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Il ribaltamento del mito
Non è la prima volta che leggo un opera in cui Dürrenmatt si adopera a rielaborare un mito greco: ne avevo avuto prova anche ne “La morte della Pizia”, probabilmente una delle sue opere più riuscite e interessanti. Anche “Il Minotauro” è una prova di tal genere, sebbene con uno svolgimento decisamente più amaro, una rielaborazione del mito del “mezzo toro e mezzo uomo” che è probabilmente tra quelli più conosciuti della mitologia greca. Ma mentre nella storia che ci hanno sempre raccontato il punto di vista è sempre quello di coloro che sono al di fuori del labirinto, stavolta l’origine di questa ballata - perché in effetti l’opera è in versi, sebbene dia la sensazione della prosa - si ha proprio all’interno del labirinto, col primo risveglio del mostro all’interno della sua prigione intricata e psichedelica ideata da Dedalo. È al mostro che è dedicata la totale attenzione del narratore, ma ben presto sorgerà nella mente del lettore una domanda, che è secondo me è centrale in questo breve ma denso componimento: il Minotauro è davvero un mostro?
Occorre di certo considerare che il Minotauro è il risultato d’un rapporto bestiale e raccapricciante, quello tra la moglie di Minosse Pasifae e un toro bianco che il re avrebbe dovuto sacrificare agli dei. Contravvenendo a quest’ultimo comando divino, la punizione che colpisce Minosse è l’innamoramento della moglie verso questo toro e la sua passione incontrollabile placata grazie a Dedalo, la quale ha come frutto, appunto, il Minotauro. Ma quale colpa ha questa creatura per gli errori di Minosse e di Pasifae? Giudichiamo forse i figli per le colpe dei padri? Tralasciando il controverso insegnamento del giardino di Eden, possiamo dire di no. È dunque solo il suo aspetto mostruoso a renderlo malvagio, seguendo la linea di pensiero del Riccardo III shakespeariano? No, in quel caso si trattava soltanto di una giustificazione per una malvagità che aveva ben altre fonti. Dunque, analizzando bene la situazione, il Minotauro ci è presentato nel mito come una creatura bestiale, che si nutre di carne umana, alla quale vengono sacrificati dei poveri giovani che lui dilania e divora senza pietà. In quest’opera il geniale svizzero, invece, ci presenta la verosimilissima possibilità che il Minotauro altro non sia che una creatura innocente, ingenua e inconsapevole, piazzata all’interno di una prigione che manderebbe ai matti anche l’uomo più sano di questa terra. Eppure, la sua inconsapevolezza arriva al punto da impedirgli di impazzire: la sua figura che si riflette all’infinito all’interno di quegli specchi non è la sua stessa figura, per lui, ma sono altri esseri come lui che lo seguono in tutto e per tutto, in ogni suo movimento. Certo, il suo istinto animalesco non è una variabile da ignorare: la donna che troverà all’interno del labirinto sfrenerà i suoi istinti sessuali, ma non è ancora una creatura malvagia: è una creatura che segue il suo istinto perché non gli è stato dato null’altro, è una creatura ingenua e a tratti bambinesca. Danza, felice di aver trovato altri esseri come lui; danza per aver assaggiato l’idea dell’affetto e dell’amore; danza perché crede di aver trovato un amico. Ma è proprio quel che lui credeva un amico - non essendo capace di concepire la malvagità - ad aprirgli gli occhi verso quella che probabilmente è la parte davvero mostruosa di lui: quella umana. Il Minotauro non uccide se non quando viene ferito quasi a morte, e anche in seguito vedrà inizialmente nel suo carnefice, Teseo, un possibile amico, una possibile compagnia in quel mondo così strano, così pieno di figure eppure così vuoto. Teseo lo ucciderà, pur avendo percepito l’ingenuità della creatura che ha di fronte, proprio nel momento in cui il Minotauro si avvicina a lui in segno di fiducia bambinesca, una fiducia rotta brutalmente.
Avevate mai provato ad analizzare il mito da questo punto di vista? Magari sì, ma ancora una volta in pochissime pagine Dürrenmatt si rivela un autore con la A maiuscola, capace di farci riflettere e di condensare tante idee in poco spazio.
“[…] il Minotauro sognò di essere un uomo. Sognò un linguaggio, sognò fratellanza, sognò amicizia, sognò accoglienza, sognò amore, intimità, calore, eppure mentre sognava sapeva di essere un mostro cui mai sarebbe concesso un linguaggio, mai fratellanza, mai amicizia, mai accoglienza, mai amore, mai intimità, mai calore, sognò come gli esseri umani sognano gli dèi, l'uomo con la tristezza degli uomini, il minotauro con la tristezza degli animali.”
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Commenti
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Si assolutamente, l’opera resta leggibile e apprezzabile senza grossi sforzi, se non quelli necessari a cogliere quel che l’autore vuole trasmettere. Sforzi che lettori come noi mettono a prescindere. :)
grazie mille per i consigli, oltretutto Borges è un autore che apprezzo molto, dunque recupererò molto presto il racconto che mi consigli!
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