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Il fantasma bianco
Osborne ha abituato i lettori a storie totalmente immersive nel mondo dell’estremo Oriente che così ben conosce. Questa volta è stato il turno di Hong Kong, l’ex territorio britannico passato alla Cina, che continua a esercitare un fascino esotico ed allo stesso tempo nostalgico del passato coloniale. L’Hong Kong descritta da Osborne però è quella più recente in cui l’imperialismo cinese, la rigida politica restrittiva di Pechino, ha preso oramai il sopravvento in cui “La vecchia Hong Kong delle leggi e dei giudici britannicamente imparruccati decostruita in una notte” ha lasciato il posto ad “un mondo totalitario cupo e selvaggio nel quale regnavano dicerie, esagerazioni, odio, tribalismo, supposizioni”. L’autore attraverso il protagonista Adrian Gyle, giornalista, inglese trapiantato nella metropoli, racconta un mondo nel quale il capitalismo cinese contrassegnato dallo skyline e dai ristoranti di lusso, si fonde con i panorami mozzafiato a picco sul mare, con i profumi della foresta pluviale. Quest’ambientazione fa da sfondo ad un tessuto sociale dinamico e turbolento in cui le giovani generazioni senza futuro protestano, tentano di ribellarsi, si scontrano quotidianamente con la polizia cinese, la faccia dura del regime che si pone l’obiettivo di eliminare progressivamente le libertà precedenti ed instaurare un clima rigido di controllo basato sulla censura. Le fratture sociali si espandono in quanto diventa evidente la dicotomia tra coloro che provano ad alzare la voce e le ricche famiglie locali che invece preferiscono dichiarare la fedeltà incondizionata a Pecchino in cambio di agio, benessere, accontentandosi di quei lussi figli di una cultura occidentale ancora impressa nel tessuto urbano.
Su questi presupposti Osborne costruisce una storia che si svela molto lentamente, stancamente, in cui due vecchi amici conosciutisi al college, il protagonista Adrian per l’appunto e Jimmy Tang ricco ereditiere cinese figlio di quella società opulenta che fa finta di non vedere le nefandezze cinesi, si trovano ad un certo punto su due terreni opposti. Adrian dovrà così risolvere un proprio dilemma personale: se fare prevalere il suo dovere di cronista portando all’evidenza pubblica un caso di presunto omicidio di una ragazza che rappresenta la giovane generazione ribelle -causato dalla polizia con la connivenza di Jimmy- oppure se in nome della vecchia amicizia chiudere un occhio sulla vicenda. Adrian progressivamente appare sempre più come un elemento evanescente, estraneo nella nuova società, tendendo così a rappresentare quanto oramai della vecchia Hong Kong occidentale rimanga ben poco. Tanto che il termine coniato appositamente per quelli come lui nell’idioma cantonese, “Gwai lo”, fantasma bianco, risulta essere assolutamente calzante.
Java Road, titolo che deriva da una delle principali arterie commerciali di Hong Kong, forse non è il miglior libro di Osborne anche se rappresenta indubbiamente una lettura di spessore grazie alle sapienti pennellate autoriali dalle quali emerge quell’atmosfera “inacidita dall’odio, l’urlo delle sirene che si moltiplicano in lontananza...le sirene che echeggiavano senza sosta, come lacerando un tremendo vuoto, e tutt’intorno nell’etere si increspava un’elettricità: il gregge era spaventato, i lupi erano in arrivo”.