Dettagli Recensione
Risposta inadeguata e fuori tempo massimo
Else Lasker-Schüler è stata una delle più significative ma anche controverse letterate ebraiche della prima metà del XX secolo: se da molti è considerata la poetessa del popolo ebraico, Kafka (ad esempio) non poteva soffrire la sua poesia né la sua prosa. Visse sino al 1933 in Germania, facendo parte dei circoli intellettuali espressionisti e conducendo una vita bohémienne, per poi andare in esilio prima a Zurigo e quindi a Gerusalemme, dove morì nel 1945.
"Arthur Aronymus", uno dei testi in prosa di questa autrice più nota per le sue raccolte in versi, ben rappresenta, a mio modo di vedere, il senso di ambivalenza che la critica ha dimostrato nei confronti dell’autrice. Il volume edito da Sellerio che ho letto riporta anche un altro, breve racconto, La gatta rossa, che gli dà il titolo ma potrebbe essere considerato come un capitolo del primo, visto che ne ripropone l’ambientazione e l’atmosfera generale, non aggiungendovi nulla di significativo. Il racconto principale è anche proposto, in una traduzione diversa, da un volume della Letteratura Universale Marsilio, che ha il pregio di essere corredato da un imponente apparato di note e da un lungo saggio di Virginia Verrienti, sicuramente più pregnante della scarna nota di Marina D’Attanasio dell’edizione Sellerio, oltre che di riportare il testo originale a fronte. Per questi motivi consiglio caldamente l’edizione Marsilio.
Arthur Aronymus fu scritto nel 1932; tale data non è di secondaria importanza, nella mia interpretazione del testo, e vi ritornerò. Più tardi l’autrice vi avrebbe derivato una rappresentazione teatrale.
Il racconto narra dell’infanzia del padre della poetessa nel villaggio di Gäsecke, in Vestfalia, in una famiglia patriarcale ebraica. Arthur è uno degli ultimi di 23 (!) figli, è il beniamino del padre e soprattutto della madre, figlia di un rabbino capo della vicina Paderborn, che ha sempre ricercato la convivenza tra cristiani ed ebrei, da poco morto.
Nel racconto, che è impregnato di un lirismo aulico soprattutto nelle parti che descrivono la vita quotidiana della comunità familiare, i teneri rapporti tra i genitori e i figli e fra questi ultimi, gli avvenimenti sono filtrati dagli occhi del piccolo Arthur, che pure non è l’io narrante (è l’autrice che narra in prima persona), e di avvenimenti ve ne sono alcuni che assumono un ruolo centrale.
Il primo, con cui si apre la storia, è il racconto di un pogrom avvenuto quando il padre di Arthur era ragazzino, che egli narra ai figli una vigilia di natale. E’ un racconto molto crudo, nel quale Else Lasker-Schüler ci dice che i corpi dei bambini ebrei pendevano come confetti dagli alberi di natale del municipio di Paderborn, e che nei vicoli del ghetto erano sparsi tenere manine e piedini grondanti di sangue, come foglie vizze e morte.
Arthur viene poi invitato dal buon parroco Bernard in canonica a ricevere dei regali per il natale. Dopo una discussione, i genitori decidono di lasciarlo andare, e il piccolo Arthur è incantato dall’atmosfera di festa e dalle due nipoti del parroco: quando però una delle due tenta di rubare una delle palline colorate dell’albero, Bernard le dà uno scappellotto e la redarguisce così: "Ehi, non vorrai mica diventare una di quelle bambine ebree?" pentendosi subito. Arthur però viene ferito dalla frase e scappa a casa.
Qualche tempo dopo una delle sorelle di Arthur, Dora, si ammala del Ballo di San Vito e per questo il villaggio minaccia di metterla al rogo come strega. Il parroco Bernard propone al padre di Arthur di educare il figlio alla religione cattolica, per placare gli animi, ma questi rifiuta con dignità. Giungerà quindi una lettera dal vescovo di Paderborn ai parrocchiani, in cui li invita caldamente ad amare i fratelli ebraici e a distogliersi da pericolose superstizioni, e tutto rientrerà.
Infine, nell’ultima scena del racconto, il parroco Bernard e il vescovo di Paderborn visitano la casa di Arthur alla vigilia della Pasqua ebraica, trovando la famiglia riunita con sette poveri invitati per la festa. I due sacerdoti e il padre di Arthur concordano che ci vuole un po’ d’amore ed ebrei e cristiani spezzeranno insieme un solo pane. "Anche se è pane azzimo", chiosa la madre di Arthur nella (secondo me più azzeccata) traduzione di Virginia Verrienti. Lasker-Schüler propugna quindi una riconciliazione (Versönung) in cui le due culture riconoscono ed accettano le loro diversità culturali, basate tuttavia su una comunanza di sentimenti profondi.
Dico subito che il racconto sconcerta sia per l’atmosfera idillica che circonda la famiglia di Arthur (o meglio per l’atmosfera idillica che l’autrice le cuce addosso) sia per l’ingenuità della modalità di riconciliazione tra le due culture che propone, affidata come è a dei saggi che si incontrano su un terreno comune, quello della loro personale bontà. Virginia Verrienti, nel suo saggio in apertura del volume di Marsilio, ci informa che la possibilità della riconciliazione era del tutto assente in un altro racconto di Lasker-Schüler, "Il rabbi dei miracoli di Barcellona", cupo dramma su un pogrom catalano che si conclude con la vendetta di Javhé, e analizza dottamente le cause di tale diversità.
A mio avviso, però, non coglie l’elemento fondamentale che distingue i due racconti: le differenti epoche in cui sono stati scritti.
"Il rabbi dei miracoli di Barcellona" è del 1921, nel primo periodo della Repubblica di Weimar, e se anche l’antisemitismo era una componente storica della cultura germanica, credo ci fosse la speranza che la nascente democrazia avrebbe potuto espellerlo dal corpo della società: Else Lasker-Schüler può quindi scrivere un testo di denuncia, in cui mostrare che le forze oscure che animano l’odio razziale si ritorcono contro i suoi stessi propugnatori.
Molto diversa è la situazione nel 1932: non solo le illusioni democratiche stanno sparendo, ma l’antisemitismo è a un passo dal farsi Stato. E’ una involuzione inaudita, troppo pesante per darle una risposta razionale: non resta che rifugiarsi nel passato familiare, trasfigurarlo ed opporre al male che avanza una soluzione basata sulla buona volontà dei singoli. Sfuggono tuttavia a Lasker-Schüler sia le cause vere dell’antisemitismo, sia la necessità che il partito ormai pronto a farsi regime ha di alimentarlo per raggiungere i propri obiettivi di dominio. Nessuna conciliazione, nessuna Versönung sarà possibile, e la poetessa lo sperimenterà sulla propria pelle di lì a pochi mesi.
La debolezza intrinseca della tesi di fondo del racconto è quindi accentuata dal fatto che lo stesso è per così dire giunto fuori tempo massimo, in un periodo in cui l’autrice avrebbe dovuto capire di più e meglio. Forse, come detto, a sua scusante si può portare il fatto oggettivo che la realtà che stava vivendo era per larghi versi inconcepibile.
Resta comunque, nel lettore di oggi (che però – a differenza dell’autrice – sa quali furono gli sviluppi futuri) la sensazione di un atteggiamento consolatorio, di un rifugiarsi nel proprio guscio che non è del tutto adeguato ad una intellettuale che aveva vissuto in prima persona il clima culturale della Berlino degli anni ’20, molti esponenti del quale hanno cercato di dare, anche se invano, ben altre risposte alla barbarie montante.
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Loris