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Sunto artistico di uno stile leggero
«La popolarità è la cuginetta zoccola del prestigio.»
Di recente sono stato al cinema. Il film che ho visto (una commedia nera imbevuta d'esistenzialismo), oltre ad offrirmi la frase d'esordio per questa recensione, ha stimolato le mie riflessioni sulla complicata e annosa relazione che sussiste fra la “ribalta” e i “retroscena” del sé; un rapporto coattivo studiato dai sociologi a cui ogni individuo mediaticamente influente è sottoposto. Ne seppe qualcosa Salinger.
J. D. Salinger (1919-2010) rifuggendo in modo estremo proprio da una popolarità e da una fama troppo scomode da sostenere, ha ottenuto di rimbalzo (effetto Streisand) una vera mitizzazione culturale. Quando poi il suo unico romanzo edito assurge a caposaldo della letteratura americana contemporanea, il passo dei lettori verso la mistificazione interpretativa è davvero breve (vedi Mark David Chapman). Per non trasformare il prologo di questa recensione in un mesto volo pindarico, mi affretto a precisare che il film a cui ho fatto riferimento offriva -allo spettatore letterariamente incolto- una luce attraente su tale Raymond Carver. Dove voglio andare a parare? Salinger e Carver sono gli artefici delle due più belle raccolte di racconti che la letteratura statunitense abbia offerto nella seconda metà del XX secolo. Una delle due è “Nove racconti”, 1953 (l'altra è “Cattedrale”, 1983).
Chiunque abbia letto “Il -tristemente tradotto in italiano- giovane Holden” ha forse trovato comodo, facile etichettare Salinger come un autore sopravvalutato (bollandolo di certo inferiore ai vari Cheever, Yates e compagnia bevente), ma tale atteggiamento svuota erroneamente lo scrittore della sua peculiarità oggettiva: quella dirompente freschezza espositiva mirabilmente tesa a velare e sgrassare al contempo (rendendoli così accessibili a tutti) un contenuto e una poeticità di prim'ordine; caratteristica tanto cara a fortunati scrittori che “sporcando” o “onirizzando” proprio quello stile rimangono a lui debitori (Bukowski e Murakami tanto per citare). Salinger ha fatto della leggerezza stilistica (del mostrare senza dire) un'arte, dimostrando al contempo che l'emulazione di tale stile non è affatto cosa semplice (il rischio quello di gigioneggiare).
Leggendo “Nove racconti” si può saggiare la maestria dello scrittore nel “dar vita” ai personaggi: i suoi appaiono caratterizzati a tutto tondo spontaneamente, sono autentici, di una nitidezza familiare che disarma. A chi parla di inconsistenza contenutistica voglio rispondere con due dei titoli della raccolta in questione: “Per Esmé: con amore e squallore” e “Teddy”. Narrazioni dove sbocciano amare le inquietudini della società e di un'intera epoca, narrazioni desolanti che mostrano fiere il disagio esistenziale dell'uomo di fronte alla guerra e alla fede; l'uomo che appare in quel ritratto quotidiano che ha per contrasti le belle illusioni dell'infanzia, illusioni incarnate nella figura dei “bambini di Salinger”, unici custodi della saggezza.
L'isolamento totale perseguito dallo scrittore (rifugiatosi nei boschi del New Hampshire e dedicatosi al buddismo prima e all'induismo poi) ha permesso di scorgere, per rimando, un amore puro e incondizionato per la scrittura, una dedizione per niente millantata ma invece sostanziata: prima dalle continue pubblicazioni sul New Yorker, poi dalla vasta produzione tutt'oggi inedita. All'ombra della disattenzione rimangono le scelte più audaci di Salinger, quali ad esempio l'ostinato desiderio di pubblicare le proprie opere esclusivamente con copertine bianche (affinché non venisse distolta l'attenzione del lettore dalla scrittura), o la continua lotta contro Hollywood per non svendersi. Gli amici della giovinezza (anch'essi scrittori) dicevano di Salinger che “a guardarlo da lontano si capiva che avrebbe pubblicato, che non era come tutti gli altri”. Dire che avevano ragione è superfluo.
“Nove racconti” è il sunto artistico di uno stile, quello di uno scrittore che, dopo averla sedotta, ha fatto l'amore con la scrittura in un modo viscerale. Salinger è forse l'unico esempio di uomo e di artista che ha tradito e ingelosito l'esistenza dei propri familiari preferendo ad essi un'altra famiglia, la sua famiglia letteraria, i Glass. Talvolta gli estremismi risultano ineffabili e nella tristezza di aver letto per intero l'opera già edita, consiglio (a partire proprio da questa raccolta) di approfondire la produzione di uno scrittore controverso che ha concluso la propria esistenza di uomo scrivendo esclusivamente per se stesso.
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