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La via dell'inferno si percorre in solitudine.
Sono ventuno racconti che Bukowsky ha scritto quando ormai aveva passato la sessantina, viveva abbastanza agiatamente e si godeva una notorietà da scrittore “on the road”, più apprezzato all’estero che nell’America della recessione in cui aveva trascorso gli anni giovanili e forse meno ancora nell’America bigotta e benpensante del secondo dopoguerra. E’ un Bukowsky dalla scrittura meno “sporca”, più riflessivo, che sembra guardare dall’alto le banali vicissitudini dei suoi simili, noiose, ripetitive, contorte, minate dall’ipocrisia e da un’insulsa litigiosità. Dopo il racconto “Il figlio del demonio”, allorquando il padre manesco e autoritario l’aveva definito tale dopo una cruenta scazzottata del piccolo Charles con gli amici, ecco tutta una serie di racconti sulla vita grama dei barboni, sulle corse dei cavalli, sulle rivalità economiche tra giocatori di baseball, sulla boxe, sugli inconvenienti della notorietà e delle meschine beghe nel mondo dello spettacolo. Senza tralasciare mai la consueta bottiglia di vino rosso, compagna inseparabile e necessaria per fronteggiare notti insonni e incontri occasionali, e per stare veramente bene e in pace con sé stesso. Un Bukowsky maturo, che rinuncia in parte al linguaggio crudo di scrittore cinico e maledetto dei primi romanzi e descrive aspetti della società dei suoi tempi con ironia e sarcasmo. Del resto, nel racconto “Scrittori”, introduce nella vicenda la figura di tale Fottowsky (alter ego di Bukowsky stesso) che, in contrapposizione ad altri mediocri scrittori che invidiano la sua fama, afferma che essa è dovuta alla capacità di buttar giù sulla carta quello che si pensa, così, semplicemente e senza fronzoli. E, niente canzoni d’amore! Caro, vecchio, geniale ubriacone, che sta “particolarmente attento a non parlare di Dio”, perché “eterna risorge sempre la speranza, come un fungo velenoso” e la via per l’inferno, dove c’è sempre un sacco di gente, è meglio percorrerla in solitudine.