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L’angoscia nel mondo in guerra
“Più breve è ora il sonno del mondo più lunghe le notti e più lunghi i giorni. In ogni paese della sconfinata Europa, in ogni città, via, casa, stanza, il respiro quieto e sopito è più corto, agitato come in un’unica notte d’estate afosa e soffocante…”
La guerra, ossessivamente presente ove anche non si combatte, fa da sfondo alle vicende narrate in questi quattro racconti, ognuno dei quali, per certi versi, è capace di rappresentare le emozioni e le tensioni di chi, direttamente o indirettamente, vi è coinvolto. Il conflitto in questione è il primo grande scontro mondiale del secolo scorso, quello che solo in parte vide coinvolte le popolazioni belligeranti e che comunque rappresentò un salto stratosferico nell’orrore, quell’orrore che poi verrà amplificato da lì a pochi anni nella seconda guerra mondiale. Zweig, scrittore austriaco, poi naturalizzato inglese, è capace di interpretare angosce e dilemmi non tanto di soldati al fronte, ma di chi invece sta nelle retrovie, lontano dai tiri dei cannoni, ma che comunque, vuoi per l’aver dei familiari sotto le armi, vuoi per tenere ossessivamente presente la tragica realtà che su tutto incombe opprimente, finisce con l’essere preda di una tensione angosciosa che prepotente emerge dalle righe. Se nel primo brano (Il mondo senza sonno) che dà il titolo all’intero libro le pulsioni, gli incubi, per non parlare della serpeggiante paura occupa il tempo degli abitanti delle nazioni belligeranti, nel secondo e nel terzo si scende nei particolari, in singoli casi che, per la loro logica ripetitività, finiscono con l’essere il disarmante quadro di un mondo che ha preso a girare alla rovescia. Dalla genuina sofferenza del soldato russo disertore (Episodio sul lago di Ginevra), strappato già al suo mondo immobile e arcaico e catapultato in una realtà per lui incomprensibile, al dilemma del pittore (L’obbligo), ospite in Svizzera, fra l’obbedire alla chiamata alle armi e opporsi così a un omicidio legalizzato, sono affrontate tematiche non precipue di quel conflitto, ma di tutte le guerre. L’uomo militare non è più tale, è un essere indistinto in una massa, quasi una mandria avviata al macello, in preda alle sue paure e anche al suo senso di repulsione – almeno nella maggior parte dei casi – per la violenza, ma è anche quell’essere talmente imperfetto dall’avere una memoria corta, da ritornare sui campi di battaglia, una volta intervenuta la pace, per visitare con viaggi ben organizzati i luoghi dell’orrore (Ypres), senza pietà, ma solo con una abnorme curiosità di poter calcare la terra sotto cui giacciono tante vittime di guerra. Non c’è scoramento, c’è solo spazio più che per un pellegrinaggio in memoria, per una gita turistica. Zweig sembra dirci che, nonostante tanti buoni propositi, non è cambiato nulla e che quindi gli orrori di uno scontro si possono ripresentare, come in effetti é. L’autore si dimostra particolarmente abile nel descrivere l’angoscia derivante dall’oppressione di un evento che cambia radicalmente il modo di vivere di ogni essere umano, che profonde a piene mani incertezze, che toglie ogni possibilità di predisporre progetti, apparendo l’esistenza più che mai appesa a un filo sottile che di giorno in giorno tende ad allungarsi fino al punto di rottura. Non è la paura per una malattia, che in fin dei conti può essere attribuita al fato, ma è il timore di un domani senza speranze, è anche la sfiducia in un sistema, in una società i cui capi non esitano a metterne il gioco il futuro per spesso incomprensibili motivi.
Si tratta di un libro interessante, a cui nuoce solo la tipica grevità degli scrittori mitteleuropei della prima metà del secolo scorso, ma è indubbia la validità del messaggio portato, è palpabile il senso di sgomento, tutte qualità che mi inducono a consigliarne la lettura.