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Poveri cristi
È un’America anonima e spenta, pullulante di grigie periferie e poveri cristi in balia di solitudine e tossicodipendenza, quella che trova spazio, e voce, nelle pagine di “Jesus’ son” dello scrittore statunitense Denis Johnson, scomparso nel 2017 e considerato negli USA tra i maggiori autori di racconti del nostro tempo.
Non a caso, questo libro, pubblicato da Einaudi sul finire dello scorso mese di novembre, si presenta come una raccolta di singoli racconti accomunati però da quello che ha tutta l’aria di essere il medesimo io narrante, protagonista di una vicenda i cui tasselli sono episodi talvolta tragici e amari, talaltra quasi surreali.
“Stavo all’Holiday Inn da tre giorni, sotto falso nome, in compagnia della mia ragazza, sinceramente la donna più bella che avessi mai conosciuto, a farmi di eroina. Facevamo l’amore a letto, mangiavamo bistecche al ristorante, ci bucavamo al cesso, vomitavamo, piangevamo, ci accusavamo, ci imploravamo, ci perdonavamo, promettevamo e ci portavamo in paradiso a vicenda.” (da “Lavoro”)
Si rimane colpiti sia dal contenuto dei testi sia dallo stile narrativo dell’autore, e non sempre positivamente; in un primo momento, forse, addirittura spiazzati e spaesati. Per quanto mi riguarda, pur essendo un’appassionata di racconti e convinta sostenitrice del loro grande valore letterario spesso oggi snobbato da numerosi lettori, questi di Johnson non rientrano propriamente nel genere che preferisco e si discostano, solo per fare un esempio, da quelli di Nickolas Butler, altro noto autore americano contemporaneo, di cui, nei mesi scorsi, avevo letto e molto apprezzato la raccolta “Sotto il falò” (Marsilio, 2018).
Tuttavia, ho trovato almeno due racconti (“Matrimonio sporco”, dove si parla d’aborto, e “Beverly Home”), nonché diversi passi sparsi tra gli altri titoli presenti in “Jesus’ son”, di una profondità sorprendentemente disarmante che, d’un colpo, mi ha fatto rivalutare l’intera opera. Il senso della solitudine che sfocia nell’emarginazione, il peso dell’esistenza che cerca leggerezza nello sballo artificiale e nel sesso, la sofferenza di mucchi di umanità allo sbando emergono attraverso una scrittura che a tratti, per una inaspettata liricità, incanta. E fa molto riflettere.
“Sono salito su una carrozza mentre si chiudevano le porte; come se il treno stesse aspettando proprio me. E se ci fosse solo neve? Neve dappertutto, fredda e bianca, a riempire ogni distanza? E io che attraverso questo inverno seguendo il mio senso delle cose, finché non raggiungo un boschetto di alberi bianchi. E lei mi fa entrare.
Uno stridio di ruote, e d’un tratto ho visto solo le scarpe grosse e brutte degli altri passeggeri. Il rumore è cessato. Abbiamo oltrepassato scene di una solitudine straziante.
Attraverso i quartieri e oltre i marciapiedi delle stazioni, ho sentito la vita cancellata che mi sognava alle spalle. Sì, un fantasma. Una traccia. Qualcosa che rimane.”
Una lettura che, con buona probabilità, potrebbe non andare incontro ai gusti di tutti i lettori, ma non da rigettare in toto. Di certo, un autore da approfondire.