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Realtà aliena
I racconti di Jean Paul Sartre si avvicinano molto di più a trattati filosofici che a semplici romanzi. Sartre, pensatore francese che ha fatto del surrealismo ed esistenzialismo i soggetti delle sue disquisizioni, fa vivere i suoi personaggi in un continuo stato di sofferenza e pena in cui ci si interroga continuamente sulla propria natura e sulla (non) esistenza dei vari oggetti che capitano nella propria mano o sotto i propri occhi. “L’esistenza - fa dire Sartre a un suo personaggio nell’ultimo racconto- è un illusione; dal momento che so di non esistere, non ho che a tapparmi le orecchie, a non pensare più a nulla e mi annienterò. […] Ma l’illusione era tenace”.
Questa è la cornice in cui i personaggi si susseguono tra una storia e l’altra, ritrovandosi sempre spaesati, fuori contesto, incapaci di decifrare intorno a loro quella realtà che sembra addirittura farsi beffe di loro al punto che l’assurdità paventata fin dall’inizio della crisi esistenziale, insita nell’animo di ciascuno, si è trasformata repentinamente in uno sconvolgimento emotivo che spesso e volentieri è sfociato nella pazzia. La diretta conseguenza è l’impossibilità di trovare una via di fuga. Si vedono solo muri invece che strade, morte invece che vita.
Questa struggente analisi interiore non prevede quasi mai dialoghi: il silenzio e la voluta reiterazione di gesti ritmici a cui assistiamo nel primo racconto - il cui titolo è quello del libro - è ciò che riempie e scandisce il tempo in quella cella, buia e fredda, in cui Pablo capisce che il confine tra vita e morte è molto più labile rispetto al muro che si frappone tra lui e la realtà.
Si vive e si pensa in modo estremo. Facciamo conoscenza con un mondo in cui la moderazione e la sobrietà sono banditi: c’è follia (intesa come sconfitta del pensiero razionale sull’irrazionale), surrealismo (inteso come ricerca dei meandri più profondi della mente e dell’uomo) e crisi esistenziale (intesa come incapacità di definirsi e di collocarsi nella società). Che la loro manifestazione sia nei pensieri o nei gesti - a questo punto - poco importa.
Dai silenzi della prima storia si passa a silenziosi urlati e soffocate grida che eruttano in una lacerante lotta interiore. La camera non è solo il titolo del secondo racconto di Jean Paul Sartre, ma rappresenta anche quel luogo in cui paura, amore e assurdo trovano casa perché, in fondo, amare qualcuno appare a coloro che sono estranei a quella relazione come un sentimento logico, ma talora incomprensibile. Quante volte non ci spieghiamo come una nostra amica possa ancora voler amare il proprio fidanzato dopo che questi l’ha tradita più e più volte?
E allora non ci possiamo meravigliare di fronte a una donna che si ritrova nell’incapacità di abbandonare il proprio fidanzato con cui non riesce nemmeno a dialogare e, allo stesso tempo, vorrebbe alienare a sè il proprio padre - perché scettico e riottoso proprio sul fidanzamento della figlia -, ma sa di non poterlo fare perché, in fondo, riconosce che “ha ragione”. La ragazza si trova sola nei propri sentimenti e circondata da muri fisici (la camera) e metaforici (l’incapacità di entrare in sintonia). Emblematica la sua lapidaria constatazione: “c’è un muro tra te e me. Io ti vedo, ti parlo, ma tu sei dall’altra parte”
In fondo non può che essere così, dal momento che l’autore inculca nei suoi personaggi la convinzione che la realtà in cui viviamo sia un’illusione e pertanto priva di ogni felicità. La razionalità dell’uomo si scontra con l’irrazionalità dell’esistenza. Lo scontro produce follia che rischia anche di tradursi in perversioni e dipendenze sessuali o tendenze all’omicidio. Questo succede a chi si interroga sull’esistenza dell’uomo. Sartre utilizza cinque storie il cui comune denominatore è l’ideologia pessimistica, e per certi versi macabra, della sua visione sulla condizione umana.