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I RACCONTI DI SALINGER
Due morti aprono e chiudono questa raccolta di racconti: due morti molto diverse tra loro per la dinamica – un suicidio e una “disgrazia” profetizzata – eppure in un certo senso simili, quasi consequenziali, perché le vittime sono, come quasi tutti i personaggi del libro, per così dire “border line”, al limite tra normalità e anormalità, con una vena di follia che li rende parenti del “giovane Holden”. Il reduce del primo racconto e il Teddy dell’ultimo sono caratterizzati da una estrema, acuta sensibilità (l’amore per la poesia dell’uno, il genio precoce dell’altro), che, proustianamente, li rende predestinati al “tedium vitae”, alla sofferenza e all’alienazione. Spesso, nei “Nove racconti”, è la guerra a fare da teatro o da sfondo alle vicende, e allora l’alienazione è quella del reduce o di chi ha perso i propri cari in guerra: il protagonista di “A Esma: con amore e squallore” (che non ha più tutte le sue “facoltà intatte”, come si esprime con odioso eufemismo la ricca ragazzina viziata nell’incontro caritatevole, da aspirante dama dell’Esercito della Salvezza, che gli concede prima della partenza per il fronte), il suicida cui si è già accennato (che ben potrebbe essere, anzi – a pensarci bene – forse è proprio la stessa persona), la Eloise de “Lo zio Wiggily nel Connecticut” (che dietro la sua facciata cinica e sarcastica nasconde il dolore per la perdita dell’unico vero affetto della sua vita). Per essi, la disperazione esistenziale ipostatizza la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, anche se è probabile che per loro non ci sarebbe stata salvezza neppure in un diverso contesto storico. Dietro di loro, a far trapelare una sorta di orrore soffuso e velato, c’è tutta una serie di bambini, ragazzi o adolescenti di buona famiglia, viziati, ipersensibili, impercettibilmente “tarati” fin dalla nascita, che anormali forse sono destinati a diventarlo più avanti (la figlia di Eloise nel secondo episodio, il fratello della tennista snob in “Alla vigilia della guerra contro gli Esquimesi”, il bambino che scappa sempre di casa in “Giù al Dinghy”, il giovane insegnante che millanta un’inesistente amicizia con Pablo Picasso e che si innamora della suora sua allieva per corrispondenza ne “Il periodo blu di De Daumier-Smith”). A fronteggiarli ci sono quei personaggi che, più corazzati psichicamente, alzano barriere di cinismo, di snobismo e di egoismo per sopravvivere alle tragedie della vita e rimanere a galla a scapito dei più deboli (la moglie del suicida, Esma, la tennista, la sorella di Teddy). Ecco, se proprio un leit motiv di può trovare ai nove racconti (con la sola eccezione del mediocre “L’uomo ghignante” e di “Bella bocca e occhi miei verdi”, una “quasi” pochade alla Feydeau) è proprio questa lotta darwiniana tra forti e deboli, ma non in termini di potere, forza fisica o ricchezza, piuttosto di forza psichica e di sanità mentale.
La narrazione breve è congeniale a Salinger per sfoggiare la sua bravura nei dialoghi, nei quali si disimpegna con incredibile disinvoltura e irrisoria facilità per riprodurre alla perfezione, senza mai ricorrere allo slang, la lingua colloquiale di una classe sociale, la “upper class” americana bianca e urbana, giovane e colta, con il suo annoiato understatement, la sua dissimulata crudeltà, i suoi snobistici cliché. L’ambiente rappresentato è lo stesso dei romanzi di Francis Scott Fitzgerald, ma mentre in questi a prevalere è la luccicante superficie mondana, nei racconti di Salinger domina l’inquietante oscurità dei meandri della psiche.
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