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LEZIONI PARADOSSALI DI ETICA POSTINDUSTRIALE
“Succedono cose davvero terribili. L’esistenza e la vita spezzano continuamente le persone in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili.”
Passare da quel libro-mondo immenso e smisurato che è “Infinite jest” al brevissimo racconto, della lunghezza di un aforisma o poco più, che apre la raccolta di “Brevi interviste con uomini schifosi” (e che rappresenta il primo brano di narrativa pubblicato da Wallace dopo il suo capolavoro del 1996), è un salto non indifferente, anzi addirittura spiazzante. Anche se in realtà non tutti i racconti sono altrettanto laconici e stringati del primo (anzi alcuni tra loro sfiorano le trenta pagine, oltretutto estremamente dense e difficili come dei piccoli trattati di psicologia o di semiotica), non si può infatti non evidenziare come essi siano scritti con uno stile nettamente differente l’uno dall’altro, tanto che “Brevi interviste” sembra quasi un’opera collettiva, parto della fantasia di un collettivo di scrittori: dalle interviste che danno il titolo al libro, in cui sono riportate solo le risposte e non ciò che viene detto dall’altro interlocutore, al brano “Mondo adulto (II), impostato come se fosse lo schema preparatorio buttato giù in brutta copia dall’autore stesso per agevolare la stesura definitiva, con tanto di abbreviazioni e suddivisioni della trama in scene numerate come in un testo teatrale o in una sceneggiatura cinematografica; dal racconto classico che inizia con “C’era una volta” al resoconto asettico e pedissequamente prolisso, con tanto di note a pie’ di pagina che sono quasi più lunghe del testo principale, di “Una persona depressa”, il risultato è tale da disorientare e mettere a dura prova quel lettore che avesse come principale aspettativa quella di ritrovare intatta la prosa di “Infinite jest”, muovendosi all’interno del libro come in uno spazio riconoscibile, familiare, e per ciò stesso tranquillizzante. Se all’inizio, con i primi racconti, prevale questo effetto straniante, come se ci si trovasse di fronte a un’opera incapace di coagularsi, di trasformarsi in qualcosa di coeso e unitario, piano piano inizia però a intravedersi, sia pure a fatica, un filo comune, un leitmotiv. Che non è, come molti hanno detto (e come lo stesso titolo lascerebbe supporre) la misoginia (alcuni dei personaggi “schifosi” che si incontrano sono infatti di sesso femminile), ma piuttosto la difficoltà, se non addirittura l’impossibilità di stabilire dei rapporti umani autentici. In quasi tutti i racconti di Wallace gli esseri umani sono o solipsisticamente ripiegati su se stessi, ossessivamente impegnati ad analizzare i propri tormenti interiori, le proprie fobie e i propri complessi, in modo da escludere il resto del mondo (ottenendo l’effetto che si verifica – suggerisce Wallace – quando vai ad una festa e, al ritorno a casa “all’improvviso ti rendi conto che per tutta la festa ti sei talmente preoccupato di capire se piacevi o no ai presenti che adesso non hai la minima idea se a te è piaciuto qualcuno di loro”), oppure apparentemente interessati agli altri, sinceri ed empatici, comprensivi e solidali, ma sotto sotto avendo l’unico scopo di manipolarli, di usarli per i propri subdoli fini, tanto più che per farsi apprezzare essi cercano di convincerli di essere del tutto onesti e di larghe vedute e di non manipolare mai nessuno. Si pensi per esempio alla persona depressa dell’omonimo racconto, tutta chiusa com’è in un’aridità spirituale tale da non accorgersi minimamente che intorno a lei gli altri a cui disperatamente si aggrappa e che vede in sua esclusiva funzione, soffrono come e magari più di lei (l’amica del gruppo di sostegno che tempesta di telefonate ad ogni ora del giorno e della notte è malata di un tumore in fase terminale e deve ascoltare gli sfoghi della persona depressa fra un conato di vomito e l’altro, la terapeuta muore suicida senza che i suoi pensieri smettano per un momento di concentrarsi sul proprio esclusivo dolore, sulla propria perdita personale, sul proprio privato abbandono); oppure ancora all’uomo che vuole scaricare una ragazza cercando di farle credere che farla soffrire è l’ultima cosa che vuole, che essere sinceri fino alla crudeltà è un modo di amarla e onorarla piuttosto che di sottrarsi agli impegni presi, dopo averla convinta a lasciare tutto e a trasferirsi da lui, e che dirle di essere un uomo che per le donne è meglio perdere che trovare è un atto di onestà che farà prima di tutto far stare male lui stesso, facendolo sentire una persona inaffidabile, vigliacca e cattiva, pur essendo l’ultimo in realtà a volerlo essere; o infine (è forse l’intervista più famosa) all’uomo che usa il suo braccio deforme come un’astuta strategia di seduzione, per far sentire le donne oscuramente in colpa, farsi compatire da loro e alla fine portarsele a letto senza scrupolo alcuno. Il mondo di Wallace è governato inesorabilmente dall’egoismo e dall’ipocrisia, dall’opportunismo e dal cinismo, e perfino l’autore (in quel capitolo meta-letterario di “Ottetto”, che è una sottile parodia della letteratura che riflette su se stessa, e che sarebbe sicuramente piaciuto a Italo Calvino) si chiede se non sia egli stesso colpevole (nel momento in cui si preoccupa di indovinare se al lettore la sua opera piacerà, pur sapendo che il solo fatto di chiederselo è semplicemente esiziale per l’onestà intellettuale della sua opera) di far uso di tecniche ambiguamente manipolatorie. Si deve allora concludere, dopo aver sostenuto tutto ciò, che Wallace sia uno scrittore cinico e nichilista? Io non metterei affatto la questione in questi termini. A mio avviso Wallace riesce nei suoi racconti a far intuire quanta sofferenza si nasconda dietro ogni mostruosità (magari l’”hideous man” è tale perché nella sua infanzia i genitori in procinto di divorziare si sono giocato l’affidamento del figlio a sorte, con il lancio di una moneta), e quanta “mostruosità” invece si nasconda dietro alla cosiddetta normalità (ad esempio, l’uomo che si vanta di essere migliore dei seduttori di professione, in quanto lui si preoccupa del piacere delle sue conquiste, in fondo non è così diverso da loro, in quanto la sua è una strategia differente per ottenere lo stesso identico scopo, quello di portare a letto più donne possibili; e il protagonista dell’ultima breve intervista è costretto a confessare che “se cambi l’ordine dei fattori e a stupro, assassinio e terrore sconvolgente sostituisci un rapporto sessuale intenso e un falso numero di telefono non immediatamente riconoscibile come tale per non sentirti a disagio ferendo senza motivo i sentimenti di qualcuno, la sostanza psicotica non cambia”). “Brevi interviste con uomini schifosi” esprime, sotto la sua ruvida superficie di cinismo, una sottile nostalgia di purezza, di compassione, di empatia, di autenticità, anche se è costretto a riconoscere che, nel mondo contemporaneo (postindustriale, avrebbe detto Wallace), c’è quasi una impossibilità ontologica di trasformare quelle monadi a cui si sono ridotti gli esseri umani in persone eticamente virtuose. Si pensi al brano “Il diavolo è un tipo impegnato”, in cui un personaggio fa una donazione in forma assolutamente anonima, al fine di non corrompere la motivazione della sua buona azione con il meschino desiderio di ricavarne riconoscenza ed affetto, ma alla fine ottiene l’effetto diametralmente opposto di apparire subdolo, ambiguo, se non addirittura malvagio, tutto il contrario di quella generosità disinteressata che, in buona fede, si proponeva di ottenere. Perché, si domanda Wallace, “i modi di «usare» qualcuno sono letteralmente un miliardo in piú rispetto a quelli di «stare con» loro onestamente”? La risposta è che c’è “un «prezzo» indefinibile ma inevitabile che prima o poi tutti gli esseri umani si ritrovano a dover pagare se vogliono davvero «stare con» un’altra persona e non soltanto usarla in qualche modo (come per esempio usare la persona semplicemente come pubblico, o strumento per i propri fini egoistici, o come una specie di attrezzo da ginnastica morale sul quale poter dimostrare il proprio carattere virtuoso (come per le persone che sono generose con gli altri solo perché vogliono essere considerate generose, e in realtà segretamente gli piace quando quelli che le circondano fanno bancarotta o finiscono nei guai, perché significa che cosí si possono precipitare generosamente e far vedere che li aiutano), un prezzo strambo e indefinibile ma a quanto pare ineluttabile che in effetti in certi casi può equivalere alla morte stessa”. E’ nell’evidenza delle cose, in quello che leggiamo sui giornali così come in ciò che sperimentiamo di persona, che l’uomo tale prezzo non sia disposto quasi mai a pagarlo. I “quiz a sorpresa” di “Ottetto” vorrebbero essere, nelle intenzioni del suo autore, altrettante domande che provocano la coscienza del lettore, chiedendogli di prendere una posizione di fronte ad alcuni spinosi dilemmi etici, ma falliscono miseramente al cospetto di una società in cui il senso morale sembra ormai definitivamente scomparso oppure viene piegato a fini biecamente utilitaristici. In fondo a tutto ciò rimane solo un profondo, irredimibile disagio, a malapena mascherato dall’ironia e dal sarcasmo. E’ come se il lettore venisse costretto a guardare dentro a uno specchio, e in questo specchio, in questi esseri psicotici, perversi, malati e misogini, vedesse anche se stesso, in qualche modo, con un inquietante e quasi subliminale senso di vergogna e di ribrezzo, vi si riconoscesse.
Lo stile di Wallace, pur cambiando sensibilmente – come detto poc’anzi – da un racconto all’altro, è fluviale e labirintico, vertiginoso e genialmente prolisso e, con le sue frasi piene di subordinate e di incidentali, di note a pie’ di pagina e di digressioni, riesce a esprimere alla perfezione i meandri tortuosi della psiche. Nei suoi racconti c’è una logica spesso contorta e aggrovigliata, che lui però è in grado di girare e rigirare fino a farla riflettere nella testa del lettore come una adamantina verità. E’ tutt’altro che raro imbattersi in frasi del tipo: “O in lei c’era davvero qualcosa che non andava, o in lei qualcosa non andava per via del timore irrazionale che qualcosa in lei non andasse”; oppure: “Certe donne molto attraenti, quando gli presti attenzione, cominciano immediatamente a posare, anche se la loro posa consiste nella disinvoltura ostentata che ostentano per dipingersi come persone che non posano”. Wallace si rivela un profondo conoscitore della natura umana, di cui è in grado di descrivere le molteplici sfumature e complessità. Il tono di fondo dell’opera è sarcastico, ma dietro a questa maschera è come se l’autore avesse voluto lanciare un messaggio palingenetico, quasi una sorta di SOS nella bottiglia. In questo mondo insensibile, indifferente e crudele – sembra dirci Wallace - c’è ancora, forse, una possibilità di salvezza, solo che bisogna essere disposti a pagare quel prezzo di cui parlavo prima, come nel “Quiz a sorpresa 4”, dove due drogati terminali sono seduti di notte al freddo e solo uno ha un cappotto. “Il drogato terminale col cappotto si tolse il cappotto in modo che li coprisse tutti e due e poi si rannicchiò un altro poco tanto da ritrovarsi schiacciato contro l’altro e lo circondò con un braccio e lasciò che si sentisse male sul suo braccio, e rimasero così insieme contro il muro per tutta la notte. D: Quale dei due è sopravvissuto?”. Non bisogna mai cadere nell’errore di confondere l’ironico understatement di Wallace con una mancanza di impegno civile. Wallace, con gli strumenti a sua disposizione, ossia la capacità quasi sovrumana di penetrare con la parola scritta, meglio di qualsiasi psicologo, all’interno dell’animo umano, ha senza dubbio lottato strenuamente per richiamare l’uomo contemporaneo alla necessità, all’inderogabilità di una vita etica, e, alla luce di questa improba lotta, la sua morte prematura e dolorosa ha finito per acquisire i simbolici connotati del sacrificio di un moderno cristo laico che si sia voluto immolare per riscattare i peccati del mondo.
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Che visione amara, però! Siamo così schifosi? Non si salva nulla o nessuno?
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