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"ciò che io ho veduto, l’uomo non dovrebbe mai ved
I RACCONTI DI KOLYMA (O “DELLA KOLYMA”, visto che la Kolyma è una regione: la Siberia orientale, nell’estremo nord-est della Russia) di VARLAM SALAMOV (1907-1982).
Varlam Salamov comincia a redigere i “Racconti della Kolyma” dopo la morte di Stalin, avvenuta nel novembre ‘53, quando può infine lasciare la Siberia dove per motivi politici è stato costretto a lavori forzati fin dal 1937, e vi mette la parola fine nel 1973 (in Italia i Racconti vengono pubblicati nel 1976). Più o meno negli stessi anni Alexandr Solgenicyn scrive “Arcipelago gulag”, ma non avendolo letto, non posso fare un confronto fra le due opere.
La parola “RACCONTI” del titolo non inganni: si tratta infatti dei molti ricordi - ben circostanziati e per nulla costretti nella cornice di un racconto vero e proprio, che imporrebbe un finale prevedibile oppure al contrario un finale a sorpresa - degli interminabili anni (diciassette!) passati nei gulag della “terra della morte bianca”, regione paludosa grande quanto la Francia, come si legge in wikipedia, dove però nella brevissima estate “nugoli di zanzare si incollavano al viso” (p. 106, ne “Il mullah tataro e la vita all’aria aperta”, che può fare da introduzione all’opera). Quando Salamov vi è detenuto, la Siberia, che a quei tempi è soprattutto terra di giacimenti auriferi e di legname, è sempre il tratto finale dell’apparato digerente di quello sterminato paese che dal regime zarista passa senza soluzione di continuità al regime sovietico (a p. 110 un confronto tra le condizioni di vita nei campi di lavori forzati all’epoca zarista e a quella staliniana). Salamov si salva fondamentalmente perché riesce a farsi integrare nel personale infermieristico, e a ciò che succede nei reparti ospedalieri della Kolyma sono dedicati vari racconti, soprattutto dopo la metà del primo volume.
Lungo circa 1300 pagine Salamov testimonia “con quanto facilità l’uomo dimentica di essere un uomo” - per l’ennesima volta, come sappiamo - e lo fa senza nulla aggiungere in omaggio alla “letteratura”, tanto che inizialmente si può restare delusi di come termina un “racconto”: termina spesso in modo insignificante, o meglio “non significante”, proprio come le cose terminano nella vita reale. Oppure a volte prendono una direzione che porta altrove rispetto a quanto ci si aspetta come lettore di opere di finzione narrativa (sull’elaborazione dei racconti, vedi p. XIX). Riguardo alla lingua, Salamov si permette slanci di pur sobrio lirismo quando parla di paesaggi e animali (vedi per es. “La resurrezione del larice”); per il resto racconta fatti, nel modo più neutro e oggettivo possibile, solo lasciandosi talora sfuggire punte di amara ironia, e la materia del ricordo risulta vivida sia per l’acutezza con cui le situazioni vengono interpretate nella loro complessità concreta e psicologica, sia per l’ampiezza e la precisione della TESTIMONIANZA, confermate dalle note a piè di pagina dell’ediz. Einaudi : con nome e cognome di vittime e carnefici (che ricorrono in più Racconti).
Cosa caratterizza i GULAG? L’assoluta discrezionalità nell’esercizio del loro potere da parte dei funzionari di tutti i livelli, la durezza estrema delle condizioni di vita e di lavoro dei detenuti in un territorio non per caso disabitato, la violenza (tacitamente autorizzata dall’alto) dei malavitosi nei confronti dei detenuti politici all’interno delle baracche e delle squadre di lavoro. Su quest’ultimo aspetto già il primo “racconto”, “Sulla parola”, dice tutto quel che c’è da sapere: un uomo viene ucciso perché non vuole cedere al “capo” il suo maglione. “Ora dovevo cercarmi un altro socio per spaccare la legna”, così si chiude questo racconto: non c’è compassione dove la sopravvivenza è in gioco.
Innumerevoli in quest’opera imponente sono le pagine belle e particolarmente interessanti; ne ho scelto quattro dal volume primo (il secondo lo leggerò) per dare un’idea di come e cosa scrive Salamov.
1. Sul regime poliziesco dell’URSS, che perseguita soprattutto soprattutto quelli “dell’articolo 58”, cioè le persone accusate di “attività controrivoluzionaria”, per lo più degli intellettuali:
p. 326-7: “La vigilanza instancabilmente coltivata che aveva finito per trasformarsi in mania, quella di veder spie dappertutto, divenne la malattia di tutto il Paese. Si attribuiva a ogni sciocchezza, a ogni sproposito, a ogni lapsus un significato recondito e malvagio che esigeva di essere interpretato negli uffici dei giudici istruttori. A completamento del regime carcerario, era proibito recapitare ai detenuti sotto istruttoria pacchi di viveri e di vestiario. I saggi del mondo giuridico sostenevano che grazie a due pagnotte del tipo francese, cinque mele e un paio di pantaloni usati si poteva far arrivare in prigione qualunque messaggio, persino un brano dall’Anna Karenina. Questi “segnali da fuori” - che esistevano solo nel cervello infiammato degli zelanti servitori delle Istituzioni - furono assolutamente troncati. restavano solo le rimesse di denaro, per l’esattezza non più di cinquanta rubli al mese per detenuto. Le rimesse dii denaro dovevano essere in cifra tonda: dieci, venti , trenta, quaranta, cinquanta rubli; questo sempre per premunirsi contro l’eventuale invenzione di un nuovo “alfabeto” con segni speciali basati sugli spiccioli. (…) Resta solo da chiedersi perché l’amministrazione non si risolvesse a proibire del tutto gli aiuti di parenti o amici, pur sapendo che neanche una misura del genere avrebbe provocato proteste sia all’interno del carcere sia all’esterno, tra i “liberi”. Ai Russi non piace testimoniare in tribunale. In Russia, tradizionalmente, il testimone in un processo non si distingue molto dall’imputato e il fatto ch’egli abbia avuto comunque qualcosa a che fare con un caso giudiziario costituisce un precedente piuttosto negativo per l’avvenire. La situazione dei detenuti sotto istruttoria è ancora peggiore. Essi sono dei futuri condannati, poiché si ritiene che “la moglie di Cesare debba essere al di sopra di ogni sospetto” e che gli “organi” del ministero degli Interni non possano sbagliare. Nessuno viene arrestato per niente. La condanna non è che il seguito logico dell’arresto, ogni detenuto riceve la sua pena detentiva, che può essere lunga o breve – questo può dipendere sia dalla fortuna del detenuto, dalla sua “buona stella”, sia da tutta una combinazione di fattori, in cui rientrano a pari titolo le pulci che non hanno lasciato dormire l’inquirente la notte prima e quel tal voto al Congresso degli Stati Uniti. (…) il fatto di ricevere una condanna non significava affatto sfuggire all’azione permanente di tutti gli articoli del Codice penale. “
2. Sui detenuti politici
p. 344: “Tanto tempo prima, Krist, giovane diciannovenne, aveva subito la sua prima condanna. L’abnegazione, lo spirito di sacrificio, l’aspirazione non a condannare (questo “condannare” mi pare sia da interpretare nel senso di “criticare a prescindere”, un po’ come si fa oggi nei social) ma a fare ogni cosa con le proprie mani – tutto questo era sempre stato vivo nel suo spirito, insieme a un appassionato sentimento di insubordinazione agli ordini altrui, alla volontà altrui. Nel più profondo dell’anima, Krist aveva sempre desiderato misurarsi con l’uomo che era seduto dall’altra parte del tavolo, con il giudice istruttore, un desiderio alimentato dalla sua stessa infanzia, dalle letture fatte, dalle persone incontrate in giovinezza o di cui aveva sentito parlare. Di persone così in Russia ce n’erano molte, nella Russia dei libri perlomeno, nel pericoloso mondo dei libri.”
Salamov non doveva essere diverso da Krist.
3. Su … (non te lo dico)
Nel racconto In lend leasing è detta dapprima l’ammirazione dei detenuti di fronte alla potenza smagliante dei veicoli forniti dagli USA all’URSS nell’ambito del Lend-Lease Act, il piano “affitti e prestiti” con cui nel 1941 gli USA aiutarono l’URSS ad attrezzarsi tecnologicamente per la guerra:
p. 435 “Sempre in lend-leasing [oltre per es. al lubrificante solidol che, essendo dolce, venne ingurgitato dai detenuti come se fosse stato zucchero] arrivarono certi enormi Diamond neri da cinquanta tonnellate con rimorchi e bordi metallici e Studebaker da cinque tonnellate che affrontavano con facilità qualsiasi salita. Con quei camion veniva trasportato giorno e notte, lungo la rotabile di mille verste, il frumento americano ricevuto in lend-lease dentro certi bei sacchi di tela con l’aquila americana. (…) e arrivò così un trattore che portò alla nostra lingua una nuova parola: “bull-dozer”. (…) Nell’aria ghiacciata si udirono a lungo i sospiri e l’ansito del nuovo animale feroce americano. Il bulldozer tossiva nel gelo, sempre più arrabbiato, poi cominciò a sbuffare senza interruzione e sempre brontolando si lanciò risoluto in avanti, spianando le gobbe del terreno e superando con facilità i ceppi (…) Almeno trecento persone invidiavano con tutte le loro forze il detenuto al volante del trattore americano: Grin’ka Lebedev. Tra i detenuti c’erano trattoristi anche migliori di lui, ma erano tutti dei “cinquantotto”, dei “siglati” (…), mentre Grin’ka Lebedev era dentro per un reato “comune”: parricidio per l’esattezza. (…) Ormai non avremmo più dovuto trascinare per il pendio e accatastare a forza di braccia i tronchi di larice di Dauria pesanti come il piombo (…) Ma per quella sua prima uscita in terra kolymiana, in terra russa al bulldozer venne affidato un compito di tutt’altro genere. (…) adesso vidi e capii di cosa si trattava. E ringraziai Dio di avermi dato il tempo e la forza di essere testimone di tutto questo. (…) La tomba, una fossa comune di detenuti del ‘38, una fossa di pietra colma fino all’orlo di cadaveri non decomposti, aveva cominciato a franare. I morti strisciavano lentamente giù per il pendio, rivelando il segreto della Kolyma. Alla Kolyma i corpi vengono consegnati non alla terra, ma alla pietra. La pietra conserva e rivela i segreti. Ognuno dei nostri cari scomparsi alla Kolyma - tutti quelli fucilati, picchiati a morte, dissanguati dalla fame - ognuno di loro può essere identificato, anche dopo decenni. Alla Kolyma non c’erano camere a gas. I cadaveri aspettano dentro la pietra, nel gelo perenne.(…) Il bulldozer aveva ammucchiato tutti quei cadaveri irrigiditi dal gelo, migliaia di cadaveri, di corpi scheletriti. Tutto era immortale: le dita ricurve delle mani, le dita purulente dei piedi, i monconi delle congelazioni, la pelle secca grattata a sangue e il luccichio famelico degli occhi. Con il mio cervello tormentato, stanco cercavo di capire cosa ci facesse da quelle parti quell’immensa tomba comune. Non c’erano mai stati giacimenti auriferi in quella zona, almeno a mia memoria, eppure ero un veterano della Kolyma. Poi però considerai che in fondo conoscevo soltanto una piccolissima parte di quel mondo, accerchiato com’ero da zony di filo spinato con torrette di guardia, che richiamavano alla memoria modelli architettonici utilizzati per l’urbanistica di Mosca: le coperture piramidali ispirate alle tende. I grattacieli di Mosca sono torrette a guardia della popolazione cittadina, torrette per una città di detenuti. (…) Considerai che conoscevo soltanto un frammento di quel mondo, un’insignificante, piccola parte, e che a venti chilometri da dove mi trovavo ci poteva essere tanto l’izba di una spedizione di geologi in cerca di uranio quanto un giacimento d’oro con trentamila detenuti. Nelle pieghe delle montagne si potevano nascondere moltissime cose. (…) E poi ricordai (…) l’impetuosa fioritura estiva della tajga, che cerca di nascondere sotto l’erba e le foglie tutte le opere dell’uomo, buone o cattive che siano. E ricordai che l’erba è ancora più immemore dell’uomo. (…) Ma la pietra e il gelo perenne non dimenticheranno. (…) Il lavoro era terminato. Il bulldozer ammucchiiò sulla nuova fossa un mucchio di sassi e ghiaia, e i cadaveri tornarono a nascondersi sotto la pietra. ma non scomparvero. (…) Il bulldozer ci passò accanto rombando – sulla sua lama a specchio non c’era un solo graffio, neanche una chiazza.” Fine del racconto.
4. Pensando a ... dopo.
“Mi piacerebbe andar via di qua, s’intende, ma in prigione. Non scherzo. In questo momento non vorrei tornare in famiglia. Loro non capirebbero mai, non potrebbero capire. Ciò che a loro pare importante, so che non vale nulla. Quel che è importante per me - quel poco che mi è rimasto – loro non possono né comprenderlo né sentirlo. (…) ciò che io ho veduto, l’uomo non dovrebbe mai vederlo e neppure saperlo” (p. 463)
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Commenti
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Non sono lettore di racconti, per cui questa raccolta che 'non sono propriamente racconti' m'interessa. Non ho letto nulla di questo celebre autore.
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So che esiste una versione di circa 650 pagine, pressoché dimezzata rispetto all'edizione integrale che presumo sia più completa e ricca di particolari, sebbene l'argomento trattato sia certamente tragico e molti lettori non disdegnino una minor prolissità.