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Sepùlveda: conferme e sorprese
Ho un rapporto difficile con le raccolte di racconti, in genere faccio davvero fatica a completarne la lettura, il fatto che ci sia in continuazione un punto conclusivo che ogni volta ti costringa a restipulare il patto narrativo con il libro per poter andare avanti è, per me, spossante. Vivo un continuo alternarsi e aggrovigliarsi di impegno/disimpegno che non mi fa godere appieno i testi: se il racconto appena terminato mi è piaciuto, resto a pensarci anche se dovrei già essere concentrata su quello attualmente in lettura (mancato disimpegno/ritardato impegno); se un racconto non mi convince possono aprirsi due scenari, cioè che vada in modalità “volo dell’angelo”, cioè ci plani attraverso velocemente con un impegno disimpegnato, oppure che mi areni nel tentativo di penetrare il testo, in un inutile impegno a non disimpegnarmi che blocca la lettura per giorni.
Anche l’esperienza con “Incontro d’amore in un paese di guerra” di Sepúlveda ha rispettato il copione e mi ha fatto provare le tante modalità-lettore di cui ho parlato prima: ho divorato alcuni racconti e sono rimasta a rimuginarci su, ho sorvolato su altri, mi sono affaticata per addentrarmi in altri ancora. È stato proprio l’autore a spiegarmi che “il piacere o il benessere offerti da un’opera d’arte provengono da stati d’animo solo casualmente convergenti”, pertanto è naturale stabilire una relazione diversa con ogni storia, alleviando di fatto i miei sensi di colpa per il mio rapporto ondivago con questi racconti.
Alla fine della lettura, però, posso dire di aver avuto un migliore sguardo d’insieme sull'autore, sia per la varietà dei temi trattati sia per il modo in cui vengono narrate le storie.
Conoscevo il Sepúlveda lineare nello stile, che utilizza solo le parole giuste, quelle che descrivono adeguatamente le cose e che permettono al lettore di vedere tutto quello che l’autore vuole che veda. Ad esempio, leggete queste righe a proposito di un cofanetto: “Dentro non c’era neppure un gioiello, neppure un doblone, neppure un pezzo di metallo prezioso, neppure un filo di perle. Solo un fascio di fogli ingialliti, che si sbriciolavano a forza di essere maneggiati e letti, scritti in caratteri molto tozzi.”. Non si può, dopo, non avere in mente un’immagine accurata.
E conoscevo anche la sua capacità di far seguire alla creazione di immagini mentali, il risveglio degli altri sensi (“Quella pioggia senza vento, decisamente verticale, che in pochi minuti ti ammolla fino alle ossa…”) o l’abilità magistrale di porre di fronte a situazioni contingenti per innescare riflessioni universali (“L’incontro aveva qualcosa di clandestino e la possibilità di essere visto da qualcuno dei miei amici mi colmava di imbarazzo.”, dice il protagonista del racconto “Storia d’amore senza parole” perché la ragazza che sta per incontrare è muta).
Ho scoperto, invece, un Sepúlveda sensuale, capace di infondere alla narrazione di un incontro sessuale pari intensità e dolcezza; per un racconto in particolare mi sono ritrovata a pensare ad Almodòvar e al suo “Parla con lei”. È interessante anche sottolineare come ognuno degli amplessi presenti nel libro costituisca l’apice di un climax emotivo e al contempo la sua fine, non segue alcun declino ma una cesura: è come se ai protagonisti fosse concessa un’epifania attraverso l’amore fisico, come se si scardinasse una porta su una certa consapevolezza per mezzo di un ariete che poi si dissolve.
Riuscitissimi i racconti in cui un personaggio parla logorroicamente ad un interlocutore sommergendolo di parole, non si riesce ad arginarne il flusso e si è costretti a farsene trasportare. L’autore non interviene mai dall’esterno per contestualizzare, definire, ambientare, la forza evocativa del tempo e del luogo è tutta affidata all’eloquio/sproloquio del protagonista (il racconto “Segreteria telefonica” su tutti). E anche questa, per me, è stata una novità della scrittura di Sepúlveda che ho molto apprezzato.
La chiosa di questa recensione la dedico alle considerazioni dell’autore sulla letteratura. È presente l’immancabile dichiarazione d’amore di Sepúlveda per la letteratura stessa (“La più grande disgrazia è che finiscano le parole e l’albero rimanga orfano di suoni, senza nessuno che possa annunciare il sapore dei suoi frutti, i colori delle sue foglie, la frescura della sua ombra.”), la cui genesi risiede nel rapporto di collaborazione con il lettore (“Lei e io stiamo esercitando la funzione magica della letteratura. Non potrei parlare […] se non fossi sicuro che lei esiste ed è mio complice.”). In questo libro, però, c’è posto per una constatazione amara: mentre in altri scritti, ad esempio “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” e “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”, la letteratura ha uno scopo salvifico, qui Sepúlveda vacilla e accosta al sapere parole che appartengono al campo semantico della inefficacia (“gli illuminati […] abbandonavano l’ultima porta del secondo edificio per andarsene con l’inutile solitudine della saggezza.” “i saggi di quella città imprecisata anticipavano l’inutilità del sapere che oggi ci tormenta.”), quasi a rivelarci il suo dispiacere per quello che potrebbe essere e non è, per quello che la cultura potrebbe dare e che non viene accolto.
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Commenti
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Buona lettura :)
Liviana
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Federica