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INNOCENZA PERDUTA
”Il Signore delle Mosche” ha la semplicità e l’immediatezza narrativa di un romanzo d’avventura alla Verne (“L’isola misteriosa”) o alla Defoe (“Robinson Crusoe”), ma anche la lucidità e la profondità analitica di un saggio antropologico o di un esperimento scientifico. Se all’inizio è il primo aspetto ad emergere di più, rischiando erroneamente di far scambiare il romanzo di Golding per uno dei tanti esempi di narrativa per ragazzi, è in realtà il secondo a rivelare sintomaticamente le provocatorie intenzioni dell’autore: verificare cioè le reazioni e le conseguenze che possono essere innescate dal verificarsi di una particolare situazione limite, quella di un gruppo di fanciulli inglesi che viene strappato improvvisamente alla vita disciplinata del college e della famiglia e catapultato in un’isola deserta senza la presenza degli adulti, in una libertà totale e priva di limiti. Ad essere messo in discussione è innanzitutto il mito del buon selvaggio, ossia la teoria, largamente condivisa, che, nel contrasto tra natura e cultura, è la prima a garantire il più favorevole dispiegamento delle potenzialità umane. Nella realtà i ragazzi, abbandonati a loro stessi e costretti a lottare per la sopravvivenza, fanno gradualmente venire allo scoperto l’autentica natura dell’uomo, e purtroppo questa natura è quanto di più amorale, ferino e selvaggio si possa immaginare.
La presunta innocenza dell’infanzia viene smentita fin dalle prime pagine e i ragazzi, privi di ogni controllo esterno e con l’inebriante possibilità di far prevalere i loro istinti, finiscono per costruire una società che è la brutta copia di quella da cui provengono. Non c’è tanto nel romanzo una funzione pedagogica (del tipo, i ragazzi hanno bisogno della guida e del sostegno dei grandi), quanto un più generale ammonimento intriso di pessimismo: senza l’uso della ragione (che non è per nulla naturale ed innato, ma il prodotto di un’educazione, e quindi di un condizionamento) si rischierebbe facilmente che le relazioni umane cadano nelle spire autodistruttive della violenza e della prevaricazione. I diritti, i princìpi e i valori che noi oggi diamo per scontati sono infatti il frutto di faticose conquiste, e devono essere continuamente difesi da tentazioni irrazionali che di tanto in tanto, puntualmente, riemergono (è significativa in questo senso la vicinanza temporale del romanzo alla Seconda Guerra Mondiale), rischiando di far precipitare la Storia in un nuovo Medioevo (cui indubbiamente l’isola abbandonata allude).
Nel romanzo i ragazzi, come in ogni raggruppamento sociale, si dividono naturalmente in gregari e leaders, e questi ultimi a loro volta incarnano le due facce, perennemente in conflitto, del potere. Mentre Ralph è il capo democratico, rispettoso delle regole e della volontà popolare (simboleggiate dalla conchiglia, la quale è sia il simbolo dell’autorità sia il viatico per esprimere l’opinione individuale di ciascuno), Jack è il dittatore autoritario, abile nello sfruttare con cinica spregiudicatezza l’innegabile carisma che possiede e pronto a ricorrere all’uso della forza ogni volta che si tratta di far valere le proprie ragioni. “Da una parte c’era il mondo brillante della caccia, della tattica, dei giochi feroci e pieni di destrezza; dall’altra il mondo del senso comune, con le sue aspirazioni e con le sue delusioni”. Mentre all’inizio a prevalere è Ralph, e gli sforzi di tutti riescono ad essere convogliati verso il bene comune (la costruzione dei rifugi, l’accensione del fuoco), con il trascorrere del tempo è Jack, sempre più insofferente del suo ruolo subordinato, a prendere il sopravvento e a proporsi come guida della comunità, spostando gradualmente il baricentro dell’agire collettivo verso attività maggiormente legate agli istinti primordiali, come la caccia, le danze rituali e i sacrifici alle potenze misteriose dell’isola. Più in generale, il gruppo di ragazzi, che in principio ha come scopo precipuo quello di farsi salvare, si fa pian piano sopraffare dalle forze oscure dell’inconscio (la paura della Bestia) e, per proteggersi da esse, istintivamente abbandona la ragione e si abbassa a compiere le azioni più turpi. E’ esemplare a questo proposito la sorte riservata a tre personaggi secondari del romanzo: Piggy, Simone e Ruggero. Mentre i primi due, che rappresentano le istanze dell’intelletto e della spiritualità, diventano con la loro morte le vittime sacrificali della maggioranza accecata, l’ascesa del terzo esprime l’inquietante deriva violenta del potere, il terrore che segue ad ogni rivoluzione.
Golding racconta il suo apologo senza pedanteria e senza didascalismi, fa un uso accorto dei simboli e, soprattutto, non trascura mai le esigenze del racconto, il quale si sviluppa con una progressione continua ed incalzante, fino al folle orgasmo della caccia all’uomo finale. Pur nel suo schematismo narrativo e nella sua semplicità lessicale, “Il Signore delle Mosche” contiene delle acute riflessioni sul fascino irresistibile che le pulsioni irrazionali e dionisiache esercitano anche sugli animi che coraggiosamente vi si oppongono. Perfino Ralph, l’unico che fino al termine si sforzi di rimanere ancorato ai valori del vecchio mondo, è costretto infatti a confessare con vergogna di essere stato la notte prima ipnoticamente attratto dall’orgiastica danza culminata con l’omicidio di Simone. “Il Signore delle Mosche” è così uno di quei romanzi destinati a rimanere impressi nell’immaginario collettivo, perché, al di là dei suoi indubbi meriti letterari, riesce a mostrarci, in quel vero e proprio specchio deformante che è la narrazione in forma di parabola, l’eterno e immutabile substrato di violenza che, sotto la facciata di civiltà, tradizioni, abitudini e convenzioni, si nasconde dentro all’animo di ciascuno di noi.