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Un mondo di differenze
E’ certo che nella propria mente ognuno di noi abbia un modo proprio di vedere la “normalità”. Quante volte ci siamo imbattuti in persone con atteggiamenti, idee, modi di pensare, modi di agire diversi da noi? Molto spesso probabilmente. Qual’è la nostra reazione? C’è chi risponde alla “diversità” con disprezzo, con indifferenza, con stupore e qualcuno con un raro rispetto.
Orwell nel suo “Giorni in Birmania” ci catapulta in un mondo, in una cultura completamente diversa dalla nostra, in una Birmania durante il periodo coloniale inglese, da lui perfettamente descritta perché vissuta sulla propria pelle come membro della Indian Imperial Police. La Birmania descritta dal suo racconto si discosta decisamente dalla nostra normalità non solo per la cultura estremamente differente del suo popolo, ma anche a causa degli europei e dagli indiani che popolano la Birmania di questo romanzo Orwelliano.
Uomini senza scrupoli, razzisti, ubriaconi, attaccati alle tradizioni e ad i luoghi comuni, donne prive di amor proprio ed interessate solo a prendere marito o a dare in mogli le proprie nipoti, ma anche un barlume di speranza per questa umanità con personaggi che nascondono un barlume di bene nel proprio animo, seppur non mancando di parecchi difetti anche gravi.
E’ una storia decisamente triste questa di Orwell, un saliscendi di speranza, abbattimento, accettazione dell’inaccettabile, il tutto attorniato dai profumi, i costumi e i paesaggi a volte gradevoli, a volte ripugnanti, ma sarà il lettore a giudicarli nell’uno o nell’altro modo.
E’ come se Orwell volesse metterci alla prova, presentandoci quella che è la realtà, birmana, ma anche dell’uomo in generale, come se volesse scrutarci nell’animo, interrogarci. Accetteremmo una cultura differente? Accetteremmo un amore non corrisposto o un matrimonio unilaterale accettato solo per convenienza? Accetteremmo un ingiustizia?
Forse è quest’ultimo l’interrogativo più grande, perché come al solito Orwell ci sbatte in faccia la realtà come nessun altro autore che ho incontrato finora. Le storie d’amore, le storie meravigliose, il lieto fine non gli appartengono, per lui esiste il reale, ma non lo si può definire un pessimista. Forse eccessivamente realista.
In questo suo libro ci mostra la realtà birmana, la realtà dell’uomo, in un miscuglio particolare di Oriente e Occidente nel quale non si riesce a distinguere il giusto e lo sbagliato, il vero dal falso.
Personalmente ci ho visto anche l’affermazione dell’inesistenza di una realtà assoluta, riguardo alla fede, al destino, al karma. Lui mescola tutto, la sua conclusione è un unione di tutto, a voler probabilmente suggerire che alla fine siamo tutti esseri umani e ,nonostante le differenze, tutti abitanti dello stesso strano e talvolta ingiusto mondo.
P.S. Potrebbe farvi nascere una voglia irrefrenabile di visitare l’Oriente, oppure spingervi a starvi lontano. Personalmente? Prenoterei domani il biglietto.
“Ma vivere la propria vita in segreto è una cosa che corrode. Si dovrebbe seguire la corrente della vita, non opporvisi. Sarebbe meglio essere il più cocciuto pukka sahib (gentiluomo bianco) che sia mai esistito, piuttosto che vivere solo e in silenzio, consolandosi in segreto con parole sterili.”
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Commenti
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lo leggerò, bella segnalazione Valerio!
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Mi inquieta solo il tuo finale, perche' io di voglia irrefrenabile e torturatrice ne ho fin troppa per conto mio.
:-(