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I talebani visti da vicino
Voleva soltanto “raccontare una guerra che il mondo sente lontana”. Per questo motivo Daniele Mastrogiacomo, inviato di Repubblica, partì per l’Afghanistan alla fine del febbraio del 2007.
Non era la prima volta che si recava in quello che lui definisce “un intero paese punteggiato dalla morte” per via delle mine antiuomo disseminate in gran numero in tutto il territorio, tragico risultato di decenni di guerre che hanno devastato una terra dai paesaggi mozzafiato e ferito nel profondo il popolo afghano. Devastazioni e ferite, come è tristemente noto, non sono mai cessate, malgrado la presenza militare delle forze internazionali che non riescono ad avere ragione della resistenza talebana tutt’altro che debole e disorganizzata. E proprio la possibilità di penetrare all’interno di quella resistenza, intervistando un non bene identificato comandante talebano, spinse Mastrogiacomo a far ritorno in Afghanistan, lontano dall’immaginare quale assurda vicenda l’avrebbe visto protagonista.
Da ciò prende le mosse il suo libro intitolato “I giorni della paura”, pubblicato dalla casa editrice Edizioni e/o. Il lettore vi troverà l’altra parte del rapimento del giornalista, quella vissuta in prima persona da Mastrogiacomo che racconta la sua esperienza di ostaggio con uno stile narrativo capace di trasmettere, attraverso un linguaggio semplice, angoscia, speranza, rassegnazione, rabbia, paura e quant’altro abbia segnato quelle due settimane di prigionia, lunghe e durissime per lui e per i suoi collaboratori; lo accompagnavano, infatti, due giovani afghani: Ajmal Naqshbandi, il suo amico interprete-giornalista che si era attivato per ottenere il colloquio con il capo militare grazie ai suoi contatti tra gli stessi studenti coranici, e Sayed Agha, l’autista che conosceva alla perfezione quei territori.
Un gruppo di talebani armati di kalašnikov li catturò nella provincia di Helmand, nel profondo sud del Paese, con l’accusa di essere spie. Più tardi apparve chiaro che qualcuno, all’interno della leadership del movimento, aveva “giocato con le nostre vite” e che l’intervista, in realtà, era stata solo una trappola con la quale attirarli. Tutto viene descritto con dovizia di dettagli: dai terribili istanti della cattura ai frequenti e scomodi spostamenti a bordo delle jeep tra deserto e villaggi di fango e paglia, dalle “frustate in nome di Allah” all’improvvisa decapitazione di Sayed, dai ritmi dei giorni, spesso interminabili, scanditi dalle cinque preghiere quotidiane alla rottura a colpi di pietra dei lucchetti delle catene alle caviglie il giorno dell’annunciata liberazione, l’ultimo in cui Daniele vide il suo interprete; quest’ultimo, dopo un finto rilascio, sarà di nuovo catturato e, dopo il tentativo di utilizzarlo ancora come merce di scambio, ucciso con il consueto macabro rituale.
Il ritratto dei talebani che emerge a poco a poco è assolutamente inedito, qualcosa che ha, come scrive Bernardo Valli nell’introduzione, “una autenticità rara, anzi rarissima”. Tutti molto giovani, i carcerieri “dividono con noi gioie e sofferenze, fame e cibo, sete e acqua. Non ci faranno mai mancare nulla. Si occuperanno di noi con un’attenzione che ci lascerà interdetti e che impareremo a temere, quando scopriremo la violenza di cui sono capaci”. La loro è una vita semplice e strana, fatta di ideali di martirio e sorprendenti partite di calcetto, di gesti delicati verso le armi che trattano come loro compagne e canzoni urlate a squarciagola in cui si racconta non solo di combattimenti, “ma anche di un mondo migliore, più giusto, dove tutti vivono in pace e al sicuro. Senza ladri, fedifraghi, assassini. Ma anche senza donne, progresso, cultura, libri, musica, balli, cinema, televisione. Un mondo ancorato al passato, fermo ai tempi di Maometto”. Durante quei quindici giorni Mastrogiacomo poté conoscere del movimento degli studenti coranici più di quanto avrebbe mai immaginato: “In fondo – come gli disse il mullah Dadullah, comparso poco prima della liberazione – avete ottenuto molto più di un’intervista. Avete visto come viviamo e cosa pensiamo”.
“I giorni della paura” è un libro che l’autore dedica, come si legge in apertura, a coloro che si adoperarono attivamente per riportarlo a casa e alle novantamila persone che, in tutto il mondo, sottoscrissero l’appello per la sua liberazione. Ma è stato scritto con il pensiero rivolto, in modo particolare e doveroso, ai suoi due collaboratori, Ajmal e Sayed, perché “loro avrebbero voluto che raccontassi al mondo questa nostra incredibile storia. Glielo dovevo. Dopo due anni ho mantenuto questa promessa”.
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Commenti
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Ciao,
Chiara
Se vi interessa l'argomento, può essere una valida lettura per capire qualcosa di tutta quella situazione.
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