Dettagli Recensione
Solitudine anestettizzante
«”Perché ci sono cose che non si possono aggiustare, come il piatto che mi è caduto ieri sera. Ci sono troppi pezzi, oppure sono troppo piccoli. Forse anch’io non sono riparabile.
Non è vero Theo, non dire così. Tu non sei un piatto.
Lo siamo tutti. E siamo in attesa di romperci.
[…] Stefano se ne era andato e l’appartamento era quasi buio. Era ora di accendere altre luci.”» p. 52/53
Due storie ben diverse tra loro eppure altrettanto simili e vicine sono quelle racchiuse in “Gli inconvenienti della vita” di Peter Cameron. Due storie, una intitolata “La fine della mia vita a New York”, l’altra denominata “Dopo l’inondazione”, accomunate da un profondo senso di abbandono. Theo, protagonista insieme a Stefano della prima vicenda, a seguito di un incidente stradale perde il suo impiego da insegnante e al contempo perde anche il desiderio di scrivere. Lui, che amava far del lemma il suo lavoro e che in libreria era riuscito ad arrivare con un volume forse un po’ strano e dalle vendite modeste ma dall’ottimo riscontro della critica, lavora da ben undici anni a un testo che ha praticamente abbandonato. Perché le parole, quelle come il desiderio, si sono allontanate da lui. E se all’inizio si trattava di un qualcosa di passeggero che era però affiancato dalla volontà di ricominciare un giorno a buttar giù quel componimento, adesso quell’aspirazione è un qualcosa di ancora più irraggiungibile, irrealizzabile. Stefano, al contrario, si è costruito una realtà fatta di apparenza, di impegni fittizi, di fragilità imminenti.
Poi ci sono gli Escobedo, una coppia di anziani con un grave lutto alle spalle, giunta la primavera successiva all’inondazione presso i loro ospiti, perché con il fenomeno naturale occorso avevano perso tutto. Da qui ha inizio una convivenza forzata che spaventa e intimorisce per ragioni diverse e mutevoli nel trascorrere del tempo. Se all’inizio questo poteva essere determinato da una mancata confidenza, da un mancato feeling, di poi, diventa ben altro perché capace di portare alla luce quel senso più intimo di inadeguatezza personale che talvolta crediamo superato o vinto ma che in realtà si cela nelle nostre profondità per far ritorno alla luce quando meno ce lo aspettiamo. La sensazione di soffocamento, di anestetizzazione, è prorompente. L’incontro protratto con l’altro sconosciuto nella nostra dimensione sembra riuscire a farci dimenticare chi siamo, quasi come se le nostre due entità si fossero fuse, confuse, tra loro, perdute.
Tante tante domande quelle che echeggiano nella mente dei vari personaggi a cui purtroppo assai scarse sono le risposte. Tra silenzi, omissioni, incapacità a relazionarsi, apparenze, vite fasulle costruite su castelli di carta, ripetitività di una quotidianità schiavizzante dove ogni desiderio è obliato, ha luogo il componimento di Cameron.
Uno scritto pervaso da un grande senso di malinconia, dalla persistente sensazione di abbandono e dove ogni tassello si incastra perfettamente all’altro grazie ad una ricca e erudita autoanalisi. Un percorso dove l’aspetto sentimentale e emotivo dell’essere umano si mixano all’aspetto psicologico e interiore di ciascun attore. Poiché ognuno è prigioniero di quella ingannevole e effimera esistenza costruita, una vita da cui è impossibile scappare, a cui è impensabile ribellarsi, a cui è rivolto uno sguardo inerme a fronte di quella inesorabile vertigine di cadere. Perché ci si è spinti troppo oltre per poter tornare indietro, perché ci si è spinti troppo oltre per non essere costantemente in equilibrio su un bilico ormai deteriorato.
Magnetico, ricco di spunti di riflessione, dalla penna preziosa e capace di accompagnare il conoscitore pagina dopo pagina con straordinaria rapidità.