Dettagli Recensione
Se scrive il Re
Scrittore prolifico, instancabile, eclettico e appassionato, Stephen King a differenza di altri celebrati romanzieri riesce a offrire il meglio del suo talento anche cimentandosi nella scrittura in forma di racconto, anziché nel più usuale romanzo.
Non è questo un estro appropriato per chiunque; parrà paradossale, dopotutto un breve componimento permette di eccellere con facilità, proprio per il carattere di concisione.
Richiede meno fatica, concentrazione e accuratezza rispetto ad un lavoro più lungo, possono essere sufficienti descrizioni sommarie, personaggi appena accennati e dialoghi ridotti.
Niente di più sbagliato: è vero invece l’inverso, è difficile scrivere, ricreare atmosfere, ambienti e situazioni, imbastire una storia compiuta, suscitare emozioni, avvincere e convincere il lettore con un numero limitato di pagine e parole.
Ancora più ostico è farlo cimentandosi in un genere, l’horror, in cui King è considerato un maestro, un Re in omaggio al suo nome, specie ai giorni nostri.
Un tempo il nostro dove fantastico, mistero, magia non hanno più motivi e supporti per esistere, ormai nessuno più è disponibile a credere a fantasmi, mostri o creature di altre dimensioni.
Chi si ostina a farlo è tacciato di ingenuità, di indulgere in fantasticherie astratte e bizzarre o in romantiche illusioni, peggio ancora di fessaggine.
La nostra epoca è improntata al rigore scientifico, divulgato in ogni campo dello scibile umano dall’informazione automatica in realtime, che non concede zone d’ombra, dubbi o misteri che non possano essere analizzati nel profondo, sviscerati con logica e chiariti nei più minimi particolari, alla luce delle più moderne tecniche di indagine.
Allora, per funzionare, questo tipo di letteratura ha bisogno di realizzare compiutamente il meccanismo della sospensione dell’incredulità, la creazione cioè di una bolla letteraria in cui lo scrittore rinchiude magistralmente “il fedele lettore”, come lo chiama lo stesso King, e lo incanta con il potere delle parole scritte.
Quasi lo ipnotizza rendendolo arrendevole al fascino di una bella storia, a prescindere dal suo contenuto, di qualsiasi cosa tratti, di qualunque genere, anche il più improbabile, a unica condizione che riponga temporaneamente in disparte ogni incredulità, sia disponibile volontariamente, in piena libertà e senza coercizione alcuna a credere a tutto e al contrario di tutto, anche all’assurdo, purché appunto si compia il sortilegio, apprezzi quanto scritto per la sola bellezza insita in forma e contenuto.
Un vero e proprio contratto tra scrittore e lettore, il primo fornisce una bella storia, insolita e curiosa, scritta bene, con cura e con chiarezza, senza trucchi e senza imbrogli, soprattutto senza deus ex machina completamente inspiegabili, che impressiona, scuote, avvince, ti fa riflettere con quello di reale che traspare tra le righe, e il lettore invece legge, accoglie la storia, sospende per un momento il giudizio sulla veridicità dei fatti esposti, firma l’onere della sospensione dell’incredulità in cambio di una lettura avvincente, deliziosa, ammaliante, una piacevole parentesi, un godere intenso.
“Perché esiste davvero una seconda dimensione. Ed esiste proprio perché la gente si rifiuta di credere che ci sia”.
Nel mondo dei giornali, si usa dire che fa più notizia un uomo che morde un cane che viceversa, e nello stesso modo, si vendono più copie per un fatto delittuoso appunto…se scorre il sangue.
Ecco, se una buona storia horror porta la firma di Stephen King, se scrive il Re, allora il lettore ne sarà certamente soddisfatto, proverà sensazioni gradevoli, deliziose, soddisfacenti, a prescindere dal genere. Stephen King, in sintesi, non è uno scrittore dell’horror, è uno scrittore tout court, un grande scrittore a tutto campo, si cimenta con pari bravura nei romanzi come nei racconti, appunto perché è un Re, e come tale non è nuovo a pubblicare raccolte di soli racconti con il successo di critica e di pubblico uguale a quello conferito alle sue storie di maggior spessore e di maggior numero di pagine. Basti pensare alla fortuna arrisa in precedenza a “Stand by me”, “Scheletri”, “Quattro dopo mezzanotte”, “Everything’s eventual” e altri ancora.
In “Se scorre il sangue” il racconto di apertura è “Il telefono del signor Harrigan”: che impressione può provare, quale sorpresa, meraviglia, stupore e sbalordimento possono cogliere un anziano miliardario, il signor Harrigan del titolo, ormai prossimo alla fine dei suoi giorni, ma dalla mente lucida e pronta come e più di un giovanotto, davanti ai prodigi della moderna tecnologia sconosciuta alla sua generazione?
Harrigan è un uomo d’anteguerra, è il classico self made man americano, abile, spregiudicato negli affari, cinico e disincantato, una persona per cui il massimo della tecnologia ai tempi d’oro della sua maturità è stato possedere un televisore a tubo catodico più grande del normale, e un telefono personale a linea fissa in casa, da non condividere con altri utenti della compagnia telefonica.
Un suo giovane, e fresco nativo digitale, il ragazzino vicino di casa, Craig, assunto per leggergli qualche pagina dei romanzi preferiti, tanto si affeziona al vecchio da regalargli uno dei primi modelli di smartphone della Apple, appena immessi sul mercato.
Per il vecchio Harrigan l’equivalente della lampada di Aladino.
Per intenderci, troppo spesso tendiamo a dimenticare che…non siamo stati tutti nativi digitali.
Ormai più nessun nuovo ritrovato informatico ci meraviglia più di tanto, ma per quanto strano, è esistito un tempo nemmeno tanto lontano in cui i telefoni andavano a gettoni, le calcolatrici a manovella, le macchine da scrivere avevano un nastro inchiostrato e senza correttore ortografico.
Uno dei primi pc sul mercato, con connessione modem, sistema operativo Windows 3.1, con processore lumaca, hard disk e RAM di capacità irrisoria, con programmi installati su un ridicolo floppy disk, era già qualcosa di stupefacente e ipertecnologico per un uomo del secolo scorso, come mostrare ad un cavernicolo la differenza tra una clava ed un kalashnikov.
Figuriamoci uno smartphone, che come ultima funzione pratica ha quello di telefonare senza essere collegato ad una presa telefonica, ma quello che lasciava sbigottiti, sconcertati, sbalorditi i nostri antenati era Internet, la rete, il web, il poter leggere i quotidiani in tempo reale o seguire l’andamento della Borsa all’istante, e anche gratis, come d’uso un tempo.
Sarebbe l’equivalente del regalare un mucchio di moderni e strabilianti giocattoli moderni, meccanici moventi, senzienti e auto gestibili, ad un bambino che ha avuto finora solo miserabili balocchi di legno: lo si manda letteralmente in sollucchero.
Così per Harrigan, che si spiace solo per questo per il termine della sua esistenza terrena, comprendendone con la sua mente raffinata, gli effettivi strabilianti sviluppi futuri.
Tanto finisce per affezionarsi al suo smartphone, che il suo giovane pupillo Craig, erede di parte della sua fortuna, pensa bene di lasciarglielo nella tasca interna della giacca al momento della sepoltura, perché gli facesse compagnia nel viaggio nell’al di là.
E come tutti i giovani curiosi e sbarazzini, prova a telefonargli, tempo dopo la sepoltura, un po' per scherzo, per curiosità, proprio perché resta un ragazzo, dopotutto…e se qualcuno risponde?
Oh…ma è solo la segreteria telefonica con la voce del vecchio registrata, per fortuna!
Da sottoterra? Giorni dopo la sepoltura? Ma quanta autonomia poteva avere una batteria di un cell?
Poi…se poi gli lasci un messaggio e…e il vecchio esaudisce il tuo desiderio, e ti risponde pure con un criptico sms? Inverosimile e reale insieme, non sai che credere, e intanto leggi, e ti piace anche.
Credo che con questo racconto King abbia esposto a modo suo uno degli interrogativi più frequenti della nostra epoca: può la moderna tecnologia spiegare, oggi o domani, il mistero della vita, della morte, e dell’esistenza? Il dilemma che da sempre tormenta l’uomo? C’è vita oltre la morte?
King dubita che l’informatica ci sarà di aiuto. E noi con lui.
Il secondo racconto, “La vita di Chuck” è a sua volta suddiviso in tre sotto raccontini, con lo stesso protagonista, Charles Chuck Krantz, visto in…dimensioni diverse.
Non in momenti diversi della sua vita, si badi bene, proprio in diverse dimensioni di vita.
Chi siamo veramente? Ognuno di noi è frutto, se così possiamo dire, non tanto della strada esistenziale rettilinea percorsa per giungere alla maturità, quanto piuttosto il risultato dei continui cambi di direzione, dipendiamo dagli innumerevoli bivi incontrati, dagli incroci contorti a più snodi e più uscite, spesso senza cartelli indicatori, con le rotonde, i viottoli nascosti, siamo il sunto di tutte le direzioni diverse che abbiamo intrapreso durante la nostra corsa terrena.
Ne consegue che abbiamo incontrato persone diverse, letto certi libri e non altri, amato in un certo modo e in una determinata misura, nel bene e nel male le nostre esperienze ci hanno plasmato come siamo. Tuttavia, se avessimo intrapreso direzioni diverse, magari girato a destra e non a sinistra, tornati indietro, soggiornato in un posto abbastanza a lungo e non in un altro, preso quel treno, o quell’aereo, o fossimo andati a piedi, tutto di noi sarebbe cambiato.
Siamo uno, nessuno, centomila, secondo che via abbiamo intrapreso, e con quali scarpe indossate, se comodi scarponcini, o ciabatte scalcagnate, o dolorosi stivali stretti in punta e fautori di dolorose vesciche. Così, tutte diverse sarebbero le persone che abbiamo conosciuto, gli incontri, gli scontri, i dolori, le gioie, tutto il vivere vissuto lo conserviamo qui, nella nostra mente. In menti diverse.
In sintesi, tutto quanto lo disse già il poeta Walt Whitman, e King lo riprende in una frase del protagonista: “Contengo moltitudini”.
Ed è verissimo: ognuno di noi poteva essere e non è, poteva vivere in una società al collasso distopico, per catastrofi climatiche, telluriche, ambientali, oppure trovarsi a ballare con artisti da strada, o ancora essere un bravo padre di famiglia alle prese con un tumore encefalico nel fiore degli anni.
In qualsiasi scenario…potrebbe sempre esserci un cartellone pubblicitario a grandezza naturale a ricordarci che siamo protagonisti unici del film della nostra vita…conteniamo moltitudini, e siamo unici. Dipende dove siamo, e come ci siamo arrivati.
Il racconto più lungo è “Se scorre il sangue”, un omaggio di King ad uno dei suoi personaggi non dico meglio riusciti, ma quello a cui lo scrittore si è più affezionato negli scritti della tarda maturità: la giovane investigatrice, suo malgrado, Holly Gibney, una ragazza psicolabile un po' bruttina, ex anoressica, ex vittima di una madre patologica, ex fallita di turno, una donna piena di idiosincrasie, fobie, avversioni, ripugnanze, eppure tenera, simpaticissima, saggia e affettuosa, già protagonista di precedenti e fortunati romanzi dello scrittore del Maine, tra cui l’ultimo “The outsider”.
Sui luoghi dei disastri più sanguinosi, incidenti drammatici quanto disastrosi e sulle scene di efferati attentati, si radunano sempre folle di curiosi, attratti dal sangue…se scorre il sangue, si vuole vedere.
Non solo, filmarlo con i cell, sentire le testimonianze raccapriccianti, condividerne sui social raccontando la propria testimonianza e partecipazione attiva alla tragedia, una macabra curiosità tutta umana. E se invece qualcuno…si nutrisse di questo dolore?
Se ne avesse davvero la necessità, se fosse un essere misconosciuto ma reale che ha bisogno, la sua fisiologia e costituzione organica e tessutale, il suo metabolismo, il suo fisico, lo richiedono, di aspirare l’orrore, il dolore, la paura degli umani?
Respirarne le emozioni dolenti, le sole nutrienti del suo corpo?
Un mostro certo, dal nostro punto di vista, ma in realtà un essere senziente diverso, un organismo ancestrale differente, un sopravvissuto, non alieno ma un mai estinto, un organismo poliforme e astuto, cattivo per necessità, solo che…sta diventando più che cattivo, sta divenendo attivo.
Tocca ad Holly porre un rimedio. Della serie, ciò che è diverso è mostruoso. Lo è, King non lo nega, ma spesso è nella sua natura esserlo, magari non ne ha neanche colpa, è così, è la sua Natura.
Spesso, la Natura è matrigna con gli umani, è nella norma. Anche Holly lo sa.
L’ultimo racconto, “Ratto”, si riconduce indirettamente al difficile mestiere di scrivere.
Scrivere è un’attività creativa, affascinante, attrae moltissimi, molti ci si provano, pochi ci riescono, pochissimi ne traggono sostentamento, meno ancora eccellono.
L’incubo peggiore di chiunque scriva è il lampeggiare del cursore sulla carta senza trovare le parole per continuare. Il blocco dello scrittore, la paura, il terrore puro di non riuscire a rendere subito, chiaro e bene l’idea che ti è spuntata in testa, la trama, i personaggi, il panico che ti sorprende a che l’attimo fatato della creazione mentale dello scritto evapori inesorabilmente, svanendo come nebbia al vento.
Un fallimento, un handicap insormontabile per chi scrive.
Questo è quanto già accaduto più volte al protagonista di “Ratto”, lo scrittore Drew, che non è mai andato oltre la stesura e la pubblicazione di qualche buon racconto, anche con un certo successo e fortuna, ma non oltre, tant’è che per sbarcare il lunario con moglie e figli esercita come professore di letteratura inglese. Tuttavia, non è felice, non si sente realizzato, in una parola rosica: ogni tentativo precedente di scrivere finalmente un romanzo è sempre abortito ad un certo punto del suo lavoro.
Perché scrivere sa essere un’attività crudele, all’improvviso ti blocchi, non sai più come andare avanti, le parole che fino ad un attimo prima sorgono impetuose, spontaneamente e senza sforzo, soprattutto rendono perfettamente su carta la buona storia che la testa ti detta, ora latitano.
Peggio: scompaiono, sia i termini che le idee. L’intero processo creativo si inaridisce di colpo, e senza rimedio, senza alternativa che non sia alzarsi e sbattere tutto nel cassetto dei rimpianti.
Un giorno però a Drew la fantasia, il fato, la musa, la creatività recano in dono una bella storia, e le parole per dirla. Un’opera diversa e originale, un western, ed il nostro ha tutto chiaro in testa.
Per non perdere il filo, la concentrazione e l’idea, temendo il ripetersi del blocco dello scrittore, lascia moglie e figli e si rintana a scrivere pro tempore, qualche settimana, in una baita di montagna fuori dal mondo. Dove resta poi bloccato da una tormenta di neve, anche febbricitante. Però, come si dice, ha viveri e munizione a sufficienza per resistere, e l’isolamento voluto e forzato insieme non può che essere di giovamento alla scrittura. Tuttavia…il talento non necessita di isolamento.
Non necessariamente almeno. Le parole non giungono, il foglio resta in bianco, Drew è disperato, sconfortato, depresso, febbricitante, solo, malconcio e malridotto.
Nel delirio iperpiretico, ecco gli sembra che un ratto, che aveva soccorso poco prima dalla tormenta, gli conceda per gratitudine di finire il suo libro, in cambio della morte di una persona cara.
Un vero e proprio dialogo faustiano, quindi, che Drew neanche sa quanto reale o onirico, fatto sta che accetta, indicando con astuzia come vittima predestinata il suo migliore amico…che sa già gravemente malato terminale e prossimo alla fine.
Il libro è terminato alla grande, viene pubblicato con successo di critica e di pubblico ma…il diavolo fa le pentole e non i coperchi, e Drew sarà costretto a tornare alla baita per un chiarimento sui termini del contratto.
In questo racconto direi che King fa una disamina spassionata del proprio lavoro, induce ad una attenta riflessione su cosa in effetti significa esercitare la professione di scrittore, un’attività che non è certo idilliaca come qualcuno potrebbe pensare, ma è invece spesso un vero strazio interiore, un tormento, un’ossessione, provoca dubbi, insicurezze, nevrosi e psicosi.
Dietro il successo di un romanzo c’è il talento, certo, con la creatività ed il duro lavoro, e queste hanno un prezzo: è facile, perciò, quando latitano, cercare una scorciatoia artificiale, nell’alcool, nelle droghe e stimoli simili, King lo sa bene, lui stesso ci è passato all’inizio della carriera.
Poi per fortuna non ne ha avuto più bisogno, neanche di un patto con un ratto.
E si vede: se scrive il Re, vale la pena leggerlo.