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Pace indiana
Conosco Giorgio Montefoschi che mi ha raccontato le storie ben scritte di Eva (2011) e de Le due ragazze dagli occhi verdi (2008): le relazioni, il dispiacere, i pensieri tenuti stretti a sé. E ritorna per dirmi delle letture e dei viaggi intorno all’India che durante trent’anni hanno contribuito ad ampliare la sua esperienza umana.
Il viaggio fa parte della storia dell’essere umano e agisce come una forza su di lui. Per l’autore i viaggi in India sono prova, sopportazione, logorano e spogliano ma, proprio per questo, sono cambiamento e trasformazione. Le città indiane offrono saggezza e conoscenza e, attraverso la fatica e il patimento, intensificano l’esperienza esistenziale.
“Di che è fatta la pace indiana?”
Seguo i passi e i pensieri dell’autore attraverso i luoghi indiani che chiamano, attraverso la malattia del ritorno, la luce grigia e riposante e il gran caldo umido, gli inni del Veda, il sentimento della sicurezza del ritorno. Capisco il sentirsi “serenamente disperso, nullafacente di diritto”. Come già Pasolini, Moravia e Manganelli (che aveva definito Calcutta ), Giorgio Montefoschi, riprende il camminare lento e pensato fra miseria e agiatezza, fra i diseredati della terra e la Salt Lake City (la cittadella dell’informatica), fra la presenza di Ka, colui che è, e il donarsi delle missionarie della Carità.
Il viaggio come causa e misura per acquisire il coraggio, la resistenza, la capacità di sopportare ed elaborare il lutto e le ferite, come ricerca e scoperta per mantenere il governo di sé anche in situazioni di affaticamento e di pericolo: il K?mas?tra richiama il potere, il piacere e la religione, come i tre fini dell’esistenza.
Ho da viaggiare e da studiare.