crede morto, la seconda di una suora che riconosce il suo stupratore di decenni prima tra i mediatori di un trattato di pace e cerca di capire se sia davvero cambiato magari per opera della grazia divina. Queste due storie mi hanno colpito per la bellezza dello stile e la capacità di raccontare quello che passa nella testa delle due donne con una sensibilità, una intensità e creando una profondissima intimità con il lettore.
Il tema comune è quello della violenza gratuita: l’omicidio nel primo racconto, l’Afghanistan (attesa dell’ attentato) nel secondo, la possibile morte del figlio nel terzo, e infine la storia della suora e dello stupro protratto. Il ricordo della prigionia continua a distanza di anni a minare la mente della suora fino a mutilarne la memoria in uno pseudo-Alzheimer. L’idea di scrivere su questo tema, la violenza, nasce dall’esperienza personale di cui l’autore parla a fine libro in una breve postfazione. McCann rumina sulla aggressione subita attraverso l’invenzione di altre aggressioni in qualche modo simili, fino a immedesimarsi nella suora e a cercare attraverso di lei di esplorare la mente del suo persecutore. E’ molto bello che il racconto finisca con un atto di fiducia da parte della suora in un uomo, un atto di fede in senso lato anche in Dio, nell’umanità, nella bontà da parte dell’autore.

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Romanzi
 
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    18 Mag, 2018
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And in short I was afraid

È di nuovo il tema dell’ambiguità al centro di Berta Isla, l’ultimo stupendo romanzo di Javier Marias, è l’uomo prigioniero della sua solitudine, condannato a vivere passivamente una vita senza speranza di futuro. C’è tutta l’opera di T.S.Eliot in queste pagine, da The love song of J. Alfred Prufrock, ai Four Quartets fino a The hollow men. Il personaggio di Tomás, infatti, così come ci appare dalla descrizione in prima persona di Berta, sua moglie, è molto simile al Prufrock di Eliot, con la sua incapacità di compiere scelte determinanti per la sua vita, con quella sua spiccata tendenza alla simulazione che è propria dell’attore e che lo rende però più simile al buffone che a colui che sia capace di turbare l’universo. Il dramma di Tomàs consiste in una perdita di identità che lo emargina dal mondo dei suoi affetti per immergerlo in quel mondo di falsità, prevaricazione e violenza in cui vivono gli agenti segreti. La rassegnazione che contraddistingue Tomàs lo induce a trascinare una vita-non vita, nella quale tutto ciò che accade semplicemente non accade, e tutto quello che esiste semplicemente non esiste. Ed è il rapporto col tempo che rende possibile tutto ciò, un tempo che si dilata e resta indeterminato: “Tomàs pensò, ricordò: - La storia è una trama di momenti senza tempo -(T. S. Eliot – Four Quartets)”. La progressiva perdita di speranza trasforma la vita di Berta, che affronta con coraggio la solitudine e i momenti di disperazione con quel senso di soffocamento che è proprio di chi soffre: “ Quel verso ora risuonava dentro di me: - Questa è la morte dell’aria diceva -. E in effetti non era come se mi mancasse l’aria, era qualcosa di peggio; come se l’aria non circolasse più, come se non ci fosse più in tutto l’universo e avesse cessato di esistere. E al termine di qualche verso che non capivo e che perciò non ricordavo Tomàs aggiungeva: - Questa è la morte della terra. - (T. S. Eliot – Four Quartets). Le frequenti citazioni tratte dalle opere di Eliot inducono a pensare che tutto il romanzo sia stato congegnato come una trasposizione in prosa dei versi del poeta, attraverso la realizzazione di personaggi che vivono nell’epoca contemporanea le stesse ansie e le stesse angosce dell’uomo del primo novecento. Marias ha costruito anche tecnicamente un romanzo perfetto, affidando alla narrazione in terza persona la parte che racconta la vita di Tomàs lontano da Berta, e alla voce di Berta il racconto della loro vita in comune e della sofferenza di entrambi. Ed è ancora con i versi di Prufrock che Tomàs descrive infine se stesso : “ I grow old…I grow old…I shall wear the bottoms of my trousers rolled”. Sentirsi vecchio e svuotato di speranze, lo rende simile a un fantasma, a una sorta di Hollow Man. La sua vita come quella di Berta, rimarrà per sempre sospesa, una vita come tante altre, solamente in attesa.

No! lo non sono il Principe Amleto, né ero destinato ad esserlo; 
?Io sono un cortigiano, sono uno ?
Utile forse a ingrossare un corteo, a dar l’avvio a una scena o due,?
Ad avvisare il principe; uno strumento facile, di certo, ?
Deferente, felice di mostrarsi utile, 
?Prudente, cauto, meticoloso; 
Pieno di nobili sentenze, ma un po’ ottuso; 
?Talvolta, in verità, quasi ridicolo – ?
E quasi, a volte, il Buffone.
 
Divento vecchio… divento vecchio… ?
Porterò i pantaloni arrotolati in fondo. 
(T. S. Eliot – The love song of Alfred J. Prufrock )

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    12 Mag, 2018
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Ma l'autrice non sapeva come concludere?

Ho dato a questo romanzo un ottimo voto, ma vi assicuro che avrebbe potuto essere facilmente più alto, se non fosse per qualcosa che traspare già dal titolo della mia recensione. Ma ne parlerò tra poco.
Cominciamo dallo stile dell'autrice, che mi ha stupito molto: avvincente come un thriller, ti cattura dalla prima all'ultima pagina e scorre che è un piacere. L'ho letto in due tre ore, pensate un po' voi, anche se è comunque un libro breve, neanche 140 pagine.
L'autrice riesce a caratterizzare molto bene i suoi personaggi, donando agli adulti (con una psicologia più sviluppata) una narrazione in prima persona, e ai bambini (più acerbi) una narrazione in terza. Forse i genitori di Théo si comportano in maniera un po' troppo inverosimile, ma è una cosa su cui si può sorvolare, perché la De Vigan riesce a essere profonda e a rendere alla perfezione i rapporti tra i vari attori della storia che, principalmente, sono bambini, genitori e insegnanti. È un quadro reso molto bene, devo ammettere.
Ma allora vi starete chiedendo, perché quei voti al contenuto e allo stile? Devo ammettere che allo stile ero tentato di dare 5 e al contenuto 4, fino a che non ho letto l'ultima pagina; o forse anche prima, quando mi sono reso conto di quanto fosse impossibile, in così poche pagine, chiudere il cerchio aperto dalla scrittrice. Un finale aperto può essere assolutamente efficace quando l'autore è bravo a impregnarlo di significati nascosti, a scatenare riflessioni nel lettore e portarlo a concluderlo nella sua mente. Questa conclusione, purtroppo, è talmente brusca e immotivata che fa perdere punti a un romanzo che avrebbe potuto essere bellissimo. Ci sono tratti psicologici non portati a termine, situazioni interrotte bruscamente e che non vedranno conclusione (a meno di un sequel? Ma mi pare assurdo, per un libro così breve), indagini psicologiche che avrebbero potuto scavare molto più in profondità ma che invece si fermano a metà strada, donando la sensazione che l'autrice non sapesse come andare avanti. Il motivo deve essere questo, a meno che nella sua mente, con questo finale aperto, l'autrice sperasse di scatenare l'immaginazione di cui ho parlato poco fa. Mi dispiace dirlo, ma credo che si sia sopravvalutata, nonostante sia molto brava.

La storia si concentra su quattro personaggi in particolare: il piccolo Théo, che vive una situazione familiare molto brutta, con due genitori separati e in condizioni psicologiche disastrate, completamente concentrati su loro stessi e quasi indifferenti alla loro creatura; il piccolo Mathis, migliore amico di Théo, suo complice in un gioco molto pericoloso che ha a che fare con l'assunzione di alcool; l'insegnante dei due ragazzini, Hélène, con un infanzia dura alle spalle, l'unica a percepire la condizione disastrata in cui riversa Théo; la madre di Mathis, alle prese anche lei coi ricordi di un'infanzia difficile e un presente che lo è altrettanto.
Un quadro non molto allegro, direi, e che non fa altro che peggiorare di pagina in pagina.
È molto interessante come l'autrice tesse i rapporti tra i vari personaggi, questi quattro in particolare. È molto brava a gestirne le azioni in base alla loro personalità particolare, senza mai farli apparire incoerenti né forzati, portando avanti una storia tragica in cui si spera possa esserci un barlume di speranza, ma che non fa altro che sprofondare nell'oblio più profondo. Mi sarebbe piaciuto sapere se questo oblio sarebbe stato definitivo o se, alla fine del tunnel, ci sarebbe stata una luce.
L'autrice ha sprecato un'occasione per scrivere un libro che potesse essere di grande valore; è un libro comunque piacevole da leggere, bello, ma si avverte comunque la sensazione dell'occasione sprecata.
Peccato.

"Le fedeltà invisibili. Sono fili che ci legano ad altri, ai vivi come ai morti, sono promesse che abbiamo sussurrato e di cui non riconosciamo l'eco, lealtà silenziose, sono contratti per lo più stipulati con noi stessi, parole d'ordine accetate senza averle comprese, debiti che custodiamo nei recessi della memoria."

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Romanzi
 
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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    11 Mag, 2018
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Specchio, specchio delle mie brame..

.. chi è la più bella del reame?

La perfida regina di Biancaneve è un docile agnellino se paragonata a Marie: bella, bellissima, è la reginetta del liceo, invidiata dalle sue coetanee ed ambita da tutti i ragazzi.
E Marie si nutre di tale venerazione: la sua vanità è pari solo al compiacimento che prova quando col suo atteggiamento provoca rancore e gelosia, non si accontenta di essere ammirata ma si sente appagata solo quando vede la stizza negli occhi di chi la osserva e si crogiola nella loro consapevolezza di inferiorità.
"Alle feste le piaceva che i ragazzi avessero occhi solo per lei, stava sempre attenta a non dare l'idea di preferirne uno agli altri - che se ne stessero pure tutti lì, pallidi per l'angoscia di non essere scelti. Quale piacere immenso nell'essere cento volte respirata, mille volte desiderata, e mai colta!"

E' in estasi Marie quando Olivier, figlio ed erede del farmacista di città, la prende in moglie: lui è follemente innamorato, lei ha il cuore che trabocca di gioia al pensiero delle sue amiche che si roderanno l'anima vedendola raggiante al braccio di quell'uomo.
Peccato però che Marie rimanga incinta prima del matrimonio e le famiglie decidano di festeggiare l'unione dei due in modo più riservato ed intimo, lasciando sfumare così il sogno di Marie che già pregustava il suo ruolo da protagonista in una festa sfarzosa in cui tutti i riflettori sarebbero stati puntati su di lei.
Il colpo di grazia arriva poi con la nascita della primogenita, Diane, che sin dal primo momento magnetizza a sè con la sua candida bellezza gli sguardi e l'attenzione di tutti, papà, nonni, amici, tutti tranne Marie, sua madre.
La bimba cresce nella più assoluta indifferenza da parte di sua madre che si limita ad assolvere i suoi obblighi di mamma senza la minima dimostrazione di amore verso la piccola Diane, come se col cordone ombelicale fosse stato reciso anche il loro legame di sangue, sostituito piuttosto da un sentimento di disprezzo e bieca gelosia.
La situazione non migliora con la nascita del fratellino pochi anni dopo e diventa insostenibile con l'arrivo della sorellina Celia, verso cui Marie sembra convogliare tutto quell'affetto negato alla sorella maggiore, instaurando un rapporto iperprotettivo, esasperatamente ossessivo.
Non ci sono alternative per Diane, l'unico modo per rimanere lucida e non cadere nel baratro della follia è fuggire, allontanarsi da casa e dalla sua famiglia per dedicarsi, corpo e anima sarebbe il caso di dire, alla sua grande passione: la cardiologia, lo studio del cuore, l'organo forse più misterioso del nostro corpo, sin dall'antichità considerato dimora dell'anima e dell'intelletto:
"Colpisci il tuo cuore, è là che il genio risiede", dice Alfred de Musset in uno dei suoi versi.
E Diane, che sin da piccola mostrava spiccata intelligenza pari solo alla sua grazia, non avrà alcuna difficoltà a raggiungere ottimi risultati durante la sua carriera universitaria.
Ancora una volta, però, qualcuno cercherà di strapparle il cuore, di colpirla là dove fa più male, facendo riemergere quelle paure, quel senso di rabbia e sdegno verso chi tradisce la sua fiducia ed amicizia a favore del proprio egoistico interesse.

'Colpisci il tuo cuore', ultimo romanzo della prolifica scrittrice belga Amelie Nothomb, riprende in chiave moderna e decisamente 'dark' la favola di Biancaneve.
Le analogie sono tante, alcune più evidenti altre meno: dalla candida innocenza di Diane che cerca in tutti i modi di giustificare e comprendere l'assurda gelosia della madre, sperando sino alla fine di conquistare il suo affetto, all'atteggiamento freddo e disturbato della 'regina' Marie che da una parte entra in competizione con Diane e dall'altra cerca di 'plasmare' la sorella a sua immagine e somiglianza, quasi fosse una sorta di protuberanza uterina.
Ed ancora il padre di Diane, Olivier, completamente succube dalla bellezza della regina, incapace persino di intuire il disagio della figlia e la vessazione psicologica che sta subendo ad opera della madre, una vera e propria violenza perpetrata tra le mura del focolare domestico con un epilogo fin troppo roseo se paragonato a quello dei più recenti casi di cronaca nera: innegabile infatti che l'equilibrio mentale, l'assennatezza e la tolleranza con cui Diane, sin da piccola, reagisce al comportamento della madre siano credibili solo in una realtà da 'favola'.
Una favola per adulti: non un racconto della buonanotte per bambini, bensì un messaggio forte ed esplicito per destare la sensibilità di noi 'grandi' sulla tossicità di un sentimento come la gelosia e l'invidia.

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    10 Mag, 2018
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Teresa e Bern: conoscenze fallibili del mondo

A dieci anni dall’esordio che gli valse il Premio Strega con La solitudine dei numeri primi, torna Paolo Giordano con Divorare il cielo: un romanzo che è un ritorno alla giovinezza. Una storia tra tre “fratelli” in una masseria pugliese,
“divisi tra il radicamento alla terra e l’ambizione di prendersi tutto anche il cielo”.
A cui va ad aggiungersi Teresa, sedici anni. Quattro personaggi, un contesto concreto, una storia che attinge a valori e concetti immateriali. Un testo:
“potente e generoso, che restituisce al lettore l’antica meraviglia di una grande storia in cui perdersi”.
In primis la masseria: un vasto luogo dove Cesare, padre “adottivo” dei tre ragazzi, ha creato una piccola comunità dove trovano rifugio ragazzi dati in affido, dove:
“vanno e vengono, in continuo”.
Un luogo dove si lavora, si prega, si imparano a memoria i salmi. Un luogo ricco di sole, da sempre contrapposta all’altra ambientazione: Torino, la città da cui proviene Teresa, luoghi simbolo di emozioni e sensazioni contrastanti, per cui:
“Ormai ero abituata a trovare Torino più inospitale di come l’avevo lasciata, i viali troppo ampi, il cielo bianco e opprimente come un tendone di plastica. Un girono Cesare aveva detto: “alla fine tutto ciò che l’uomo ha costruito sarà ridotto a uno strato di polvere di meno di un centimetro. Siamo così insignificanti. E’ soltanto il pensiero di Dio a renderci degni”. Fra i palazzi del centro le sue parole mi tornavano in mente e tutto mi appariva precario, fasullo. “.
Il libro si apre con una scena piuttosto emblematica: una grande piscina, tre ragazzi si immergono nudi di notte, dall’alto Teresa, ragazza sedicenne, li contempla, li studia, li accompagna nella fuga. Un insieme, il primo di tanti, di trasgressione, misto tra innocenza e passione. Come lo sarà quello di fuggire tra i canneti a fare l’amore con Bern. Dopo quell’intrusione i tre “cospiratori” sono obbligati ad andare a chiedere scusa al padre di Teresa. In quel caso Bern conosce Teresa e l’effetto è dirompente e devastante. Si scopre l’amore, la passione oltre ogni dire. Si consuma nell’arco di una estate, perché nel secondo ritorno Teresa perde Bern, che non c’è più, tutti sussurrano qualcosa di terribile al riguardo. Ma anni dopo, quando arriva di nuovo in Puglia per il funerale della nonna, Teresa incontra di nuovo Bern: con Tommaso e altri amici è tornato alla masseria, divenuta una comune ecologista. Teresa torna con lui, abbandona l’università, Torino, la famiglia. Sarà per sempre…. Anche dopo l’allontanamento da Bern, che risentirà solo dopo anni di dolore causato da un omicidio; e solo in seguito a quell’abissale incontro tra i due la ragazza si metterà alla ricerca delle vicende che avevano segnato dei vuoti all’interno della loro storia. E lo farà in una notte di Natale, con Tommaso, l’ultima voce rimasta, che rivelerà sorprese inaudite.
Bern è il personaggio clou del romanzo, insieme a Teresa. E’ mistero e totalità, è passione irraggiungibile e tormentata, passione consumata e mai più trovata. In ogni suo comportamento c’è un assoluto totale e paralizzante, che non permette mediazioni di nessun tipo. Lui segue le sue passioni e le sue pulsioni, con forza e violenza, senza curarsi di nulla.
E poi c’è Teresa, appunto, l’anima alter di Bern. Cesare la chiama:
“l’Anfibia”,
perché racchiude in sé la durezza del compimento di scelte dolorose, come quella di abbandonare i suoi genitori, Torino, l’Università, e la capacità di conoscersi, di guardare al proprio dolore e alla sofferenza, cercando di superarli.
Un libro complesso, costituito da un forte intreccio, da rimandi al passato, da emozioni da vivere comunque e sempre. L’obiettivo è la conoscenza della vita, poiché:
“c’è sempre molto da conoscere della vita di qualcun altro. Non si finisce mai. E a volte sarebbe meglio non iniziare affatto.”.
Forse dopo questa lettura non avremmo la certezza e la perfetta conoscenza del mondo intero, di certo avremo una marcia in più per comprenderlo ed amarlo.

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consigliato a chi ha amato Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi.
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AsiaD Opinione inserita da AsiaD    06 Mag, 2018
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CONFESSIONI

Cinque uomini semi sconosciuti che decidono consapevolmente di incontrarsi senza uno scopo preciso ma con la sola volontà di scambiarsi esperienze. Io sono una donna e chiaramente ero particolarmente curiosa di vedere se leggendo questo romanzo avrei scoperto qualche nuovo lato del genere maschile o magari sarei rimasta sorpresa dal modo in cui gli uomini affrontano i loro pensieri e le loro esperienze e soprattutto nella modalità con cui la condividono con i loro simili. Obiettivamente non è accaduto nel senso che i personaggi che ruotano intorno a questa notte “da leoni” (o mici più che altro) rappresentano un pò lo stereotipo dell’uomo con tutte le fantasie e le sue rappresentazioni nella vita reale, le contraddizioni che per l’universo femminile contraddistinguono il sesso cosiddetto forte. L’uomo a mio modo di vedere ne esce un pò sconfitto, un pò vittima dello stereotipo di se stesso, fatto di una continua gara di virilità, vittima dei propri istinti e del fascino del gentil sesso; un uomo nella cui vita rimane centrale il sesso e l’attrazione fisica, spesso in alcuni fasi nascosta dietro un falso amore. L’altro sconfitto è sicuramente il matrimonio, dipinto nelle storie di ognuno dei presenti (forse tranne nella voce narrante e partecipante al club, di cui se non ho perso qualcosa non si sa neanche il nome) come la fine di ogni libertà espressa , delle emozioni, delle proprie volontà. C’è proprio un passo in cui si racconta di quando uno dei protagonisti si imbatte in un vecchio amico e alla affermazione di essere sposato scatena in lui una immediata sensazione di costrizione, il che appunto dimostra il cliché del pensiero maschile che il matrimonio sia la tomba dell’amore. Credo sinceramente da donna che gli uomini siano un pò meglio di cosi, amano profondamente e riescono ad essere fedeli alla propria donna senza particolari sacrifici. E’ chiaro che in tutta questa confessione a più voci troviamo anche storie di amore perso e sentimenti autentici di cui ogni lettore darà la propria interpretazione ma l’impronta generale che lascia è quella appena descritta. Nel loro continuo gioco, nel prendersi poco sul serio, nell’azzuffarsi e poi abbracciarsi c’è poi tutta quella semplicità, nel senso buono del termine, di cui noi donne avremmo alle volte bisogno e che ho ritrovato molto nel modo di confrontarsi e colloquiare tra questi uomini; non oso immaginare un club femminile alla stessa stregua che cosa avrebbe potuto creare, probabilmente una lunga e noiosa seduta psicologica volta ad analizzare ogni gesto e sussurro, diciamo che molto probabilmente non avrebbe restituito lo stesso tono leggero qui presente, anche se magari le storie trattate in alcuni casi nascondevano un elemento tragico abbastanza preponderante.
Sarei curiosa di leggere una recensione di questo stesso romanzo scritta da un uomo per vedere se effettivamente le impressioni siano le medesime.
Non conoscevo l’autore e devo dire che ha uno stile diretto e mai noioso, nonostante il contenuto non mi abbia entusiasmato, è riuscito a rendere comunque il romanzo piacevole alla lettura. Mi piacerebbe leggere altro di Michaels.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    05 Mag, 2018
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KATRINA, MADRE ASSASSINA

“Legherò i pezzi di vetro e mattone con lo spago e appenderò i frammenti sopra il letto, in modo che brillino nel buio e raccontino la storia di Katrina, la madre che è entrata nel golfo come una regina per portare la morte. Il suo carro era una tempesta terribile e nera, e i greci avrebbero detto che era trainato dai draghi. La madre assassina che ci ha feriti a morte e tuttavia ci ha lascaiti vivi, nudi, stupefatti e raggrinziti come bimbi appena nati, come cuccioli ciechi, come serpentelli appena usciti dal guscio, affamati di sole. Ci ha lasciato un mare buio e una terra bruciata dal sale. Ci ha lasciati qui perchè impariamo a camminare da soli. A salvare ciò che possiamo. Katrina è la madre che ricorderemo finché non arriverà un'altra madre dalle grandi mani spietate, sanguinaria.”

Nel 2012 un film del regista esordiente Benh Zeitlin, “Re della terra selvaggia”, aveva fatto conoscere al grande pubblico una delle zone più povere e degradate degli Stati Uniti, il delta del Mississippi, raccontando la storia di una bambina di sei anni, Hushpuppy, che vive con il padre nella “Grande vasca”, una zona acquitrinosa perennemente flagellata da alluvioni e da uragani. Quella pellicola, vincitrice della Camera d'or al Festival di Cannes e candidata al premio Oscar per il miglior film, era stata un vero e proprio shock, dal momento che i luoghi e i personaggi che rappresentava apparivano incredibilmente lontani dagli Stati Uniti che cinema e TV normalmente ci propinano, immersi com'erano in una sorta di neo-medioevo pre-tecnologico. Con “Salvare le ossa”, scritto negli stessi anni ma pubblicato solo adesso in Italia da NN Editore (probabilmente grazie al fatto che nel frattempo l'autrice ha vinto ben due National Book Awards), Jesmyn Ward ci riporta negli stessi posti del film, quel bayou endemicamente sconvolto dalla miseria e dalle catastrofi naturali. Nella Fossa, una vasta depressione argillosa circondata da boschi di pini e di querce, vive, tra automobili abbandonate, pollai fatiscenti ed elettrodomestici arrugginiti abbandonati alla rinfusa, in una casa “tutta sbilenca” con “il colore della ruggine”, la famiglia afroamericana dei Batiste, un padre alcolizzato e dispotico e quattro figli ancora minorenni (la madre è morta di parto dando alla luce l'ultimo di essi). L'unica femmina è la quindicenne Esch, voce narrante del romanzo. Esch è una sorta di sognatrice in un mondo sporco, squallido e brutale, che non lascia spazio ai sogni e che non pare concedere alcuna prospettiva ad una adolescente come lei, men che meno il lusso dell'autocommiserazione. Perfino il sesso, che lei ha sempre praticato compulsivamente con tutti i ragazzi della compagnia (poiché fin dall'inizio è stato “come nuotare nell'acqua” ed “era più facile dargli quello che volevano che negarglielo”) è un modo per sentirsi come le dee, le eroine e le ninfe del libro di mitologia che sta leggendo durante l'estate, Euridice, Psiche o Dafne. E' però Medea il personaggio in cui Esch si riconosce di più, dal momento che Manny, il ragazzo di cui è innamorata e da cui sta aspettando un bambino, non la guarda nemmeno negli occhi e le preferisce vigliaccamente un'altra fanciulla, come il Giasone del mito. La Ward circonfonde Esch di uno sguardo tenero e affettuoso, al punto che non facciamo fatica a parteggiare per la sorte di questa figura esile, timida e goffa, che custodisce il segreto che porta in grembo interrogandosi sul significato misterioso di essere madre (quando assiste al raptus della cagna di Skeetah contro uno dei suoi cuccioli, Esch si domanda: “E' questo che significa essere madre?”). Accanto a lei c'è anzitutto il fratello Skeetah, la cui esistenza è dedicata alle cure per China, la femmina di pitbull dal pelo bianco che lui fa combattere in sanguinosi incontri clandestini e che all'inizio del libro vediamo impegnata a sfornare la sua prima cucciolata. Tra il ragazzo e la sua cagna c'è un rapporto speciale, che potrebbe derfinirsi quasi un rapporto d'amore (“Skeetah guarda China come se volesse immergersi in lei e annegare”), a cui Esch guarda con una sorta di trattenuta invidia. C'è poi il primogenito Randall, colui che dopo la morte della madre ha preso in mano le redini della famiglia e a cui il piccolo Junior è morbosamente attaccato, come se vedesse in lui una specie di surrogato materno. Vedendo Randall portare Junior aggrappato alla sua schiena, Esch non può fare a meno di pensare al rapporto tra Achille e Patroclo. Tra tutti i fratelli c'è da sempre un legame di mutua protezione, fatto di un affetto riservato, silenzioso ma profondo, che sembra creare uno scudo contro le prepotenze del padre, il quale però è paradossalmente l'unico a percepire la pericolosità dell'uragano in arrivo e a prodigarsi per mettere in sicurezza la casa ed accumulare viveri e scorte di emergenza, inascoltato dai suoi familiari come la profetessa Cassandra dai concittadini troiani nell'Iliade.
“Salvare le ossa” è apparentemente incentrato sull'uragano Katrina, che nel 2005 ha seminato terrore, morte e distruzione lungo le coste della Florida, della Louisiana e del Mississippi. In realtà a Katrina sono dedicati soltanto gli ultimi due capitoli del libro. Negli altri dieci capitoli l'attesa del ciclone rimane sullo sfondo, come un'eventualità incerta e improbabile a cui la famiglia Batiste (con l'esclusione, come detto, del padre) non ha il tempo di pensare, immersa com'è in preoccupazioni più urgenti e pressanti. Skeetah deve pensare a proteggere i cuccioli di China, e per procurar loro le medicine necessarie non esita a organizzare con i fratelli un furto presso l'abitazione di una famiglia bianca dei dintorni; Randall cerca di essere ammesso a un campus estivo di basket, nella speranza di intraprendere una carriera sportiva a livello universitario; e infine Esch si trova a fare i conti con la sconvolgente scoperta di essere incinta. Lungo giornate talmente calde che l'aria sembra “densa come acqua sul punto di bollire”, l'implacabile conto alla rovescia di quella che è una tragedia annunciata ci fa assistere a corse a perdifiato nei boschi, a cruenti combattimenti di cani, a risse tra clan rivali, a incidenti grandguignoleschi, a cui si alternano oziosi bighellonamenti, pigre bevute di birra sdraiati sui cofani di un'auto e rinfrescanti nuotate nelle limacciose acque dello stagno vicino a casa. La Ward sa organizzare con innegabile sapienza la sua scrittura: la comprime e poi la distende, la accelera e subito dopo la rallenta, condensandola in scene concitate e frenetiche (il combattimento tra China e Kilo) oppure al contrario concedendosi parentesi più rarefatte (la ricerca delle uova nascoste da parte di Esch). Nel suo stile c'è un grande senso del ritmo, come in una partitura jazz, che abbraccia il lettore con dolcezza e poi lo stringe e lo avvince implacabilmente, senza più lasciargli il tempo di respirare. Un esempio delle qualità compositive della Ward si può trovare nella sequenza a “montaggio alternato” in cui il sanguinoso infortunio alla mano del padre viene narrato contemporaneamente all'uccisione di uno dei cuccioli da parte di China: è talmente tesa ed emotivamente intensa da assurgere al livello di una tragedia classica, con in più gli stilemi di una narrazione estremamente moderna. Quello alla tragedia non è un riferimento azzardato: infatti tra i modelli della scrittrice statunitense ci sono proprio le tragedie greche, oltre che i miti delle antiche cosmogonie (come il Diluvio biblico). Già ho parlato in precedenza dell'attrazione di Esch per il personaggio di Medea, alla cui vicenda ella accosta costantemente le proprie personali disavventure. E' però con l'uragano Katrina, che i notiziari della TV annunciano ogni giorno sempre più vicino e potente, che l'ineludibile fato fa irruzione prepotentemente nella storia, dispensando con cieca inesorabilità sofferenze e distruzione e punendo come una nemesi celeste l'hybris degli uomini. L'apocalittico cataclisma, che coincide ovviamente con il climax del romanzo, è anche l'occasione per una catarsi purificatrice. “La tragedia per mezzo della pietà e del terrore – ha scritto Aristotele nella sua “Poetica” - finisce con l'effettuare la purificazione di così fatte passioni.” E' infatti in questa drammatica occasione, facendo fronte comune contro le avversità della sorte, che i Batiste si riscoprono una famiglia unita. Lo stesso capofamiglia, che fino ad allora era apparso prevaricatore e violento, si prodiga per tenere tutti i figli uniti, riscoprendo quell'istinto protettivo da troppo tempo dimenticato (c'è poi un piccolo grande gesto di umanità che mette in una luce diversa il padre, ed è subito prima della fuga nel solaio della casa invasa dall'acqua, quando egli si preoccupa di portare con sé, come unico, estremo ricordo della vita trascorsa, una busta contenente le foto della moglie morta). Nella lotta per la sopravvivenza si rinsaldano non solo i legami familiari, ma anche la solidarietà comunitaria, come ben sa chi ha avuto la sventura di essere vittima di un terremoto o di un'alluvione. Nello scenario da fine del mondo in cui si trovano catapultati Esch e i suoi fratelli il giorno dopo l'uragano, le porte delle case si aprono per accogliere coloro che sono rimasti senza un tetto, e le scorte previdentemente accumulate sono condivise per sfamare i vicini più sfortunati. Grazie a un finale aperto che non intende precludere la speranza, “Salvare le ossa” è un romanzo in qualche modo salvifico, cosa che lo accomuna ad altri grandi capolavori della letteratura americana del passato, come “Furore” di John Steinbeck.
“Sono i corpi a raccontare le storie”, scrive Jesmyn Ward. Fedele a questo assunto, “Salvare le ossa” ha una prosa materica, concreta, che riserva ai suoi personaggi la stessa cura, la stessa attenzione ai dettagli impiegata per la descrizione della natura. Così Manny ha “la pelle come il cuore di un tronco di pino appena tagliato” e il viso “come un fiore di magnolia che si agita nel vento”, Big Henry ha gli occhi con “il colore dell'asfalto scolorito” e Randall “sul campo da basket si muove come un coniglio”. La Ward è inoltre abilissima a contrappuntare il monologo di Esch con una serie di repentine e folgoranti metafore: la cagna che partorendo spalanca di scatto occhi e denti richiama alla mente i fedeli della chiesa metodista in preda allo Spirito Santo; il quarto cucciolo che esce dal ventre di China piange come gli indiani di New Orleans alla parata del Mardi Gras; le braccia di Skeetah che ricadono e si sollevano di lato sembrano i petardi del 4 luglio “che sprizzano scintille da tutti i lati, in un frizzare di luce acida”; la mano fasciata del papà sembra un nido di ifantria stretto intorno al ramo di un noce, e così via. Grazie all'uso insistito del procedimento metaforico, la scrittura della Ward, oltre ad essere profondamente originale, assurge a pregevolissimi preziosismi stilistici, conferendo una strabiliante qualità poetica alle proprie pagine. E' un piacere raro scoprire un tale lirismo nelle descrizioni più prosaiche, come quando si legge (e cito per brevità un solo esempio tra i tanti che si potrebbero proporre) che le galline che scappano nello spiazzo davanti alla casa “si sparpagliano qua e là come un turbinio di petali di mirto crespo sotto un acquazzone estivo”. Questo metodo rispecchia il carattere immaginifico di Esch, per la quale tutte le cose intorno a lei (alberi, animali, elementi naturali) si connettono le une con le altre in una sorta di primitivo panteismo, e prendono magicamente vita, assumendo connotazioni quasi umane (così la lingua d'acqua che invade la Fossa sembra un serpente che voglia giocare e l'uragano si mette improvvisamente a sghignazzare). Il bayou, grazie alla prosa ispirata della Ward, acquista così risonanze magiche, avvincendoci con il fascino paradossale di un mondo che ci ammalia proprio nel momento stesso in cui dovrebbe atterrirci (un po' come avveniva con il sertao di Guimaraes Rosa). Confesso di avere accolto con entusiasmo la notizia che “Salvare le ossa” è il primo libro di una trilogia di prossima pubblicazione, la quale spero faccia di Bois Sauvage una specie di Yoknapatawpha dei giorni nostri.

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"Furore" di John Steinbeck
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Fr@ Opinione inserita da Fr@    04 Mag, 2018
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Soffrire per essere liberi: ne vale la pena?

Questo romanzo è un pugno allo stomaco.
259 pagine divorate, lette più e più volte per cercare di capire ogni parola, ogni frase.
Letto un capitolo passavo immediatamente al successivo, ma più volte mi sono fermata nel mezzo della lettura per tornare indietro e rileggere un passaggio. Questo romanzo è violento, diretto, ti apre gli occhi.

“L’animale femmina” è il romanzo d’esordio di Emanuela Canepa, vincitrice con la sua opera del premio Calvino 2017, il premio italiano più importante assegnato ai nuovi autori. Seguiamo la vita di Rosita, studentessa fuggita dal suo paese e dal controllo della madre, fuori sede e fuori corso a Padova. Le prime pagine ci mostrano una ragazza che cerca di concludere qualcosa nella sua vita ma il lavoro al supermercato non ha fatto altro che rallentare il suo percorso di studi in medicina e non l’aiuta a vivere serenamente e decentemente. In più, l’unico uomo che frequenta è sposato e, quando va bene, lo vede una volta al mese.
Per questo, l’incontro alla vigilia di Natale con l’avvocato Lepore che le offre un posto di lavoro nel suo ufficio legale come segretaria part – time le sembra quasi un sogno. Non ha capito che invece si tratta di un incubo. Lepore inizia ben presto a esercitare una “sottile” manipolazione psicologica nei confronti della giovane, tormentandola con discorsi sempre più misogini.
Nel mentre seguiamo anche la storia di due ragazzi alla fine degli anni ’50, inizio anni ’60:Ludovico e Guido sono giovani, vorrebbero vivere una vita spensierata ma devono presto affrontare i doveri (e i dolori) della vita adulta.

Questa breve descrizione non rende giustizia alla complessità del racconto. Anche i personaggi sono estremamente complessi, ma sono veri. L’autrice è riuscita a caratterizzarli in maniera impeccabile per quanto riguarda i loro pensieri e le loro azioni.
Rosita è una donna complessa di cui ho apprezzato alcuni comportamenti e di cui non ne ho compresi altri. E’ una ragazza che soffre a causa di una madre oppressiva, di un amore impossibile ma che la fa stare bene (“Il problema tra di noi è che non esiste nessun spazio di negoziazione. Non ci sono occasioni per smussare gli spigoli, o provare a costruire una rete di cura per i bisogni dell’altro. Ogni volta è come se fosse la prima, si ricomincia da capo, due perfetti sconosciuti che devono imparare tutto l’uno dell’altra. Magari è anche per questo che continua a piacermi tanto. Forse la chimica e l’intimità sono inversamente proporzionali”), per gli studi arretrati, per non riuscire ad arrivare a fine mese… ma nel corso del romanzo subisce una vera metamorfosi: stranamente una scelta sbagliata si rivela la migliore per imparare a essere libera.
Per descrivere l’avvocato Lepore vorrei usare una parte di intervista alla stessa autrice, che lo dipinge cosi: “L’avvocato Lepore è un uomo ombroso e cinico, innamorato della sua visione del mondo sulla quale non ammette contraddittorio. Pensa male di tutti, non ha stima per nessuno, il suo unico piacere è catalogare gli individui. Ma gli uomini lo interessano meno. È sulle donne soprattutto che riversa la sua insoddisfazione e la sua smania aristotelica di classificatore”.

Lo stile del romanzo è semplice, mai pensante nonostante un lessico ricercato, mai banale. Alcune frasi sono vere e proprie perle che ho letto più volte per poterle comprendere al meglio: “Non importa se stai bene o male, se sei infelice o pensi a te come un miserabile senza speranza. A livello cellulare il ciclo di riproduzione si svolge per tutti allo stesso modo. A livello cellulare l’inadeguatezza non è codificata”.
Il romanzo potrebbe apparire a una lettura superficiale come un libro femminista, pro – donna e contrario al maschilismo. Non è (solo) questo, è molto, molto di più. E’ una indagine psicologica della mente femminile ma, come scoprirete leggendolo, anche maschile. Terminato il romanzo ho pensato che la conclusione fosse stata troppo rapida, ma in realtà non avrei potuto immaginare un finale diverso.
Spero presto di leggere una nuova opera di questa autrice, merita davvero. Quindi, che dire se non buona lettura? :)

“Capisce cosa significa desiderare, commutare la fantasia in atto, riversarla sul corpo, integrarla nelle percezioni. E gli si rivela il senso dell’ossessione, l’esigenza della pelle. Lo appaga il vigore delle fasce muscolari tese sotto le sue mani, le venature dei tendini affilati al posto della carne morbida che affonda, e che è l’unica pratica di un corpo diverso dal suo che ha fatto fino a quel momento. E’ un impulso violento, una colluttazione. Ludovico è dominato dall’ossessione di sperimentare, stringere e mordere, mettere alla prova il vigore del corpo che fa male, fa bene, si contrae, si contorce”.

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Consigliato alle donne. E agli uomini. A tutti insomma.
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    30 Aprile, 2018
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Nomen omen

Il destino di ogni individuo è certamente segnato dal luogo in cui nasce, dalla famiglia a cui appartiene, dalla cultura che ne condiziona le scelte, anche se non si può dire che questi elementi siano sempre definitivamente determinanti grazie al libero arbitrio di cui ciascuno può disporre.
“Chi è nato tondo nun po’ murì quadrato” è un detto che ricorre spesso nel romanzo di Fortunato Cerlino, “ Se vuoi vivere felice”. È lo stesso personaggio di Fotunato a spiegarne il significato: “ La prima volta che ho sentito questa frase me l’ha detta Tonino Naso ‘e cane. Significa che nessuno, per quanto lo desideri, potrà mai sfuggire alle sue origini, che sono anche il suo destino.” E le origini di Fortunato sono nella periferia più povera di Napoli, dove l’assenza delle istituzioni e la mancanza di lavoro costituiscono un terreno fertile per il radicamento della delinquenza più feroce. Generazioni di ragazzi trascorrono la maggior parte della giornata sulla strada, acquisendo dimestichezza con la prepotenza e la prevaricazione, per conquistarsi il rispetto dei coetanei. Si formano così O’ Lión , O’ Bulldog e Naso ‘e cane. Qui l’amore si impone non si conquista, l’odio e il rancore sostituiscono la solidarietà . Pur appartenendo ad una famiglia povera ma onesta, la frustrazione quotidiana del piccolo Fortunato lo induce a compiere piccoli furti nel grande Euromercato che appare a tutti come una sorta di Leviatano, con la sua mostruosa quantità di merci che offre al pubblico, sollecitando al consumismo. La consapevolezza di non essere in grado di affrontare e soddisfare i desideri indotti dal mondo circostante, genera rabbia e rancori nell’ambito familiare e fuori di esso. Fortunato che pure ha toccato il fondo nel momento in cui ha sottratto i soldi nascosti dalla mamma per il battesimo dell’ultimo nato, ha sempre coltivato un sogno, ha sempre sperato di diventare un celebre cantante, o un attore o uno “strologo”. Ed è il sogno che salva Fortunato, è il presagio contenuto nel suo nome che si fa realtà, quasi a dimostrazione che il miracolo, a cui spesso si allude nel corso del romanzo, può effettivamente verificarsi. Si, perché negli ambienti più poveri e degradati dove la speranza di una vita migliore si affievolisce con il passare dei giorni, ci si rifugia spesso nella superstizione.
Con una malinconica nostalgia del passato, quarantacinquenne, Fortunato ritorna a visitare Pianura, quella periferia abbandonata al degrado, per ritrovare se stesso, per dialogare col bambino che era stato, con l’ansia e il timore di non ritrovarlo più perché il tempo e il successo hanno cambiato tante, troppe cose. Ma il bambino Fortunato è sempre lì, in attesa di ricongiungersi con l'adulto in una prospettiva di serenità. È l’ora di lasciare svanire i rancori, di dare spazio a vite future, alla speranza e all’amore. È questo il messaggio del Fortunato/Savastano, è questa l’altra faccia di Gomorra.

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ALI77 Opinione inserita da ALI77    29 Aprile, 2018
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QUESTA STORIA NON MI HA CONQUISTATA

Questo romanzo parla di due donne, due sorelle molto diverse tra di loro, che si rivedono dopo moltissimi anni a causa di un’eredità lasciata da una loro zia.
Agnese manca da Firenze da oltre 35 anni, da quando decise di andarsene da una città e da una vita che non le appartenevano più. I motivi che l’hanno allontanata dalla sua città natale sono vari e gli scopriremo durante il corso della narrazione.
Micaela, invece, vive da sola nella città toscana ed è lei a richiamare la sorella.
Agnese e Micaela sono una l’opposta dell’altra, Agnese è sempre stata una ragazza seria, studiosa e solida, come dice il titolo affidabile, ora la sua vita è ad Ancona, è una donna realizzata sia nella vita privata che in quella professionale. E’ una donna che appartiene all’alta borghesia, che vive in un quartiere benestante e con il marito ha lavorato per cercare di dare un futuro migliore alle proprie figlie.
Micaela è invece sempre stata una ribelle, la regina delle feste, una donna che non rispetta le regole, che ha sempre vissuto con leggerezza e piena di entusiasmo.
Il viaggio da Ancona a Firenze per Agnese è un incubo, nonostante la donna abbia sempre viaggiato molto, queste poche ore che la separano dalla sorella e dal suo passato le sembrano pesanti e cariche di ansia e preoccupazione.
Le due donne non si sopportano, all’inizio cercano di mantenere un rapporto quanto meno civile, ma poi il loro vero carattere e i ricordi e tutte le incomprensioni e la rabbia repressa negli anni, escono fuori spazzando via la momentanea tranquillità che la lontananza aveva creato.
L’equilibrio seppur precario si spezza e le due donne ripercorrono la loro infanzia e la loro adolescenza e nei vari capitoli riviviamo anche gli aspetti politici e sociali di quegli anni in cui le due donne sono cresciute.
Al di là della storia e della complessità della vita delle due donne, ho apprezzato il fatto che l’autrice abbia analizzato i personaggi a livello psicologico, andando a rivelare le fragilità e le debolezze delle protagoniste senza idealizzarle e senza raccontare bugie.
Agnese e Micaela nonostante gli anni passati e la loro età non più giovane, non cambiano idea rimangono coerenti con il loro vissuto e la loro storia. E non perdonano il passato, non accettano i difetti dell’altra e nemmeno cercano di trovare un punto di incontro.
Se da un lato mi è sembrato molto interessante l’approfondimento psicologico dei personaggi, non posso non dire di aver trovato alcuni difetti in questo testo.
Partiamo dalla copertina, la cover che ci viene proposta sembra essere quella di un thriller, se non avessimo poi letto la trama, anche il titolo mi dà l’idea di un romanzo giallo.
Se iniziamo la lettura sempre quasi di leggere un testo incentrato su una saga famigliare, dove si intrecciano i rapporti personali di due sorelle ma se approfondiamo meglio la storia capiamo che tutto gira attorno ai sentimenti. Anche se la vicenda presenta degli elementi da romanzo giallo.
La prima parte è molto dettagliata, forse troppo, ci troviamo a capire e a sentire il disagio delle sorelle e a vivere con molti particolari la loro reunion e poi a seguirle passo passo nelle ore successive all’arrivo di Agnese a Firenze. La storia prende il via solo nella parte finale del libro.
L’eredità di cui si parla all’inizio viene accennata in un paio d’occasioni ma non è rilevante ai fini del testo, invece leggendo la trama sembrava quasi che questa potesse essere un elemento importante per la storia invece è solo di contorno. Un pretesto per fare incontrare le due sorelle.
Il finale è sicuramente particolare e inaspettato per quello che avevamo letto prima ma purtroppo questo colpo di scena è prevedibile già nella prima parte del testo, dove molto indizi ci hanno rivelato cosa sarebbe successo alla fine.
Questo purtroppo a mio avviso abbassa la valutazione finale perché il lettore dovrebbe essere spiazzato dal finale di un libro o almeno non dovrebbe intuirlo già nelle prime cento pagine.
Lo stile del romanzo è molto curato e il testo si legge velocemente ma è come se il lettore non capisse a cosa puntasse l’autrice, quale sia stato lo scopo di questa storia.
Questa storia non mi ha convinto, non sono riuscita a capire fino in fondo quale sia stato il senso di questo testo, farci conoscere le dinamiche che si creano in una famiglia tra sorelle che hanno caratteri differenti? E che poi decidono di vivere in maniera diversa la loro vita? Che il perdono non viene sempre concesso? Che nonostante tutto quello che succeda non si possa passare sopra i sentimenti negativi e perdonare? Che non è possibile mettere da parte la propria rabbia e i propri risentimenti per ricominciare un rapporto almeno civile? A volte l’affetto e l’amore non possono superare il rancore?
Io sinceramente non ho capito nulla di questa storia, mi sembra di aver letto tre romanzi, Agnese e Micaela oggi, il loro passato e un fatto che le ha legate per sempre.
Questi elementi poi sono stati uniti tra di loro formando i capitoli.
Non posso che essere sincera e dirvi che questa storia non mi ha assolutamente conquistata, nonostante Agnese e Micaela siano dei personaggi verosimili non ho trovato nulla di buono in questa storia, non so voi ma io non consiglierei questo libro.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    25 Aprile, 2018
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Lo zen e l’accordatura dei pianoforti

Tomura è uno studente liceale diciassettenne, inesperto della vita. Un giorno, attardatosi nei locali dell’istituto superiore che frequenta, gli viene chiesto da un insegnante il favore di accogliere l’accordatore per accompagnarlo nella palestra dove dovrà occuparsi del pianoforte della scuola. Il ragazzo non sa nemmeno cosa sia un accordatore, ma quando, nell'accomiatarsi da lui per lasciarlo al suo lavoro, ascolta i suoni che sta producendo sulla tastiera ne rimane affascinato. Sotto le dita esperte di Itadori-san lo strumento emette armonie che gli ricordano la natura dei suoi monti. Tomura vede sé stesso camminare nei boschi autunnali, di sera. Quei boschi che tanto lo affascinavano da bambino sono ora lì, nella palestra. Sente i suoni della natura, ne percepisce perfino gli odori. Quell'incontro deciderà della sua vita futura: diventerà accordatore per cercare di ricreare quei suoni.
Tuttavia dovrà accettare il fatto che la strada intrapresa è lunga e difficile. Dopo aver superato il corso biennale ed essere stato assunto nella stessa ditta dove lavora Itadori, sente di essere inadeguato. Anche dopo due anni di apprendistato si sente lontano dalla perfezione a cui aspira, dai risultati che vorrebbe ottenere, ma forse il trasposto che sente nascere per la tecnica pianistica della giovane Kazune (una delle sue clienti) farà il miracolo.

Confesso senza alcuna vergogna che questo romanzo della pluripremiata Miyashita Natsu mi ha lasciato parecchio perplesso ed ho fatto molta fatica a terminarlo, nonostante sia di sole duecento pagine.
Premetto che non sono completamente digiuno di letteratura giapponese e già sapevo che entrare in contatto con essa è un’impresa intellettiva di non piccolo impegno, quantomeno per me. Bisogna partire dal presupposto che si sta esplorando veramente un mondo alieno nel quale le persone pensano in modo diverso, agiscono con diversa sensibilità anche per i gesti più banali, parlano con una ritrosia e delicatezza totalmente sconosciute a noi latini, amanti dell’approccio diretto.
Tuttavia nonostante partissi già preavvertito, la consapevolezza non mi è stata di grande aiuto.
Il romanzo si propone al lettore occidentale come certi dipinti nipponici, preciso e ben delineato, ma piatto e monotematico, con tinte tenui (troppo tenui) e contorni soffusi (troppo soffusi ed appena accennati).
L’approfondimento psicologico dei personaggi viene solo sfiorato e, comunque, unicamente in funzione del tema centrale del romanzo, quello dell’accordatura dei pianoforti che è l’unico oggetto di dialoghi e riflessioni. Quindi un punto di vista decisamente settoriale, specifico e, permettetemelo, un po’ tedioso. Solo attraverso questo escamotage ci è consentito di sbirciare appena più a fondo gli attori di questa vicenda minimalista. Sembra quasi che le loro vite siano tutte incentrate su questa problematica e non esista altro che esuli dall'argomento. Anche l’unico evento tragico immesso nella storia (la morte della nonna di Tomura) servirà appena a far comprendere al protagonista alcuni suoi stati d’animo di accordatore.
Sembra che i personaggi siano disegnati su delicatissimi fogli di carta di riso che potrebbero lacerarsi ad un tocco troppo brusco di dita e che è meglio studiare da lontano, in controluce, per leggerne la trama.
I dialoghi spesso sono solo scarni scambi di un paio di brevissime battute quando, addirittura, ad un monosillabo non si risponda con monosillabo. Ne deriva che è nel sottinteso e nel non detto che va cercato il vero senso romanzo lasciato alla libera interpretazione del lettore.
Tutto il racconto è ammantato da un generale pudore ad indagare sui sentimenti, quasi fossero bolle di sapone che possono scoppiare da un momento all'altro. Il povero Tomura si vergogna di fare domande professionali troppo specifiche ai suoi maestri. È ritroso nel rivolgere alle gemelle Yuni e Kazune, della cui abilità al pianoforte è ammaliato, anche solo banali informazioni sulla loro salute. Si meraviglia di scoprire il concetto di bellezza, ma trema nel esplorarlo più a fondo. È preda di profondi stati di scoramento o di esaltazioni per circostanze di piccolissimo conto (almeno per il nostro sentire di occidentali). Il suo più grande gesto di ribellione (peraltro immediatamente rientrato) è aprire una tenda di velluto che il suo collega anziano gli aveva chiesto di lasciar chiusa durante una accordatura. Insomma tutti i rapporti che le persone hanno tra di loro sono delicatissime carezze, lievi come una piuma, per non turbare; sorrisi appena abbozzati che vorrebbero avere sottintesi non facilmente interpretabili, però, per un occidentale; inchini che vanno letti a seconda dei gradi d’arco della flessione del capo.
Il grado di riservatezza che si respira in tutto il libro è tale che spesso le persone ed i luoghi stessi vengono indicati in modo generico ed anonimo, impedendo ogni possibile immedesimazione nella storia narrata. In sintesi durante tutta la lettura si respira un’aria stagnante come in un locale nel quale le finestre siano state chiuse per troppo temo; ciò fa insorgere una insofferenza alla rigida gabbia in cui l’A. ci racchiude.
Sono consapevole che tutto il romanzo dovrebbe essere un’unica metafora sul difficile cammino dei giovani per il raggiungimento della propria maturità intellettuale e sentimentale, ma non sono riuscito ad individuarne la chiave di lettura, forse troppo legata a stereotipi orientali, cosicché tutto m’è sembrato rinchiuso in una bacheca sigillata ed inarrivabile.
Probabilmente, se avessi dovuto seguire il mio personale istinto avrei attribuito voti ancora inferiori. Però non posso escludere che l’impatto ricevuto, non positivo, sia dovuto anche ad un mio personale limite, all'incomunicabilità che mi separa dal sentire comune del popolo nipponico. Quindi ho deciso di aggiungere una stella ad ognuno dei criteri.
Tuttavia non mi sento di consigliarne la lettura in modo indiscriminato. Solo chi si sente in maggior sintonia con la mentalità giapponese e col suo stile narrativo potrebbe trarre piacere dalla lettura.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    24 Aprile, 2018
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Il commissario Macbeth

Jo Nesbo fa il suo ritorno in libreria con un thriller-poliziesco apertamente ispirato all'opera shakespeariana omonima.
Lo stile di Nesbo è il solito: molto fluido e scorrevole, avvolgente, efficace. La storia che va a raccontare pone le sue basi nellla tragedia alla quale si ispira, adattandola ad un contesto tutto nuovo e con delle aggiunte necessarie a offrire qualcosa di nuovo, senza tuttavia snaturare quello che è il perno principale, il tema su cui è costruita l'opera del bardo e che si incarna nella figura di Macbeth: l'ambizione.
Che dire, Nesbo è sicuramente un grande scrittore di intrattenimento, che comunque non tralascia del tutto l'introspezione dei personaggi e i discorsi più impegnativi; tuttavia il fatto di doversi attenere a delle linee guida e il non potersi allontanare troppo dalle basi che reggono il Macbeth originale, lo hanno costretto a qualche forzatura di troppo. Almeno così mi è parso. Oltretutto, nonostante i personaggi siano caratterizzati abbastanza bene, non posso dire che siano indimenticabili.
Insomma "Macbeth" è un libro piacevole, ma posso dire di aver letto di aver letto opere di questo genere nettamente superiori, come il "Corruzione" di Don Winslow, con il quale ho trovato anche qualche somiglianza.

Macbeth è il capo della SWAT in una città segnata dalla piaga delle gang e degli spacciatori di droga. Il degrado che avvolge le strade come una bolla è stato accentuato dal vecchio commissario capo Kenneth, uomo corrotto e al soldo dei boss della droga, tra cui spiccano Sweno ed Ecate, due personalità perennemente in lotta. Alla morte di Kenneth, diventa commissario capo Duncan (analogo del Re Duncan shakesperiano, ovviamente), un uomo buono che promette di estirpare la corruzione e i mali che affliggono la città da troppo tempo, ormai. Per la prima volta, c'è un barlume di speranza.
Durante una retata organizzata contro la banda di Sweno, Macbeth e un altro agente, Duff, si rendono protagonisti e riescono a sbattere in galera molti dei componenti della gang, anche se il loro capo riesce a far perdere le sue tracce. Almeno, nella versione ufficiale.
Di qui, partiranno una serie di giochi di potere: Duncan vedrà in Macbeth, uomo che viene dalla strada, uomo del popolo, la persona giusta per occupare una posizione di alto rango, una posizione che di norma sarebbe spettata a Duff. Completamente spiazzato da quella posizione di potere appena acquisita, in Macbeth si sveglierà l'ambizione che l'ha reso famoso, fomentata dalla sua amante Lady, proprietaria di un casinò d'alta classe e grande stratega. Con l'aiuto di Ecate (che vuole farne la sua marionetta), Macbeth comincerà la sua scalata al potere che, se avete letto l'opera shakespeariana, avrà l'epilogo che conoscete (anche se con una sorpresa che lascerà spazio a un seguito, forse), seguendo una scia di sangue, tradimenti e fame di potere.

"Un uomo ha una resistenza limitata, prima o poi finisce con l'infrangere i giuramenti che si è fatto tatuare e con il fare cose che credeva inconcepibili. Perché la fedeltà eterna non appartiene agli uomini, ma il tradimento sì."

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Corruzione di Don Winslow
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antonelladimartino Opinione inserita da antonelladimartino    23 Aprile, 2018
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Nei liquami

Invidia e gratitudine, secondo la psicoanalisi, sono due sentimenti fondamentali, legati e opposti, molto simili e imparentati a odio e amore, altrettanto potenti, altrettanto precoci: entrano nella nostra vita molto presto, insieme al latte materno, e si insinuano in tutte le nostre relazioni e i nostri affetti, che sono sempre, più o meno, ambivalenti. Questo romanzo parla dell’invidia, della gratitudine quasi non c’è traccia.
Siamo tutti invidiosi? Più o meno sì, ma in modo diverso, e la differenza è importante. C’è chi di fronte a questo sentimento, spontaneo e involontario come tutti i sentimenti, non agisce contro la persona invidiata, prova vergogna, magari si reprime. Al polo opposto, c’è chi uccide. In questo romanzo l’invidioso non arriva a tanto, ma ne combina delle belle, e senza ombra di vergogna.
Chi invidiamo? Innanzi tutto, come suggerisce il titolo del romanzo, rivolgiamo questo sentimento contro il nostro prossimo, chi ci è vicino. Invidiamo chi è simile a noi e ha poco più di noi, quindi chi ha uno stipendio più alto del nostro. In genere, non invidiamo chi guadagna cento volte più di noi e sembra appartenere a un altro mondo.

Il peggio è che invidiamo nostri affetti, quelli ritenuti sacri: il fratello e la sorella (non è un caso se Caino è il primo omicida citato dalla Bibbia), il marito e la moglie, la madre e il padre, il figlio e la figlia. Si dice che l’invidia tra madre e figlia sia tra le più intense. Questo romanzo narra l’invidia tra due amici, e lo fa con toni tragicomici, intrisi di sarcasmo, usando un linguaggio molto vicino al parlato quotidiano, e mettendo in dubbio la natura dell’amicizia.

Lo sappiamo, nei confronti degli amici l’ambivalenza emerge spesso e volentieri. Nelle amicizie più autentiche la gratitudine prevale, compensa, ripaga e appaga il sottile veleno indesiderato, magari usando tempo e riflessione e autocritica. In questo romanzo l’amicizia che funziona è presente, ma come una sorta di associazione a delinquere, anzi a invidiare: un’invidia condivisa che si esprime sotto forma di critica, maldicenza, pettegolezzo. Nel legame di vecchia amicizia tra i protagonisti del romanzo, invece, anche questa alleanza viene tradita senza ombra di rimorso, mettendone in luce la vera natura: oltre il do ut des e l’eventuale gioco di potere latente, rimane poco.

Nel mio caso, la lettura è risultata gradevole ma priva di suspense: ho indovinato immediatamente, fin dalle prime pagine, che cosa stava per succedere. Il tema dell’invidia, per i miei gusti, potrebbe essere narrato con più attenzione per la sua complessità, ma nel romanzo ho trovato molto di più: oltre alla comicità ho apprezzato il vivido murale dipinto dall’autore sulle miserie dell’epoca contemporanea.

In un angolo, a spiccano alcune feroci, gustose parodie sulle mode alimentari. Nel lato opposto, splende una miniatura a tinte forti che ritrae una parte della nobiltà inglese, mai decaduta, che ottiene ancora la parte del leone e sa ruggire con grottesca eleganza, mentre la borghesia, anche se benestante, rimane sempre a rischio.

Al centro della scena, ammiriamo la natura dispettosa e instabile dell’ascensore sociale, passaggio obbligato per chi non è figlio del privilegio, per chi vorrebbe salire e ha qualche possibilità, ma riesce soltanto con l’aiuto di fortuna e fatica, in una società dove il merito conta ma non troppo e uno scivolone dalle stelle del lusso alle stalle della strada resta sempre in agguato, pronto a tagliare gambe e affetti con la facilità d’un machete. Forse è per questo che l’invidia è così forte, tra chi desidera salire e teme di precipitare,

Il romanzo narra anche, sempre con irriverenza non forbita, il mondo del giornalismo e dell’editoria, i meccanismi perversi del suo funzionamento, e lo fa con un sottofondo musicale interessante, offrendo l’occasione di assaggiare un altro microcosmo massacrato dalla contemporaneità.

Una lettura molto interessante, per chi come noi abita in un Paese stritolato da meccanismi simili, ma per certi versi di gran lunga peggiori. Il successo, il mito nato negli anni ottanta e mai decaduto, rivela i suoi lati più tristi. La scrittura di John Niven è irriverente, rapida, corrosiva. Da provare.

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altri romanzi dello stesso autori, narrativa in stile libero.
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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    20 Aprile, 2018
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Amore, matrimonio, adulterio

L'ultimo libro di E.J. Howard pubblicato in Italia, uscito il 9 aprile 2018, racconta la storia di una famiglia borghese nell'Inghilterra degli anni Sessanta.
La famiglia in questione è formata da tre donne: Esme, la madre, di 58 anni, rimasta vedova ormai da una ventina d'anni, Cressy, la figlia maggiore di 37 anni, anch'essa giovanissima vedova di guerra e pianista di dubbio talento ed Emma, la sorella minore, di circa dieci anni minore di Cressy, apparentemente indifferente all'amore ed agli uomini, che lavora nella casa editrice di famiglia. Emma e Cressy vivono insieme in un appartamento a Londra, ma ogni fine settimana cercano di raggiungere la madre nella casa di campagna nel Sussex.
E' un venerdì ed il romanzo narra le vicissitudini di un fine settimana particolare, durante il quale i precari equilibri che hanno governato la vita delle tre donne per lungo tempo, saranno destinati ad essere infranti e rimescolati.
In quella settimana di novembre infatti decide di tornare a trovare Esme anche Felix, un medico che circa vent'anni prima, quando era ancora in vita Julius, era stato il suo giovane amante e che l'aveva lasciata senza spiegazioni proprio dopo aver saputo della morte del marito. Alla strana comitiva si unisce anche Daniel, un eccentrico poeta che conosce Emma nella casa editrice e viene invitato dalla ragazza a trascorrere il fine settimana insieme nella casa di campagna di famiglia.
Come già nei romanzi della saga dei Cazalet, l'autrice dà prova di uno stile inconfondibile: le accurate descrizioni di luoghi e oggetti lasciano spazio a poco a poco alla psicologia dei personaggi, in particolare di quelli femminili, dei quali possiamo indagare a fondo angosce, intimi desideri, solitudine e innamoramenti.
Questo romanzo fu scritto dalla Howard prima dei Cazalet, fu pubblicato in Gran Bretagna nel 1965, una delle prime opere di questa autrice. Viene quindi spontaneo fare dei paragoni, anche se forse bisognerebbe cercare di evitarli. Come ho scritto prima, lo stile della scrittrice è già riconoscibile e maturo, i temi affrontati sono simili: la vita delle famiglie e soprattutto delle donne borghesi nell'Inghilterra fra gli anni Quaranta e Sessanta del Novecento, l'ipocrisia che vi si poteva nascondere e la contemporanea ricerca della sincerità e dell'amore. Ho trovato tuttavia “All'ombra di Julius” un po' meno coinvolgente e profondo della saga dei Cazalet, dove venivano sviscerate anche questioni più spinose, come l'omosessualità, la violenza all'interno delle famiglie, la malattia, la sofferenza; questo invece, a tratti mi è sembrato simile ad un romanzo rosa.
Ciò non toglie che sia un libro scritto in modo impeccabile, piacevole, dal sentore vagamente cinematografico o teatrale (ricorda delle commedie romantiche del cinema anglosassone) e che può essere letto come “introduzione” allo stile della Howard. I Cazalet però, secondo me, sono superiori.

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La saga dei Cazalet di E.J. Howard o a chi ha intenzione di conoscere l'autrice
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Romanzi storici
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    20 Aprile, 2018
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Panoramica cinese dagli anni '30 agli '80

Wali, una piccola e immaginaria città cinese nella provincia dello Shandong, è il luogo in cui abitano i tre clan familiari – gli Zhao, i Sui e i Li – protagonisti di questa opera prima di Zhang Wei. Siamo nel periodo repubblicano e mentre i Sui sono latifondisti e imprenditori benestanti da tempo immemore, gli Zhao sono proletari che lavorano come operai nella loro azienda di vermicelli di soia (i celebri “Drago bianco” esportati in tutto il mondo) e i Li sono, infine, gli inventori e scienziati che apporteranno notevoli migliorie agli strumenti di lavoro dell’attività di famiglia. Suddette innovazioni non saranno ben viste da coloro che appartengono alle vecchie generazioni, fattore e dato a cui si aggiungerà la sempre più inevitabile rivoluzione culturale. Lo scenario muta infatti con la rivoluzione del 1949 a seguito della quale gli Zhao, conquistato il potere, sfogano il loro odio verso i padroni dello ieri rifacendosi sulle loro donne e impossessandosi dei loro beni, procedendo e assecondando la nazionalizzazione della fabbrica e trasformando i Sui in operai della loro stessa azienda. L’avvento di questa cambierà quindi interamente i rapporti di forza all’interno del villaggio tanto che, i Sui, si vedranno confiscare le terre e nazionalizzare la fabbrica, gli Zhao che per anni sono stati gli oppressi e i vinti dai potenti coglieranno l’occasione per riscattarsi socialmente e ottenere quella posizione di rivalsa mai avuta e tanto ambita e i Li dovranno rinunciare alla loro qualità di inventori per rivestire i panni di meccanici presso le masse. In tutto ciò spicca la figura di Baupou Zhao, figlio illuminato della dinastia di coloro che sono abituati a vincere, che sogna una Cina diversa, una Cina dove si possa costruire un futuro migliore, dove possano esserci condizioni di vita egualitarie, dove si possa non cadere in ripicche, vendette e sconfitte, dove la faida cessi di esistere.
Tre generazioni per tre clan familiari che si susseguono e raccontano le vicende di un paese dagli anni ’30 agli anni ’80 del secolo scorso.
Pubblicato nel 1987, due anni prima delle proteste che sfociassero nella tragedia di Piazza Tienanmen, “L’antica nave” affronta quelli che sono stati quattro decenni della storia cinese, concentrandosi in particolar modo, su quelle che erano le speranze dettate e promesse dalla rivoluzione maoista e le annesse delusioni che il socialismo rivelò e portò con sé.
In particolare lo scritto focalizza la sua attenzione su quel periodo storico in cui in Cina fu dichiarata conclusa “la lotta di classe” e avviata quella delle riforme finalizzate alla modernizzazione del paese. Un periodo storico, questo, in cui si tornò a parlare di umanesimo, di uomo, di persona in quanto tale e non di congegno sociale facente parte di un meccanismo più grande e integrato. Fra gli obiettivi di questa storia riscritta non poteva mancare la riforma agraria, la lotta contro la carestia e la destra, la rivoluzione culturale, la rivincita della persona. È in questo contesto che “l’antica nave” viene riportata alla luce nel fiume Luging ed è una metafora di quella gloria del passato e di quel contatto interrotto tra Cina e mondo esterno.
A un contenuto chiaramente esaustivo e ricco di spunti di riflessione si contrappone un linguaggio prolisso, estremamente descrittivo e a tratti farraginoso. Ciò contrasta e rallenta in parte quella che altrimenti sarebbe stato un componimento ineccepibile.
Nel complesso, un elaborato di grande spessore che non mancherà di soddisfare le curiosità di chi si è sempre interrogato sulle dinamiche e i retroscena dell’universo cinese.

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Romanzi
 
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    19 Aprile, 2018
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Mostri con un'anima

Da una missione in Amazzonia viene portato nella Baltimora del 1962 un mutante a metà strada tra un uomo, un pesce ed un rettile. Capace di respirare sott'acqua, può per un breve periodo resistere anche all'aria. Dotato di gambe e braccia, ha anche branchie, una coda da lucertola e squame simili a quelle dei pesci. E' il deus branquia per i nativi dell'Amazzonia. diventa il devoniano per lo scienziato che lo esamina, la risorsa per il governo e la creatura per chi se ne innamora. Rinchiusa in una vasca e destinato ad essere sezionato la creatura fa il fortunato incontro con una serie di personaggi che come lui sono qualcosa di "diverso^ negli Stati Uniti degli anni "60. Elisa è una donna delle pulizie muta e col il collo attraversato da cicatrici, Zelda è un afroamericana sovrappeso, Giles è un omosessuale calvo e in età avanzata, infine Dimitri è una spia russa che ha ormai perso credito presso il proprio governo. Tutti condividono con la risorsa il loro essere dei mostri, degli abomini della natura, la cui esistenza vale ben poco. Il desiderio di salvare questo essere, che pur non essendo in grado di comunicare con le parole riesce comunque a stregarli li rende loro malgrado qualcosa che non sono mai stati: persone capaci di alzare la testa, guardare in faccia gli altri come fossero loro pari, decidere che la loro vita vale la pena di essere vissuta e per farlo mettono in gioco tutto. Un finale degno della miglior scrittrice di romanzi rosa ridimensiona il romanzo, ma pazienza.
Ho affrontato questo libro con una certa cautela, perché di solito non amo molto i fantasy. Pagina dopo pagina, mi sono ricreduta e l'ho trovato molto interessante. In tanto è difficile da catalogare, perché c'è sì una creatura che ha del sovrannaturale e quindi una buona dose di fantasia ci vuole. La storia però ruota per la maggior parte attorno alle reazioni che suscita attorno a sé. La follia dell'uomo che lo ha catturato è la reazione più evidente. una follia che alla fine fa sollevare la testa anche a sua moglie. Un'altra creatura vittima dei pregiudizi degli anni sessanta, che solo grazie alla violenza del marito trova la forza per smettere di essere una comparsa di secondaria importanza nella sua stessa vita. E poi ci sono tutti quelli che si sono "invaghiti" del deus e che ne sono stati ammaliati, assorbendone la forza per dare una svolta duratura alla loro esistenza. Una piccola porzione del volume potrebbe definirsi d'azione con inseguimenti, pallottole e salvataggi all'ultimo momento. A questa però si alternano momenti quasi da favola: Elisa e il Deus sono quasi la Bella e la bestia, o piuttosto Shrek e la sua Fiona. In definitiva un insieme di vari stili e di varie tipologie di narrativa. L'abilità degli autori però è quella di essere riusciti ad amalgamare tutto bene. Mi rendo conto rileggendo la mia recensione che ho descritto un pastrocchio con dentro di tutto. Non è così; tutto è lineare e, se non logico secondo i canoni normali, comunque possibile e spiegabile. La prosa pur essendo ricca e curata è facile da seguire, esaustiva nella spiegazioni: ogni parola al suo posto senza inutili orpelli, senza indulgere mai nel piacere di descrivere scene cruente o di effetto.
Amore e poesia per chi cerca quello, indagine psicologica per chi vuole questo e un compagno divertente, ma anche profondo per chi è alla ricerca di un libro di questo tipo.

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Romanzi autobiografici
 
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siti Opinione inserita da siti    19 Aprile, 2018
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Il convitato di pietra

La nota arguzia verbale di Busi compie una acrobazia narrativa e inscena un’improbabile cena durante la quale lui, nei panni della guest star, attempata e sfiancata da una prostata capricciosa che lo obbliga a frequenti passaggi in bagno, apre bocca e tiene banco, in maniera sconcia e irriverente.
Ma chi ha voluto presso sé questo scomodo convitato di pietra?
“… a cenar teco m’ invitasti/ e io son venuto…”
Un ricco signore della buona società, uno con i soldi, uno con tanta gente che gli gira attorno, uno con tanto da coprire nel pubblico e nel privato, uno che attira a sé tutto ciò che sta stretto a Busi, un pretesto perfetto per sparare a zero tutte le sue idiosincrasie. Contro il mondo e tutti i suoi mali – in dimensione prettamente italica- che di riflesso, citando in esergo Parini de “La salubrità dell’aria” (“Stolto! E mirar non vuoi/ne’ comun danni i tuoi”) diventano i nostri. Processi migratori, leggi retroattive, lavoro nero, sistema contributivo, classe politica e relativa legge elettorale, editoria, bufale o fake news, mafie e clientelismo con l’intramontabile sistema delle raccomandazioni, omofobia diffusa e le banche e il loro sistema che regge il sistema… Non mancano anche personali considerazioni sulla politica europea, l’indipendentismo catalano, e un improbabile tour per mete poco raccomandabili per gli scenari che le caratterizzano. Non mi trova sempre d’accordo ma questo poco importa come il mio gusto a tratti offeso e risentito per i toni che gli sono usuali ma che l’invettiva della sua parola gli perdona facendomelo apparire come una voce che nonostante tutto è meglio sentire.

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a chi pensa che le voci fuori dal coro siano indispensabili.
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Libri per ragazzi
 
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Belmi Opinione inserita da Belmi    19 Aprile, 2018
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La gabbia

Prima di iniziare la recensione di questo libro, devo assolutamente fare delle premesse che sicuramente serviranno a far capire meglio la mia valutazione. Lorenzo Ostuni è un ragazzo di ventitré anni, diventato “famoso” per un suo canale YouTube (che non conosco); grazie a tutte le visualizzazioni, che le sue idee gli hanno portato, oltre ad aver ricevuto un premio da Google, ha all’attivo molte collaborazioni con nomi importanti e addirittura la Panini ha realizzato delle figurine a lui dedicate. Il libro rientra nella narrativa per ragazzi quindi per lo stile dovrò basarmi su questo, considerando anche che ha ricevuto l’aiuto di Jacopo Olivieri.

La storia parte in maniera coinvolgente, Ray, il nostro protagonista, si ritrova chiuso in una cella senza sapere niente finché sullo schermo appare una scritta:

“Tra poco la porta si aprirà.
Riceverai altre istruzioni.
In seguito.
Ci sono altri. Uno mente.
Dovete andarvene
Da qui o morirete.
Avete 60 ore”.

Ostuni crea un romanzo, che a breve credo avrà anche un seguito, ispirato molto ad altre serie dispotiche già uscite in precedenza; inoltre pur non essendo un’amante dei videogiochi, ho riscontrato molte similitudini, specialmente nei tempi e nelle azioni. Rimarrà sorpreso chi per la prima volta si troverà a leggere questo genere, per gli altri non sarà difficile riscontrare qualche somiglianza con Hunger Games, Maze Runner e altri. Lo schema è molto simile, anche se qualche novità c’è.

Lo stile è davvero elementare e qualche volta anche un po’ confusionario soprattutto nelle descrizioni, anche perché ti ritrovi a concentrarti sulle immagini quando invece dovrebbe venire abbastanza naturale. Comunque l’idea non è male è sono sicura che ai ragazzi piacerà anche perché Favij (questo è il suo nome d’arte) riesce a coinvolgere e soprattutto utilizza la “furbata” (o chi per lui) di realizzare un libro di 180 pagine che scorre velocemente e incuriosisce.

Lo consiglio ai ragazzi e agli amanti dei dispotici, per gli altri astenersi dalla lettura! Il mio punteggio è per i ragazzi, il mio voto personale sarebbe stato più basso.

Buona lettura!

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Maze Runner
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Racconti
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    18 Aprile, 2018
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Il fiuto del dottor Jean

Sarà a causa del mio essere medico, sarà che anch'io abito in un piccolo paese e spesso mi capita di dovere andare a fare delle visite in mezzo al nulla, ma questo dottorino mi ha davvero conquistata.

Un Simenon che ad una prima lettura può apparire sottotono, meno coinvolgente e avvolto da un'aura quasi di stanchezza; ma questa sensazione dura poco, appena il tempo di arrivare alla penultima pagina del primo racconto, quando ci si accorge che il dr. Jean si è incuneato, in punta di piedi, nelle nostre sinapsi e la voglia di vedere cosa andrà a combinare ci pervade e costringe a leggere il successivo.

Quattro racconti sono raccolti in questo volume ed è presente una continuity; leggibili singolarmente, sono molto più comprensbili e se ne apprezza più l'evolversi del personaggio se letti in successione.

Il lessico è lo stesso, ricercato, ma non troppo, essenziale, ma mai povero ea differenza dei romanzi in cui è presente Maigret si ha a che fare con un personaggio che è uno di noi ed è per questo che è adorabile.

Imamginate un giovane dottore dei tempi andati, con una macchina sgangherata, intento a medicare ferite e far nascere bambini, nel caldo afono del sud della Francia, in un'estate torrida; immaginatelo andare in una casa sperduta a fare una visita e non trovarci nessuno di umano, ma incontrare una passione sconosciuta eppure pervasiva: l'investigazione.

Per caso, per diletto il dottorino diviene un investigatore per passione e i suoi teatrini con le forze dell'ordine sono esilaranti e la sua caratterizzazione convincente.

Consiglio, come sempre la lettura, per rilassarsi e sorridere.

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Simenon in generale
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Romanzi
 
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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    18 Aprile, 2018
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Questa non è Europa. Queste sono le Faroe.

"Ogni uomo è un'isola", scriveva Josè Saramago nel suo bellissimo e struggente 'Il racconto dell'isola sconosciuta'.
E aggiungeva: "bisogna allontanarsi dall'isola per vedere l'isola.."
Niente di più vero, non ci vediamo se non ci allontaniamo da noi stessi: sarà sempre una conoscenza limitata quella che ciascuno di noi potrà avere di se stesso, forse rassicurante come l'orizzonte immobile al confine tra mare e cielo ma non certo soddisfacente, perchè c'è sempre qualcosa da scoprire oltre quell'orizzonte e bisogna avere il coraggio di salpare, di staccare gli ormeggi dal molo protetto e riparato della propria isola per iniziarne la ricerca.
Isola, il primo romanzo della scrittrice danese Siri Ranva Hjelm Jacobsen, è proprio questo: il racconto di un viaggio, l'odissea personale di chi trova la forza di raccogliere le proprie radici, arrotolarsele su per la gamba e partire, soffrendo il disagio e le difficoltà di adattamento in una nuova città, una nuova casa e un nuovo lavoro.
Una partenza necessaria, inevitabile, per non morire schiacciati sotto il peso di un destino imposto e non costruito e plasmato secondo la propria indole.
Un viaggio per ritrovare se stessi, scoprire le proprie potenzialità e limiti, realizzare un sogno se possibile ma anche solo una casa, una famiglia.
Portando sempre nel cuore il desiderio di tornare in patria, amata Itaca, che diventa così il motivo per cui partire e allo stesso tempo il luogo a cui tornare.
Fritz e Marita sono due esuli, due isole galleggianti, isole che non possono rimanere ferme altrimenti verrebbero sommerse dall'oceano, devono muoversi, vagare, scoprire nuovi mondi.
E sono isole, vere stavolta, terraferma, quelle su cui sono nati, le isole Faroe, un arcipelago di 18 isolotti al centro di un triangolo di oceano Atlantico tra Islanda, Norvegia e Scozia.
Provate a cercarle su una mappa: sono lì, pochi chilometri di terra circondata dall'azzurro del mare.
Provate ad immaginare Marita:
'Marita si cuce i vestiti da sè. Prende i modelli e immagina maniche, corpetti, ampiezza della gonna, che misura ad occhio. Da tempo si veste come una destinata a qualcosa di più, qualcosa di meglio dello stabilimento al porto, una vita in mezzo al pesce. Il tanfo di calzerotti sudati nella sala da ballo. In paese alcuni pensano che Marita si dia troppe arie. Pensano anche, sempre quelli, che non ne abbia motivo. Lei lo sa. E' persino arrivata a voler loro un pò di bene, come se ne vuole a chi si sta per lasciare.'

E Fritz: vorrebbe tanto studiare, diventare ingegnere e trovare un impiego presso la centrale elettrica nella vicina isola di Botni ma per farlo deve allontanarsi, l'università è in Danimarca, non ha alternative e restare a casa significherebbe continuare ad imbarcarsi con i fratelli all'inizio dell'estate polare in direzione delle isole Svalbard nel Mar Glaciale Artico per la pesca del merluzzo. Fritz non può farcela, uno come lui è fuori luogo su quella barca, non sopporta niente, odia i marinai, 'i loro ceffi barbuti, il puzzo acre di lana e sudore stantio', odia dormire sottocoperta 'dove l'aria è pesante e bagnata di merluzzi morti'. E più di tutto odia la pesca.
Come biasimarlo? Sarà Fritz che partirà per primo, destinazione Copenaghen; Marita lo raggiungerà un anno dopo, con un segreto nel grembo, troppo ingombrante anche per lei, lo abbandonerà in mare dove rimarrà sepolto per sempre.
Isole galleggianti, si muovono, cercano una propria collocazione, un'identità non solo territoriale, geografica ma anche personale che coinvolge molteplici aspetti, culturale, ideologico e politico, soprattutto in quel periodo a ridosso della seconda guerra mondiale in cui gli stessi abitanti delle isole Faroe erano divisi in opposti schieramenti a favore o meno dell'indipendenza dalla Danimarca.
Era felice Fritz, pur non avendo realizzato il suo sogno: aveva ormai abbandonato l'idea della centrale elettrica di Botni, la 'dignità di'ingegnere' che lascia il posto a quella forse meno solenne di insegnante. Ma non aveva importanza, sembrava felice, 'non come un uomo i cui sogni per il futuro giacevano in fondo al mare o annegavano nel rum in una bettola del porto.'
Una serenità adombrata solo dalla nostalgia di casa, la sua Itaca, la sua destinazione finale, punto di partenza e di arrivo: nessuna distanza, nessun oceano potrà mai debellare il ricordo del suo villaggio natale, le vallate e i fiordi, gli amici, la famiglia e le tradizioni.
Una nostalgia che affiora prepotentemente ogni volta che Fritz abbraccia Marita:
'A breve sentirà la vita nei polmoni di lei, sotto la stoffa del vestito. Quel pò d'aria di montagna che ha tenuto da parte per lui nelle ramificazioni sottili del tessuto polmonare. I capelli profumeranno di muschio e pietre lisciate dal vento, di quell'aria che gli manca tanto, fresca e limpida come una doccia.'
Passato e presente della loro vita si intrecciano nei ricordi della protagonista del romanzo, una giovane ragazza danese di madre faroese che torna sulle isole in occasione della morte della nonna: era Marita sua nonna, 'omma', e Fritz il suo 'abbi', nonno.
La narrazione è melodica, frasi brevi, ridotte ai minini termini, che rendono la prosa estremamente poetica, intensa e particolarmente toccante quando esteriorizza la nostalgia che alberga nell'animo di ogni espatriato e che si manifesta nel ricordo di quei luoghi, le isole Faroe, terre di una bellezza selvaggia e romantica allo stesso tempo, tra vallate verdi al profumo di muschio e le imponenti scogliere dei fiordi a picco sul mare.
Un paesaggio quasi fiabesco, sospeso nel tempo, la cui descrizione ricca di associazioni sinestetiche tra colori, suoni e profumi ne amplifica la sensazione onirica, perchè è nel sogno che l'esule placa la nostalgia della patria lontana.

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Il racconto dell'isola sconosciuta
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Letteratura rosa
 
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Belmi Opinione inserita da Belmi    18 Aprile, 2018
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Un mostro silenzioso e affamato

“Se c’è una cosa che ho imparato è che per scuotere un cuore che ha sofferto ci vuole il doppio dell’amore che ha perso”.

Quanti tipi d’amore conosciamo? Spesso questa parola può avere un significato riduttivo, altri la usano esagerando, ma il bello dell’amore è che ha talmente tante sfaccettature che tutte, più o meno, arrivano al cuore.

Susanna Casciani torna in libreria con il suo secondo libro “Sempre d’amore si tratta”. Il titolo e la copertina, che vista da lontano può apparire come qualcosa di “tenero e romantico” in realtà mostra un cuore fatto di spilli, entrambi davvero ben scelti.

La protagonista è Livia, ma invece di conoscerla e viverla in prima persona, la vediamo con gli occhi degli altri. Un’istantanea dopo l’altra tutti quelli che sono stati a contatto con lei, chi da una vita, chi per poche ore, mostrano e raccontano di una bambina, poi ragazza e infine donna che vede i suoi sogni e desideri cambiare, una persona che affronta qualcosa che spesso sfugge al nostro controllo.

Come per l’altro libro l’autrice continua a scrivere utilizzando frammenti, vorrei vederla per una volta cimentarsi in qualcosa di diverso. Il tema è davvero molto forte, il libro parte un po’ a rilento diventando pagina dopo pagina sempre più coinvolgente. Un libro che può aiutare a capire e avvicinare, persona che hanno provato o subito questo tipo di malattia.

L’argomento è trattato utilizzando un linguaggio semplice, spesso forse anche con una leggerezza un po’ “esagerata”, comunque il messaggio arriva forte e chiaro. Credo che in questo libro l’autrice abbia messo molto di suo, forse più che nell’altro e soprattutto l’ho trovata più matura, anche se ancora nello stile qualche pecca l’ho riscontrata.

In conclusione, un libro molto profondo anche se leggero (l’ossimoro in questo caso è necessario), la leggerezza è dovuta alla frammentazione dell’opera che qualcosina va a togliere all’insieme. Non è sicuramente una lettura rosa, qui il fazzoletto serve ma le emozioni sono ben diverse da quelle di un romance. Chi ha bisogno di un argomento leggero scelga un altro titolo, chi invece vuole cimentarsi in qualcosa di più profondo e toccante ma non pesante, può avvicinarsi a questo testo e riapprezzare il valore delle piccole cose.

“Sul serio. Lo sai, Camilla? La magia non ha a che fare con le streghe e con i libri di incantesimi e non è vero che non esiste come dicono in tanti. La magia esiste eccome e si trova nei piccoli gesti gentili che le persone certe volte decidono di compiere”.

Buona lettura!

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Romanzi autobiografici
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    16 Aprile, 2018
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"Non sono uscita dalla mia notte"



Annie Ernaux è, per me, una voce che riesce, senza urlare e senza sensazionalismi, a fare del proprio privato qualcosa di universale, qualcosa che, pur nascendo per un'esigenza personale, diventa dono per tutti gli altri.
Lei apre le porte della sua vita, ti fa entrare in un ambiente intimo pervaso dal dolore, ma è un dolore così lucido e sussurrato, un dolore così consapevole che all'inizio non ne avverti neanche la presenza, all'ultima pagina invece sei steso, schiacciato dalle sue parole, poche, mai superflue, ma dal peso specifico considerevole.

Qualche giorno dopo la morte di sua madre, la Ernaux scrive su un foglio:

"Mia madre è morta lunedì 7 Aprile nella casa di riposo dell'ospedale, dove l'avevo portata due anni fa".

Questo diventerà l'incipit del libro, la cui stesura durerà 10 mesi e con cui la scrittrice cercherà di ricostruire la figura materna, dalla sua infanzia in una famiglia contadina e dignitosamente povera fino alla malattia che si porterà via la donna battagliera e irruenta che è sempre stata.
Parlare della propria madre è difficile, perché le madri sono figure al di fuori della storia e al di là del tempo: ci sono sempre state.
Sono la nostra proiezione nel futuro, ma anche la nostra àncora del passato.
Luogo in cui specchiarci e da cui fuggire.
Luogo a cui tornare. Sempre.
La Ernaux cerca, in queste pagine, di dare voce alla donna reale, quella che è esistita al di fuori di lei, al di là della sua condizione di figlia, ma non ce la fa...c'è un qualcosa che fa resistenza, che impone a tutte le immagini ed ai ricordi di esistere in quanto pervasi dall'amore e dalla distorsione che ne deriva.
Se nel libro "L'altra figlia", dedicato alla sorella morta e mai conosciuta, la Ernaux scrive per poterla resuscitare e (forse) uccidere nuovamente per liberarsi del suo fantasma, qui sembra scrivere per rimettere al mondo la donna che l'ha partorita, per donarle una seconda vita nel tempo e nei luoghi che lei non vedrà mai più.

Le pagine dedicate alla malattia sono emozionanti, affilate e struggenti: ogni parola sembra portare via una piccola parte di sua madre, nutrirsi delle sue progressive incapacità, rendere indistinto il mondo circostante divenuto ormai incomprensibile, e trasformarla in una bambina desiderosa di baci e cioccolato.
Una bambina, che non crescerà mai.
Una bambina che non uscirà più dalla sua notte...

"NON ASCOLTERO' PIÙ LA SUA VOCE.
ERA LEI, LE SUE PAROLE, LE SUE MANI, I SUOI GESTI, LA SUA MANIERA DI RIDERE E CAMMINARE, A UNIRE LA DONNA CHE SONO ALLA BAMBINA CHE SONO STATA.
HO PERSO L'ULTIMO LEGAME CON IL MONDO DA CUI PROVENGO."

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Romanzi
 
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Flavia Buldrini Opinione inserita da Flavia Buldrini    12 Aprile, 2018
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"Tra un'isola e l'altra c'è sempre il mare"

Questo suggestivo romanzo racconta il faticoso passaggio dalla stagione inquieta e incompleta della giovinezza a quella della maturità e della pienezza della condizione adulta, espresso metaforicamente attraverso il passaggio da un’isola, quella di Arturo, il protagonista, che evoca l’omonimo del capolavoro della Morante - la cui partenza definitiva da Procida segnerà l’abbandono del mondo incantato della fanciullezza – a quella di Atlantide, che è come una magione fatata in cui dimora la beatitudine perfetta, quale iridescente miraggio che balena attraverso una figura femminile incrociata una sola volta e ossessivamente vagheggiata come l’ambita mèta di tutte le aspirazioni e della sua realizzazione armoniosa di uomo. “Che se c’è una cosa certa, nella vita, è che fra un’isola e l’altra c’è sempre il mare”: con la sua altalena indomita di bonaccia e tempesta, in balìa dei flutti dei capricci, delle passioni, dei timori, delle fisime, dei vizi incorreggibili, della voluttà di morte che assale. E su questo sfondo si staglia il dramma di Arturo: “Arturo si era convinto di potere una vita speciale, ma poi non muoveva passi, verso l’ignoto, per paura di una vita vera. Il risultato era una vita fasulla, come quella delle formiche rimaste inoperose. Arturo era un divano rimasto con la plastica addosso, messo in quelle stanze in cui non si entra per paura di sporcare, e di rovinare. Che certe vite, poi, invecchiano così: senza mai essere state usate.” L’intero tessuto narrativo si giostra nella spola tra “andata” e “ritorno”, in cui, a segnare lo spartiacque, è proprio il mito di Atlantide, incarnato in quella ragazza magnetica che, fin dal primo sguardo, sembra intuire tutto di lui e metterlo a nudo di fronte alla verità: per esempio, che fare l’attore non è il suo mestiere - e infatti, di lì a poco lo lascerà per il lavoro più stabile e rassicurante del calzolaio – e che, piuttosto di passare da una banale avventura all’altra, sarebbe ora che cercasse una solida compagna di vita. Allora, l’andata è caratterizzata da questa ricerca affannosa di lei che un bizzarro scherzo del destino – il tram guasto e il telefonino scarico – non gli farà incontrare, probabilmente perché non si sentiva ancora pronto ad abbracciare il cambiamento e le paure diventavano ostacoli insormontabili, ributtandolo, così, in mezzo ai marosi dei conflitti interiori irrisolti, alla sua prostrante inadeguatezza, fino a rasentare la morte, quella sera stessa del mancato appuntamento con la sua felicità, trovando rifugio nella droga, “a un passo dal coraggio; a un passo da un tentativo nuovo che non vuoi fallire, ma che non sai fare. A un passo da Atlantide, che se allunghi una mano ti pare quasi di poterla accarezzare. I dottori non lo sapevano mica, il male che fa una cosa bella, quando sembra così vicina, e invece è lontanissima. Come Capri, vista da Procida, quando sta per piovere. Come Atlantide, ammesso che non l’abbia solo immaginata.” È una travagliata lotta con se stesso, “inetto, pauroso, ingrato nei confronti di una vita che lo aspettava, mentre lui appositamente ritardava”, il quale non trova pace, impigliandosi in fugaci relazioni con innumerevoli donne, senza amarne nessuna, a parte Celeste - di cui si accorge troppo tardi, però, quando ormai la rottura è irrimediabile -, oltre all’immaginifico fantasma di Atlantide. In realtà, alla fine questa icona femminile si svelerà essere quale donna schermo, come nello Stilnovo dantesco, vale a dire che tutta quell’aura di idealizzazione che l’avvolgeva finirà per dileguare, lasciando posto alla sana concretezza di una ragazza, Alessandra, con cui vive due notti d’amore e che, paradossalmente, proprio in una circostanza così casuale, le darà un figlio: “Non era tanto la morte mancata per un soffio, quanto la tragedia della vita aspettata che non combacia mai con quella reale. Arturo, per esempio, aveva fatto di Atlantide un posto immaginario: perfetto per approdare, perfetto per scappare.” Il ritorno, dunque, si profilerà, dopo dieci anni di turbolenza e inadempienza di sé, in un viaggio sullo stesso tram, che lo porterà, stavolta, verso la A. di Alessandra, per sapere se è lui il padre di quel bambino che non voleva e di cui pure, vedendolo una sola volta, pensando al suo personale rapporto con la figura paterna, non potrà fare a meno di innamorarsi perdutamente. In questo modo, quasi a forza e all’improvviso, giunge al suo approdo, alla sua Itaca - ovvero Procida, che è l’isola felice dove idealmente è stato concepito da sua madre quando doveva decidere se sposarsi, legata ai ricordi più belli di una serena affettività -, dove si assume le proprie responsabilità e si acquieta nel modus vivendi che il destino gli ha assegnato, diventando finalmente adulto. La lezione, quindi, che Valentina Farinaccio ci consegna, attraverso un geniale gioco ad incastri - che alimenta abilmente la suspence - ed uno stile fluido ed accattivante, è che “le poche cose certe” sono che la vita ti sorprende sempre e sbaraglia tutte le pianificazioni e fantasticherie con il suo impeto selvaggio che annega le vane chimere per depositarti sulla nuda riva della realtà, in tutta la sua incandescente scabrosità: “Atlantide annegò. Accadde quando i suoi abitanti trasformarono la quiete in guerra e la bellezza in orrore. Se la mangiò il mare, e dell’isola rimasero solo tracce presunte, storie immaginate, nessuna certezza, nessuna geografia. Perché la bellezza finisce, e sfinisce, e Arturo era rimasto a guardarla da lontano, pauroso, come si fa con gli animali, durante un safari.”





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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    12 Aprile, 2018
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Sara, la donna invisibile.

Quando Sara Morozzi, detta Mora, viene ricontattata dalla “collega” e “amica” storica, Teresa Pandolfi, detta Bionda, è in pensione già da quattro anni. Il suo aspetto è quanto di più trasandato e anonimo ci sia perché, seppur non sia più in servizio, non può rinunciare a quella abitudine dello stare nell’ombra, non può rinunciare ad osservare, a leggere i gesti, le espressioni, i muscoli, i sussurri degli interlocutori, lontani o vicini che siano, non può indossare una maschera e fingere dopo che la sua vita è sempre stata dettata da menzogne e bugie per ottemperare a quello che in verità era la sua missione, il suo lavoro. E adesso, quel suo carnato chiaro, marmoreo, quelle occhiaie dettate dalle notti insonni e quei volontari capelli grigi, non fanno che dimostrare che nonostante la perdita del grande amore, Massimiliano, e a distanza di breve tempo anche del figlio Giorgio, Mora è ancora Mora. Perché per quanto voglia eclissarsi, negarsi alle sue origini, il suo mestiere lo ha tatuato sulla pelle. Ecco perché non riesce a rifiutare la proposta della Bionda, ecco perché si trova a fare chiarezza, al fianco dell’ispettore Davide Pardo, sulla carcerazione di Dalinda Molfino e sul conseguente affidamento della figlia seienne di quest’ultima al fratello Giampiero e alla moglie Doriana. Tutto sembra chiaro ed inequivocabile nella ricostruzione dei fatti: la Molfino ha ucciso il padre a colpi di brutali fendenti mentre era strafatta, poi si è assopita e messa a riposare nei pressi del cadavere. A prova e sostegno della sua colpevolezza; l’averla trovata con tracce organiche dell’uomo sulle mani, il suo non negare la possibilità di aver commesso il delitto perché vigente tra il padre e la figlia un profondo odio, il suo non ricordare alcunché. Eppure, eppure, eppure… Dalinda è preoccupata per Beatrice talché chiede di parlare con Pardo, l’agente che l’ha arrestata. L’uomo, a causa di un episodio del passato che lo ha profondamente segnato, non prende alla leggera le dichiarazioni della galeotta e ne informa il collega Luca. Il passaggio ai piani alti è rapido e veloce. Sara, che a questo punto entra in scena, ben intuisce la fondatezza delle rivelazioni e, dall’analisi del fascicolo, dal comportamento del fratello, dai referti del medico legale e anche dalla volontà di non difendersi della stessa accusata, arriva alla conclusione che la ricostruzione proposta quale base dell’accusa è tutt’altro che così solida e inattaccabile.
Ha inizio in questo modo la nuova e eclettica avventura proposta da Maurizio De Giovanni. Quelli narrati sono solo alcuni stralci di quella che è una storia avvincente e rapida nella sua interezza. L’autore torna in libreria con quello che è il primo capitolo di una serie forte, una serie che tocca molteplici tematiche, che è caratterizzata da un giallo comune e inusuale al contempo, un enigma da scoprire e che è altresì munito di personaggi tangibili e concreti che si fanno amare per il loro mistero e per la particolarità sin dalle prime battute. Seppur l’epilogo e il colpevole siano intuibili, la lettura non scema di attrattiva e tiene incollato il conoscitore senza difficoltà dal suo inizio alla sua conclusione.
Al tutto va sommato uno stile chiaro, limpido, pulito, veloce, accattivante e scorrevole in pieno trademark del napoletano. Tuttavia, lo scrittore riesce anche a rinnovarsi. Se in questo scritto troviamo caratteri narrativi comuni a quelli che sono i precedenti elaborati e a cui siamo stati abituati negli anni, al contempo ne troviamo altrettanti di rigenerazione, innovamento. La redazione è svecchiata, ringiovanita, ripulita ma sempre e comunque vivida e genuina.
Un ottimo inizio per quella che spero potrà essere una serie lungimirante, durevole e affascinante. Maurizio, non farci scherzi eh!

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lapis Opinione inserita da lapis    08 Aprile, 2018
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Meravigliosi, fragili alieni

Ci sono storie che parlano di sogni e avventure, capaci di portarti per qualche ora in mondi lontani. E poi ci sono storie che invece ti portano vicinissimo, dentro di te. Parlano di noi, creature imperfette e acciaccate, dei se e dei purtroppo che ci hanno modellato, delle corazze che abbiamo forgiato per difenderci dalla vita. La bellezza di queste storie sta nell’autenticità, nella capacità di farti riconoscere, in controluce tra le pagine, le tue emozioni e i tuoi contorni. Per questo, per me, questa è una bella storia.

Silvio Muccino porta in scena la sua e la mia generazione. Cinque trentenni, cinque amici, cinque alieni. Alieni perché, proprio negli anni dell’adolescenza, in cui tutti ti chiedevano di essere uguale a un modello, loro avevano saputo costruire un’amicizia chiedendosi vicendevolmente solo di essere sé stessi e di non essere giudicati. Ma il tempo passa, e su quell’amicizia si sono stratificati quindici anni di silenzi, dopo l’improvvisa e inspiegabile fuga di Alex, il loro cuore accogliente. Perché? Un perché che li ha corrosi e sgretolati. Un perché senza risposta, come i tanti perché del passato. Finché arriva una lettera, da Alex, un invito a riunirsi una volta ancora, forse l’ultima, per la resa dei conti finale.

Un fine settimana insieme, nella silenziosa solitudine della campagna umbra, è l’occasione per indagare l’anima dei personaggi, scoperchiando pentole in cui bollono spietatezza, egoismo, noncuranza, rassegnazione. Ma non c’è giudizio o condanna. È la voce stessa dei personaggi, rotta dall’emozione, a rivelarci come dietro questi travestimenti si nascondano cicatrici, ombre, fragilità. La paura del fallimento e della speranza.

È un romanzo dalla trama coinvolgente e comunicativa, che ti cattura fin dalle prime righe, e dallo stile semplice e spontaneo, che non nasconde di strizzare l’occhio al mondo del cinema. E forse qualche piccola caduta la imputo proprio ad aver voluto far “accadere” qualcosa, come ci si aspetta in un film. Ciò nulla toglie però al profondo lavoro di introspezione fatto dall’autore per restituirci, in modo sincero, uno spaccato generazionale.

“Sballati, irrisolti, insicuri, infelici, destabilizzati. Troppo grandi per essere ragazzi e troppo piccoli per essere uomini”. È una doccia gelata leggere questo ritratto impietoso di sè, ma alla fine regala anche un soffio di calore perché, cadute le maschere e le ipocrisie, sotto si rivelano la bellezza e la tenerezza dei sentimenti veri. Sensibilità, dignità, accoglienza, coraggio. Perché per accettare e vivere le proprie imperfezioni e diversità, serve il coraggio degli eroi.
E, nonostante tutto, si può ancora essere eroi.

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Romanzi
 
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    08 Aprile, 2018
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La clinica degli orrori

Francesco Recami, dopo esseri reso fautore delle avventure della “casa di ringhiera”, torna in libreria con La clinica Riposo e Pace: un libro che ha suscitato in me molte perplessità. Tratta il tema, attualissimo, delle condizioni degli anziani nella nostra società, quali sono le loro patologie, le cure, l’assistenza che ricevono nelle case di riposo. Ma lo fa con un tono ironico, che sconfina nel cinismo più assoluto. Che non ha incontrato la mia approvazione. Un libro sicuramente veritiero, ben documentato, ma trattata l’argomento con poco rispetto. La condizione dell’anziano viene per tutto il testo ridicolizzata e alleggerita con un tono scanzonatorio, che rivela un sentimento di scarsa comprensione e di scarso riguardo.
Il libro è ambientato interamente all’interno della Clinica Riposo e Pace, che:
“era una elegante casa di riposo per anziani non autosufficienti sulle colline preappenniniche, in mezzo a cipressi e olivi. Situata in località Il Borghetto (questo è un nome di comodo, per vari motivi in seguito si capirà che per il momento il nome va tenuto segreto), consisteva di tre corpi principali: la villa seicentesca finemente ristrutturata, le ex stalle e scuderie, a poche decine di metri, e la ex fattoria, adesso adibita a residenza per i casi più complicati, attrezzata come una vera e propria clinica. In particolare c’era una sezione dedicata ai malati terminali e a degenze di persone anziane in gravi condizioni di degenerazione fisica e mentale. (…) La giornata era tersa e profumata, i rosai nel giardino all’italiana sul retro della villa emanavano fragranze meravigliose…”.
In questo luogo viene portato con l’inganno Alfio Pallini, dalla nipote e dal marito, perché:
“era evidente che (…) nel caso del signor Alfio si trattava di una sindrome degenerativa su base circolatoria, demenza senile in stadio avanzato, con comportamenti deliranti e violenti.”.
Ma lui non è malato al punto da non accorgersi che qualcosa non quadra. Gli anziani, compreso lui, vengono legati al letto, sedati in continuazione, e ammansiti quando non derisi, soprattutto quando li lavano. Inoltre si accorge immediatamente che da quando è lì il letto accanto al suo viene cambiato di occupante in subitaneo. I pazienti arrivano, e il giorno dopo vengono portati via coperti da un lenzuolo bianco. E i parenti che si affrettano a raccogliere le poche cose del malcapitato, che vengono salutati dal Professore, che oltre a porger loro le condoglianze, sollecita con fare mellifluo, l’agenzia funebre migliore. Per non parlare poi di quegli strani gatti e gattini a cui vengono somministrati strani farmaci. Per non parlare del personale infermieristico, tronfio e maleducato, un vero incubo.
Il libro racconta il conflitto generazionale tra malati anziani e la propria famiglia, il rapporto teso con le istituzioni sanitarie, a dir poco deprecabili. Una parodia feroce che:
“mette alla berlina la medicalizzazione del disagio quotidiano, l’ipocrita rivalutazione dei valori dell’essere anziani, la buona morte, i falsi affetti familiari, è uno dei momenti di un progetto narrativo più vasto.” .
Una lettura amara, poco piacevole, dove l’ironia non suscita che ribrezzo. Il racconto di una commedia umana, bieca e cinica, che si tinge di nero per il sarcasmo, il grottesco, che la percorre. Una serie cattiva che non convince neppure nei suoi contenuti principali. Meglio tornare alla casa di ringhiera.

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Consigliato a chi ha letto Francesco Recami, Commedia nera.
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Romanzi
 
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    07 Aprile, 2018
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Corpo, mente e (forse) anima

Via d’uscita è un romanzo che susciterà perplessità in molti lettori. Da una parte ci sono pagine bellissime, come ad esempio i primi due capitoli e la parte finale. Dall’altra c’è una trama con cadute di stile e uno sviluppo che andava studiato meglio.
Il tema potrebbe essere drammatico: a un uomo, Charlie, l’io narrante, è stata fatta una diagnosi di cirrosi con una prospettiva di vita di 6 mesi. Charlie è uno scrittore e vuole sfruttare il tempo che gli resta per scrivere qualcosa di attinente alla sua situazione. Vuole riflettere su “se stesso che medita sulla sua prossima morte”, decide perciò di scrivere del dualismo corpo-mente, forse triangolo a volerci inserire anche l’anima o la coscienza.
Dunque il romanzo procede nel descrivere gli ultimi mesi di vita di Charlie inframmezzato da pagine del romanzo nel romanzo che sono piuttosto intellettuali e ardue. Queste pagine a me sono sembrate spesso pretenziose e anche inconcludenti, un inutile sfoggio di conoscenze.
La stessa impressione può suscitarla la vita di Charlie a partire dal capitolo 3 in cui compare il suo agente, un personaggio grottesco che mal si inserisce nella storia, interessato solo ai soldi e incapace della più ovvia ipocrisia o di un superficiale dispiacere di fronte alla malattia di Charlie. Queste pagine sono quelle che più hanno colpito i critici del Library journal e del New York Times per la loro comicità. A me sono sembrate fuori luogo nel contesto del libro, soprattutto per l’impostazione del libro che manca di coerenza: mi aspetterei un testo o grottesco o serio, o drammatico o comico. Ma così mi pare un insieme male amalgamato delle due cose. Il testo è pieno di stranezze alla St Aubyn: Charlie dice di essere ridotto in povertà e si scopre che ha una villa miliardaria da vendere. Dice di essere moribondo e non ha un sintomo, non passa un’ora in ospedale, viene curato con Prozac, un antidepressivo. Il lettore dubita da subito e non a torto della salute mentale del suo medico. Così pure il grande amore con Angelique altro non è che una squallida storia di sesso a pagamento a prezzi così esorbitanti da riuscire a confondersi con una grande storia d’amore. Mentre leggevo il romanzo mi chiedevo dove ST Aubyn volesse andare a parare. Se il romanzo volesse essere commerciale, una via di mezzo o cosa. Leggendo però le ultime bellissime pagine credo di avere capito che la trama e i personaggi spiazzanti derivano da una difficoltà reale dell’autore con tutto quello che ha a che fare con le relazioni umane, quindi nel decifrare emozioni e sentimenti. Una difficoltà così enorme da fargli vedere l’amore dove non ce n’è traccia e da fargli evitare i rapporti dove potrebbe esserci qualcosa di vero come quello con l’ex moglie e con la figlia che sono dichiarate importanti per lui ma occupano un numero irrisorio di righe nel romanzo.
Questa difficoltà di relazione profonda viene riconosciuta da Charlie stesso non per un processo intellettuale ma per una improvvisa intuizione. Per effetto di quella intuizione Charlie riesce a intravedere la sua malformazione interiore dovuta al rapporto con i genitori e all’anaffettività della madre che gli impedisce quella che lui chiama intimità. Arrivati alle ultime 50 pagine, Charlie, parla in modo finalmente sincero della sua paura di covare in sé il germe delle cattiverie dei suoi genitori, parla del suo desiderio di essere una brava persona, nonché del suo sconcerto per dover fare uno sforzo di volontà per esserlo. Parla del suo desiderio di amare e di essere amato destinato a restare un miraggio per la sua incapacità totale dovuta a una vita passata a tirare su difese e barriere che gli impediscono la vera intimità. Parla, lui l’autore del best seller Alieni dal cuore umano, di come si senta circondato da esseri umani dal cuore alieno.
Molto bello il fatto che anche se le sue ruminanti pagine del libro nel libro intorno al dualismo mente corpo non fanno che girare in tondo al nulla, anche su questo problema arriva, tramite una intuizione e non un ragionamento, a uno spiraglio grazie alla contemplazione della bellezza. Là dove l’amore non può penetrare per le inattaccabili difese erte dalla mente in modo anche inconscio, penetra la bellezza di un paesaggio, verso la quale St Aubyn ha una grande sensibilità, che gli regala un attimo di quella preziosa intimità che va cercando dove manca (squallide relazioni). La Bellezza apre la sua riflessione al mistero in cui siamo immersi. Mistero che si manifesta nell’avere una coscienza oltre che una mente pensante. Il mistero lo intravede non solo come limite e impotenza dell’umano intelletto a spiegare se stesso, ma come uno spazio di libertà e questa idea dà finalmente conforto al (forse) moribondo Charlie. Capisce anche che intuire è qualcosa meno che capire, nel senso che per un attimo si sfiora qualcosa al di sopra delle nostre possibilità di comprensione e capisce che per trattenere il lampo di libertà che si nasconde nel cuore delle cose dovrà lottare contro la futilità quotidiana.
Tutto sommato St Aubyn è uno scrittore che mi fa simpatia. Anche se ha una vena futile, narcisistica e pesante, un gusto per la frase a effetto che si spinge fino a rendere certi personaggi piatti e caricaturali, persegue anche una sua ricerca interiore per cui la sua scrittura ha momenti di grande sincerità.

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Dell'autore consiglio di leggere i Melrose, soprattutto il primo libro.
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    05 Aprile, 2018
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Jay Dark e il caos

Giancarlo De Cataldo, dopo aver firmato un libro importante come Romanzo criminale, torna in libreria con L’agente del caos. Un libro dentro un libro, profondo, intenso e curioso, uno sguardo disinibito su
“un’autentica camera delle meraviglie che attraversa trent’anni della storia occidentale, tra servizi deviati, ex nazisti, trafficanti, terroristi, poliziotti corrotti e onesti, sesso, ideali e concerti rock.”
Un’opera che si distingue, a tratti metafisica e sperimentale, è una lettura che non si può che divorare letteralmente.
Narra la storia di uno scrittore che dopo aver pubblicato Blue Moon, basato su ricerche approfondite, sulla vita e il personaggio di Jay Dary, un agente americano che aveva avuto il compito di diffondere ingenti quantitativi di ogni tipo di droga negli ambienti dei movimenti rivoluzionari sorti tra gli anni ’60 e ’70, con lo scopo precipuo di distogliere l’attenzione dalla protesta insita per dirigerla in altro senso. Dopo il successo di questo testo viene avvicinato da una strana figura di avvocato, certo Flint, che gli comunica di essere rimasto molto perplesso sul contenuto, mettendolo in discussione totale, professandosi un testimone più che attendibile poiché presente nei tempi e nei luoghi e nei segreti stessi. L’avvocato Flint:
“aveva una voce serena, profonda. Era un vecchio alto, magro, elegantemente fasciato in un completo grigio con cravatta reggimentale, folti capelli candidi e occhi azzurri, ora freddi, ora accesi da improvvisi guizzi ironici. Poteva avere tra i sessant’anni portati male e settantacinque di chi è in piena forma.”.
Ma chi era Jay Dark? Era un “agente del caos”:
“Le sue origini erano incerte. Nella sua carriera, fino all’arresto, aveva assunto oltre venti identità. Sul suo capo pendeva una taglia di duecentomila dollari della Dea, l’agenzia antidroga americana, che lo riteneva il più grande trafficante di Lsd del mondo occidentale. Tuttavia, gli americani non avevano mai chiesto la sua estradizione.”.
Da piccolo ladruncolo si fa arrestare, e durante un “soggiorno obbligato” al Bellevue Hospital conosce il dottor Harry Kirk. E nulla sarà più come prima. Il dottore lo inizia a studiare e a comprendere la teoria del caos, per cui:
“Ogni dominatore sogna di annientare il caos, il che è assolutamente impossibile. Al contrario, il caos dobbiamo assecondarlo, stimolarlo, solleticarlo. Gli vanno lasciate le briglie sciolte. Solo a queste condizioni potremo garantire la sopravvivenza del genere umano! (…)
Fortunatamente si può e si deve scendere a patti. Scendere a patti con il caos. Questa è la nostra missione. La missione di noi agenti del caos”.
Si costituisce in questo modo uno scenario stupefacente, in cui Jay Dark è un personaggio principale all’interno di un processo internazionale e mondiale, che vede la droga essere il collante insostituibile di una rete di assassini imperbi e pronti a tutto.
Un libro più che originale, sia nella trama, che nella costituzione dei personaggi. Una trama che percorre anni di storia con eventi che hanno segnato e profondamente mutato gli scenari internazionali. Dalla guerra del Vietnam ai figli dei fiori per giungere agli intrighi e ai complotti in seno alla Cia. I personaggi sono un po’ il frutto del tempo in cui vivono: ribelli, introversi, e al di sopra delle righe, vogliono rivoluzionare il mondo, ma si drogano tutti indistintamente e si rifugiano in mondi paralleli, sognatori impossibili e al di là della realtà. Su tutto la droga e il caos, forse perché anche all’interno del disordine più assoluto si può trovare un’armonia sulla quale costruire uno scenario e un mondo migliore. Un bellissimo libro.

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Consigliato a chi ha letto Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo.
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Romanzi storici
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    03 Aprile, 2018
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Anna tra i moli di New York

Negli anni della Grande Depressione, Anna Kerrington è una dodicenne intelligente e spigliata che adora accompagnare il padre Edward nei giri che fa come galoppino per il sindacato irlandese degli scaricatori portuali di New York. Ha intuito che i misteriosi pacchettini che l’uomo allunga furtivamente hanno a che fare con giri poco puliti, ma lei si sente importante e non le importa. A casa la mamma, ex ballerina di fila delle Ziegfield Follies, deve badare a Lydia, la bellissima sorellina, storpia a causa di una gravissima forma degenerativa dovuta ad anossia neonatale. Ma Anna fa da scorta al papà che parla con persone importanti e tanto le basta. Purtroppo le cose sono destinate a cambiare rapidamente. Infatti papà Eddie - che non riesce a sbarcare il lunario soprattutto a causa delle esigenze sempre maggiori di Lydia - non può più accontentarsi delle “mance” che il sindacato gli passa per portare in giro le “bustarelle”: ha contattato Dexter Styles, proprietario di numerosi locali notturni, ma soprattutto elemento di spicco della mafia italo-americana, rivale di quella irlandese.
Sette anni più tardi, in piena Seconda Guerra Mondiale, Anna s’è impiegata nei Cantieri Navali di New York e vuole sinceramente contribuire allo sforzo bellico, al punto da candidarsi come palombaro civile per le riparazioni in bacino, lavoro rigorosamente maschile. Tuttavia c’è un dubbio che la rode: perché suo padre, cinque anni prima, è scomparso improvvisamente? Possibile che le abbia abbandonate così, senza un perché? E se non fosse vero quanto si sussurra, cioè che sia fuggito, incapace di sopportare il peso che gli derivava dal grave handicap di Lydia? E se, invece, fosse stato ucciso da una delle persone per cui lavorava? L’incontro casuale con Dexter Styles le darà l’occasione per scavare più a fondo in un mondo in cui i sistemi usati nella high society non si differenziano troppo da quelli della peggior malavita. Il rapporto con Styles, inoltre, le cambierà la vita in modo radicale verso un futuro non previsto.
Con Manhattan Beach è possibile tuffarsi in dieci anni di storia americana tra la metà degli anni ’30 e la metà degli anni ’40. Il romanzo, però, non ci offre uno sguardo diretto ai grandi fatti storici: essi sono tutti dati per assodati, come in un fondale teatrale. All'A. interessa soprattutto indugiare sulla vita delle persone comuni, di quelle che cercano di sopravvivere all'evolvere degli eventi. Così, mentre si sbircia dal buco della serratura l’America che cambia, vengono delineate, nel bene e nel male, le vicende dei protagonisti con delicate pennellate all'acquerello, senza mai indulgere in tinte forti, neppure quando entrano in gioco gli sporchi affari dei sindacalisti corrotti, dei mafiosi e dei grandi uomini d’affari che agiscono come squali.
Tra i protagonisti che recitano davanti a questo fondale storico, l’unico che si stacca dalla massa, l’unico realmente rappresentato a tutto tondo è quello di Anna: una ragazza brillante, intraprendente e moderna, troppo moderna per la società americana dell’epoca, per la quale donne e negri non sono ammessi nel mondo ove agiscono i maschi bianchi. In particolare le donne debbono stare a casa ad attendere i mariti ed a curare i figli, rinunciando a qualsiasi ambizione personale. Anche quando sarà necessario il loro apporto nelle fabbriche, carenti di manodopera maschile tutta al fronte, saranno ammesse a svolgere solo lavori semplici e ripetitivi. Ma Anna non accetta queste limitazioni: sino da ragazzina s’è distinta per il carattere forte e volitivo. Da adulta (ribelle?) riuscirà a guadagnare dei punti nella sua lotta per emergere, ma solo accettando compromessi, mimetizzandosi e mistificando il suo ruolo.
Lo stile della Egan nel descrivere la lotta personale di Anna è fluido e piacevole, anche se soffre un poco per lo scorrere delle vicende, pigro e senza particolari emozioni, soprattutto per i primi due terzi del romanzo.
In qualche modo questo stile mi ha ricordato quello della McCarthy de “Il Gruppo”, per l’attenzione al mondo femminile in una società strettamente maschilista, ma anche per l’uso stesso delle parole che richiama un modo di esprimere i concetti delicato e ossequioso di una correttezza formale che ormai non usa più. Perfino i rapporti personali (anche i più crudi e concreti) sono descritti in modo delicato e riguardoso.
Complessivamente Manhattan Beach è un romanzo decisamente gradevole, anche se forse non riesce nell’intento di travolgere il lettore nelle emozioni descritte. Consigliabile a tutti per il modo che ha di descrivere un periodo storico decisivo per il Mondo così come lo conosciamo, ma visto attraverso gli occhi delle persone che la storia non la fanno, ma la subiscono.
Per completezza debbo rimarcare, purtroppo, un unico difetto a carico non dell’A., ma della Traduttrice. In troppe occasioni ho dovuto sperimentare un uso scorretto ed insufficiente della punteggiatura. Se non si fossero volute risparmiare quelle due o tre pagine di virgole e punti e virgola, molte frasi sarebbero state più scorrevoli e comprensibili. Ad un certo punto sono arrivato a tal grado di esasperazione che mi son messo a segnare a matita tutte le virgole omesse, come si fa con i compiti dei bambini alle elementari. Una operazione di editing più accorta avrebbe evitato questo difetto che svilisce l’opera meritevole dell’A. americana. Peccato.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Fr@ Opinione inserita da Fr@    31 Marzo, 2018
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Dublino Rosso Sangue

Ho una confessione da fare: ho faticato tanto a completare la lettura di questo romanzo.
Ho letto tanti gialli, ne ho recensiti altrettanti. Tuttavia, per questo poliziesco faccio fatica a trovare le giuste parole. Ho impiegato più tempo del previsto per concludere la lettura; a mia giustifica potrei dire che il romanzo è davvero corposo (624 pagine) ma so che sarebbe una mezza bugia.

In questo romanzo pubblicato nel 2016 ma arrivato in Italia solo ora seguiamo le indagini di Antoinette Conway e del suo partner Stephen Moran, investigatori della squadra omicidi d Dublino. Nettamente isolata all’interno di una squadra prettamente maschile e maschilista, la detective deve indagare su quello che sembra l’ennesimo caso di una lite tra innamorati finita male.
La vittima si chiama Aislinn Murray, trovata morta in casa. Bionda, molto carina, una fine terribile: qualcuno le ha tirato un pugno e cadendo la donna ha sbattuto la testa contro il caminetto. Immediatamente le indagini sono dirette verso Rory Fallen, con il quale la giovane aveva un appuntamento quella sera. La cena che la giovane stava preparando, la casa preparata nel migliore dei modi fanno pensare a una cena romantica terminata nei peggiori dei modi. Il ragazzo si difende, sostiene che nessuno gli ha aperto la porta quando è arrivato e ha deciso di allontanarsi dalla casa, triste per la delusione d'amore. Nessuno gli crede, nemmeno il detective Breslin, incaricato dal capo della sezione di seguire i due nelle indagini. Anzi, il detective sembra intenzionato a chiuderle il prima possibilei, sicuro che il giovane stia mentendo. Ma è davvero così?

In questo romanzo scritto in prima persona, il racconto delle indagini si intreccia con la storia e la vita della giovane protagonista. Normalmente mi piacciono i racconti in prima persona e tendo a provare una naturale simpatia per i detective dei gialli che leggo. Ammetto però che ho avuto grandi difficoltà ad apprezzare la detective Conway. Forse è proprio per questo che ho avuto bisogno di un po’ di tempo per completare la lettura. Non riuscivo a stare dietro ai suoi discorsi, ai suoi pensieri, molto spesso mi sembrava sapesse solo lamentarsi e arrabbiarsi. Paranoie più che giustificate data la squadra in cui si è trovata a lavorare, eppure a volte mi sembrava solo autocommiserarsi, piangersi addosso, o addirittura trattare male l’unica persona che in quella squadra vorrebbe aiutarla.
Alla fine sono comunque riuscita a completare la lettura e il romanzo nel complesso è un bel poliziesco. Probabilmente ho apprezzato particolarmente più le descrizioni della città di Dublino che la storia in sé. Una città affascinante e crudele allo stesso tempo, con tanti scheletri da nascondere nell’armadio.
Che dire ancora se non “Buona lettura?” :)

“La Omicidi non è come le altre squadre. Quando funziona bene ti toglie il fiato: precisa e feroce, agile e svelta, è il balzo di un grosso felino, o un fucile così perfetto che praticamente spara da solo. (…) Quando sono riuscita ad entrare in squadra le cose erano già cambiate. Il livello di stress adesso è più alto e l’equilibrio interno è cosi delicato che bastano poche teste nuove per spostare tuto: trasformare il grosso felino in un animale indisciplinato e nervoso, far inceppare il fucile in modo che prima o poi ti scoppi in faccia. Io sono arrivata nel momento sbagliato e sono partita con il piede sbagliato”

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Consigliato a chi legge noir, polizieschi, in particolare a chi è appassionato di thriller americani dal ritmo incalzante.
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Romanzi
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    30 Marzo, 2018
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Marghera e le sue vite potenziali

Marghera. La Albecom è una azienda informatica che fattura oltre seicentomila euro al mese e il cui giro di affari va ben oltre le aspettative. Fondata dal trentaquattrenne Alberto, che sin dagli studi superiori si è dimostrato abile, acuto e di grande intelligenza, la società è coadiuvata da Luciano, ex compagno di studi con cui il protagonista condivide da sempre la passione per l’informatica, programmatore schivo, riservato, paralizzato dalla paura di soffrire, insicuro, malinconico e con quel perenne strascico di infelicità, e da Giorgio, detto anche GDL, pre-sales dell’azienda e procacciatore d’affari che deve mostrarsi sempre attivo e intraprendente ma con quella giusta dose di freschezza affinché il cliente possa fidarsi di lui e prendere per veritiere le sue offerte. Talismano e oggetto irrinunciabile di quest’ultimo altro non è che il manuale de “L’arte della guerra” di Sun Tzu, mantra indispensabile da lui custodito nel cruscotto della macchina. I tre amici e colleghi vivono in una situazione di equilibrio dettata dai ritmi e dalle circostanze lavorative. Questo equilibrio sarà però sempre più messo in discussione nello scorrere delle pagine dal susseguirsi di una serie di avvenimenti che creeranno fratture nel loro rapporto tanto che segreti, sotterfugi e tradimenti prenderanno inevitabilmente campo. In particolare, Giorgio e Luciano riceveranno un’offerta sottobanco da un ex collega: la promessa è quella di far decollare il loro percorso personale anche se a GDL verrà chiesto qualcosa in più in quanto, a lui sarà domandato di rivestire la qualità di socio occulto presso la nuova società continuando di fatto a lavorare presso la Casagrande e, in questa doppia veste, adoperandosi per convincere di volta in volta i vari clienti che la Albecom è in crisi e da lì muovere un giro di denaro tutt’altro che chiaro.
La prima impressione che traspare dalla lettura de “Le vite potenziali” è quella dell’anonimato: si viene trasmutati in una realtà mentalmente quasi futuristica in cui il cemento regna sovrano in una miriade di palazzi industriali atti e finalizzati al dipanarsi di società di consulenza e vendita dove i ritmi frenetici e l’assenza totale di interruzioni scandiscono lo scorrere del tempo.
Dai luoghi si passa poi ai personaggi. In particolare, Luciano, è colui che maggiormente spicca rispetto alle esistenze dei due coetanei. Egli è una figura indecisa, sfiduciata, soprattutto in ambito sentimentale, che per sua natura si contrappone a GDL e a Alberto, alla loro quotidianità fatta di certezze e viaggi. Sono tre uomini dediti interamente al lavoro, uomini con ambizioni lavorative, abituati a competere, a siglare contratti, ad averla vinta, a sottoscrivere accordi, a trarre benefici da riunioni aziendali, a far girare i soldi, eppure, sono anche individui incapaci di dedicarsi a storie sentimentali serie. Le loro sono relazioni senza un vero impegno, sono frequentazioni potenziali esattamente come le rispettive vite. Perché il loro obiettivo è la scalata sociale, l’emersione, il divenire sempre e comunque una versione migliore di quel che erano il giorno precedente. E se Luciano è colui che maggiormente rispecchia l’incapacità relazionale dei tre, Alberto, è colui che, nei vari colloqui di lavoro, è prova di questo desiderio di scalata, è prova del sentimento di inadeguatezza e di non essere mai abbastanza, non a caso in tutti i possibili neoassunti ravvisa un carattere di insufficienza. Perché per quanto possano essere brave persone, non riescono a vedersi in una prospettiva superiore negli anni, non riescono ad andare oltre alla propria mediocrità. Si fermano a quelle che sono le loro realtà senza mai puntare su quel che potrebbe essere, su quel che è la potenzialità dei loro strumenti. E in questo contesto, com’è dunque chiaro, non vi è spazio per l’aspetto affettivo. Alberto, GDL e Luciano, sono i protagonisti di un mondo fatto di aridità dove tutto è calcolato e descritto in termini economici e di compravendita. Do ut des.
Con “Le vite potenziali” Francesco Targhetta, già noto al grande pubblico per le sue poesie, mette da parte la scrittura in versi per abbracciare quella romanzesca e narrata. Il suo è e resta uno stile ritmico, pulito e preciso in cui l’impronta poetica è percepibile, tuttavia è anche uno stile che va anche oltre alla ricerca di perfezione lessicale riuscendo a descrivere circostanze e luoghi con grande forza e lucidità empatica. L’opera, infatti, arriva con forza disarmante, lascia l’amaro in bocca e si presenta come un perfetto spaccato di quella che è la realtà attuale.
Concreta, riflessiva, folgorante.

«Si vince giocando per sottrazione: non l'avevano capito? Ascoltare molto, piuttosto, e poi parlare al momento opportuno, affondando il colpo con una manciata di parole: così si fa.» p. 69

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    29 Marzo, 2018
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Solitudini a confronto

«Questi sono due modi della mia scrittura: quello femminile, più intimo, in cerca di nuove sensazioni che sono ancora senza parole, e quello maschile, ereditato da millenni di cultura dei padri, si affiancano, si accavallano, armonici o in conflitto: sono entrambi io» p. 7

Due coppie, Andrea e Marta da un lato e Piero e Laura dall’altro. Un incontro sul ponte di una nave, venticinque anni prima, due matrimoni, due figli i primi, tre i secondi, una doppia separazione quella del presente. Marta lascia Andrea perché schiacciata dalla vita di coppia, da quella solitudine dettata dalla consuetudine, da quel ricordo di un padre scappato per le stesse identiche ragioni, dal desiderio impellente e folgorante di indipendenza, al contrario Piero lascia Laura perché non si sente amato e perché desideroso di conquistare una presunta libertà che di fatto soltanto il legame coniugale era in grado di dargli. E così, nella seconda metà della vita ti riscopri un fiume in piena, un fiume alimentato dalla foga di chi scappa e dalla calma di chi resta, da quel silenzio che adesso è proprio di stanze riempite di un vuoto tanto ricercato, di serie tv sul divano, di pasti da rosticceria presi all’ultimo e consumati in ambienti sconosciuti e arricchiti da foto ricordo di un passato sempre più sbiadito, da una rinnovata complicità con i figli, dalla riscoperta del corpo, del tempo, dei pensieri, di sé stessi, di quel che si era e di quel che si è.
Una storia di solitudini è quella che ci narra Cristina Comencini con il suo ultimo romanzo “Da soli”. È un libro, questo, dove la maturità propria dell’età dei protagonisti non traspare a dimostrazione che anche in una fase dell’esistenza di solito associata a calma, saggezza, esperienza e bilanci, si è invece preda di tempeste, si è prodighi alle decisioni e non si ha timore di lasciare e di separarsi dal passato perché quel futuro è ancora un desiderio intatto e costituisce un traguardo da raggiungere e conquistare. Ci si risveglia e ci si chiede: “Quando ho iniziato a nascondermi? Quando la mia sfera dell’io è diventata maggiore della sfera del noi? Perché ho cercato di cautelarmi lasciandomi una dimensione individuale a discapito della coppia? E alla fine, alla fine dei giochi, cosa resta”?
Di fatto questi destini non si separano mai del tutto. La sofferenza, le disillusioni, i tradimenti, le passioni e anche quel vissuto che si è trascorso insieme è e resta un qualcosa di vivo e pulsante. Perché lo stesso malessere non è mai dell’uno, bensì è di tutti. Può essere rappresentato in modo diverso tra uomo e donna, ma alla fine tutto si mescola e sovrappone, confondendosi.

«Il nostro mondo è fatto di separazioni, di individui liberi e soli. Lo sarà sempre di più. Forse si resterà insieme fino alla crescita dei cuccioli, come in alcune coppie di animali, e poi tutti in mare aperto, incrociando ogni tanto qualche altro nuotatore, ci si ferma per un po’ a riposare su un’isola, per poi riprendere a dare bracciate, immersi nei pensieri solitari, tra messaggi silenziosi, qualche rara telefonata, senza voci.» p. 10

Con questa opera l’autrice dà voce nella dimensione della rottura a due voci, a due cori, il cui confine tra l’uno e l’altro è sottile, tanto che soventemente finiscono con l’invertirsi, l’amalgamarsi. Il tutto in un continuo alternarsi di quegli stereotipi per cui la donna è la parte debole, fragile e abbandonata e l’uomo è l’insofferente alla realtà familiare.
E così, mentre un uomo fugge perché convinto di non essere amato e mentre una donna è alla ricerca dell’autonomia tardiva, il fato sopraggiunge inarrestabile in quanto non si può fuggire da quello che è la sorte di tutti dovendosi difendere dal sopraggiungere di eventi non programmati quali il dolore e la malattia.
Rinascita, senso di fallimento, rottura, ricostruzione, il rischio di cadere in una voragine, la tentazione di essere felici, la fatica di restare a galla magari crogiolandosi nelle illusioni ma pur sempre senza quella maturità che lo scorrere degli anni comportano, è l’elaborato della sceneggiatrice. Perché per quanto Marta, che di lavoro è una ristrutturatrice d’interni, sia alla ricerca di novità e di continuo cambiamento, non si è mai liberi da quel fardello, da quella valigia pesante e ingombrante, che fa parte del nostro trascorso. Una valigia, in realtà, doppia.
Uno scritto psicologico, riflessivo, da leggere con calma e sui cui meditare.

«L’altra volta, quando ora, tra dieci anni, per sempre, un anno ancora, tre giorni, domani… Il significato di quello che ci è accaduto, la morte, la separazione, è indecifrabile e chiarissimo, un insieme di eventi futuri, presenti, passati, che muoiono e tornano a esistere. La sua mano si posa sulla mia, la contiene tutta, la tiene stretta.» p. 109

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