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Chi resta non riparte, chi se ne va non torna.
Tristan non è – come potrebbe sembrare – il co-protagonista della più bella storia d’amore mai pensata di tutti i tempi, no, non c’entra proprio niente.
Si parla di un posto, dell’Isola di Tristan De Cunha, più meno a metà strada fra America del Sud e Africa, in qualche parte dell’Atlantico, decisamente verso Sud. Dove Sud non è “uguale a caldo” come pensiamo noi boreali, ma già decisamente freddo, tempestoso e umido.
L’isola di Tristan è l’unica abitata del suo piccolo arcipelago composto anche dalle Isole Nightingale, dall’Isola Inacessibile (!) e dall’Isola di Gough; tutte insieme appartengono all’Arcipelago di Sant’Elena (ad oltre 2000 km) che è un po’ la “metropoli” di riferimento.
Il fatto che Napoleone non fosse per niente contento di essere stato confinato nella suddetta metropoli, la dice lunga sull’isolamento di Tristan.
Confesso che questo non è stato il mio primo incontro con Tristan, datosi che fin da piccolissima alternavo momenti di discreta socialità (in cui volevo fare il pescatore) a momenti di “scarsa” socialità in cui ambivo a fare il guardiano del faro. Spesso facevo girare il mio fedele mappamondo in cerca di un posto abbastanza isolato per costruire il mio faro. Per dire che avevo da poco imparato a leggere, quando mi imbattei per la prima volta in Tristan De Cunha.
Successivamente, e per un periodo abbastanza lungo, ho avuto anche il cognome di uno dei fondatori italiani dell’isola, quindi questa lettura non potevo perderla!
L’autore (peraltro concittadino del mio babbo… questa storia è piena di rimandi) sceglie di raccontare l’isola attraverso le voci e le storie di alcuni abitanti, passati e presenti, con l’intento – credo – di restituire la voce di Tristan, luogo sperduto, ma che, come una sirena, eternamente richiama chi per qualche motivo abbia incrociato il suo cammino.
Così abbiamo livornesi – dall’agire non proprio limpido – approdati per caso, prostitute scaricate senza troppi complimenti, genovesi legati ad un voto o ad amori lontani (in quest’ultimo caso con terribilissime – ed attestatissime – genitrici genovesi), inglesi, olandesi, balenieri, soldati inglesi a presidiare – da lontano - lo scoglio di Napoleone, casomai l’Imperatore avesse qualche colpo di coda in serbo.
Tristan è un luogo che, a causa della sua unicità e lontananza, catalizza i destini più diversi.
Se sei capitato lì, hai una storia da raccontare.
Il tentativo di Ferrari riesce solo parzialmente: alcune storie funzionano, altre si sfilacciano in una narrazione che non sempre permette di “sentire” la voce di Tristan.
Un luogo da cui è difficile andar via.
A causa di un’eruzione vulcanica tutti gli abitanti furono evacuati nel 1961. E tornarono nel 1963 dopo diciotto mesi di “civile” Inghilterra. Perché, viene da chiedersi.
Forse perché nella storia di Tristan de Cunha non è noto un solo episodio violento (oddio. Secondo me il Livornese Tommaso Corri non è stato proprio cristallino su questo punto, ma va be’), perché non esiste una forma di governo ufficiale, né un concetto personale di ricchezza, ma solo quello di comunità.
Una comunità che si capisce quasi senza parlare (peraltro la lingua è una sorta di koinè linguistica di tutti gli idiomi degli abitanti) tale e tanta è l’affinità creata dal luogo.
Solo per mare o in condizioni estreme l’umanità si manifesta al meglio? Sempre l’eterno Ulisse che torna?
Bon. Io tanto prima o poi ci vado (ultimamente cercavano insegnanti), così racconto meglio, per adesso prendo congedo con le parole del vecchio Green: “Ricorda, chi resta non riparte e chi se ne va non torna.”
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Affascinante.
Lo leggero', grazie.