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Col corpo capisco, geniale a partire dal titolo
Shaul, ricercatore scientifico in crisi, a causa di una frattura chiede alla cognata Ester di fargli da autista. Tra i due non c’è mai stata molta simpatia, eppure il lungo tragitto, l’oscurità, l’intimità forzata della situazione, fanno in modo che l’uomo le apra il suo cuore, o meglio, la sua mente, perché tutto quello che racconta, è probabilmente frutto della sua fantasia. Il lettore avrà forti dubbi che il tradimento di Elisheva, l’adorata moglie, sia mai sia avvenuto realmente. Shaul, invece, ne ha l’assoluta certezza e indica nell’unica ora in cui la moglie si allontana da casa per andare in piscina, il tempo perfetto per il quotidiano tradimento con un certo Paul, un tale che dieci anni prima ha fatto irruzione nella loro cucina per questioni di lavoro e che da quel momento ha incarnato nella sua testa la figura dell’amante. Quando torna Elisheva ha ancora i capelli umidi, la sua pelle odora di cloro. Tutto questo, però, per Shaul è solo tecnica del nascondimento che si è affinata nel tempo.
Shaul ed Elisheva si ritrovano durante la notte in amplessi quasi inconsapevoli, quando i loro corpi, e le loro anime, liberi dal dominio della razionalità, posso finalmente esprimersi.
Ma la gelosia ossessiva del marito lo porta a vivere intensamente la relazione della moglie, a immaginarne i gesti, a provare sulla sua pelle le sensazioni dei due traditori. Il dettagliato racconto, durante il lungo viaggio che dovrebbe portarli a spiare la casa di vacanza di Elisheva (e quindi anche di Paul), tocca anche corde nascoste nella testa di Esti, la fa tornare a un rapporto mai dimenticato ma sommerso dalle incombenze quotidiane di moglie e di madre premurosa.
Ho trovato questo primo racconto geniale nell’impostazione ma un tantino prolisso, ripetitivo. Invece è solo assolutamente geniale il secondo racconto e il Il titolo, tratto da un brano, è già di suo un’invenzione straordinaria.
l sentimenti che accomunano i due racconti sono la gelosia e la consapevolezza che, in certe situazioni, attraverso la pura costruzione teorica, la mente e le sue le ombre prendono il sopravvento, facendo diventare reali i fantasmi che la abitano. Meglio affidarsi al corpo, ai sensi, che hanno una strada privilegiata per arrivare al nocciolo delle cose, alla conoscenza di sé e dell’altro.
La gelosia è anche, anzi sempre, desiderio di possesso. Un desiderio che forse è naturale in un figlio, biologicamente programmato per ricevere tutte le attenzioni di cui ha bisogno per crescere. Ma Nili è una donna che non si lascia racchiudere in un ruolo, è una donna che sente tantissimo e dà tantissimo, a tutte le persone con cui entra in contatto. La figlia Rotem questo non lo può accettare, e si arrocca sempre più nella sua solitudine, non si fa toccare dalla madre. A un certo punto della sua vita, quando finalmente si sente totalmente accolta da Melany, cerca di elaborare questo non-vissuto nei confronti della madre raccontando la storia dell’incontro tra Nili e Kobi, il quasi-sedicenne nei cui confronti Rotem ha sviluppato una gelosia ossessiva, così come lo immagina. Nili, malata terminale, riceve la visita della figlia che le legge questo racconto, la descrizione del rapporto tra il suo “rivale” e la madre. Cerca in lei conferme, ma Nili non le dà nessuna certezza. La madre sa che non è tanto importante l’elaborazione mentale che Rotem ha fatto di quella storia e la sua corrispondenza alla realtà, quanto il fatto che sia stata un mezzo per il loro riavvicinamento.
Kobi, narra Rotem, era stato affidato dal padre a Nili, insegnante di yoga, perché facesse di lui un uomo, forse pensando che lei fosse una specie di prostituta. Kobi, sedicenne flessuoso che ricorda “un principe egizio”, si avvicina alla disciplina come se avesse sempre fatto parte di lui, e Nili ne era rimasta affascinata. Aveva cercato di insegnargli a sciogliere attraverso gli esercizi i nodi e le tensioni muscolari che corrispondono sempre a un groviglio spirituale irrisolto, gli aveva trasmesso le sue conoscenze.
Nili ha qualche nozione teorica di yoga, ma è soprattutto all’intuito e al messaggio del corpo che si affida per la sua opera educativa.
“Io afferro le cose solo in modo intuitivo, …sono una sensitiva, non un’erudita…Sai, …a dire il vero non sono portata per le cose astratte, in generale lascio molto a desiderare sotto un profilo teorico. E anche sotto un profilo pratico –ammette con il solito sorrisetto- non riesco ad assimilare i fatti. Ecco, le cose stanno così. Poi tace, sbalordita. Ma per insegnar lo yoga, – domanda il ragazzo, sconcertato da quella confessione – non bisogna sapere queste cose? Queste massime? Sai, spiega lei con semplicità, quando eseguo un esercizio, capisco. Col corpo, capisco.”
Questo bellissimo personaggio ci insegna, se non lo sappiamo già, che di una persona si può conoscere molto più da una stretta di mano, da un abbraccio, da uno sguardo, da una notte d’amore, che non da mille incontri superficiali. Io lo credo davvero, e forse è proprio per la paura di scoprirci troppo che tendiamo a “mantenere le distanze” dalle persone che non ci piacciono, o che temiamo. Credo anche nel potere terribile della parola, ed è questo strumento che Grossman padroneggia magistralmente in questo racconto, immergendo il lettore nelle situazioni, nella palestra di yoga e di vita, e anche al capezzale di Nili. L’ultima parte, la descrizione del massaggio che l’insegnante pratica al ragazzo, è un incalzante crescendo di parole nell’avvicinamento tra i corpi dei due protagonisti ma anche del lettore verso l'essenza del libro, il centro del messaggio di Grossman. Alla fine della narrazione Grossman le fa dire a Rotem: “Sono così felice, …, che finalmente abbiamo parlato.”
Anche la parola è un pensiero che deve trasformarsi attraverso i sensi, con l’intervento del corpo, per poter arrivare agli altri.