Dettagli Recensione
Poco pathos, tanta psiche
In questo periodo, ho avuto modo di leggere diversi romanzi di Hakan Nesser. Questo è quello che mi è piaciuto meno.
Solitamente un romanzo giallo adegua il punto di vista del lettore a quello del detective: i due viaggiano insieme e condividono la propria conoscenza. Man mano che la polizia delinea la verità, anche il lettore apprende.
Qui non avviene così: la scelta di utilizzare un narratore esterno onniscente toglie ogni suspance: chi legge, infatti, scopre gli accadimenti in tempo reale, ne sa di più rispetto all’ispettore Barbarotti ed al suo staff. Questo rende, a mio avviso, il tutto un po’ noioso. La parola che meglio di altre delinea il quadro è “piatto”. Senza spessore. Forse ciò dipende dal fatto che Nesser ha deciso di dare la priorità ad altre questioni: ciò che passa nella testa dei personaggi, ad esempio. E lo fa con addirittura troppa cura: tanta attenzione a pensieri non certo sensazionali, finisce ulteriormente per rallentare il ritmo.
Sicuramente è impossibile non provare empatia con Valdemar, sessantenne annoiato dalla vita e considerato una palla al piede. Questa figura fa provare una sorta di amarezza: si capisce che è una persona per bene e i suoi occhi tristi richiamano alla mente tutte le volte che anche noi ci siamo sentiti un po’ inutili e soli.
La tossicodipendenza di Anna avrebbe dovuto avere, a mio avviso, più spazio all’interno della narrazione: della droga si parla relativamente poco. E credo di non aver mai sentito di nessuno che viene sbattuto in comunità per qualche canna.
Il finale aperto conferisce al romanzo quell’alone di mistero che è mancato nelle precedenti 400 pagine. Un po’ tardi, considerando che la presenza di enigmi è – solitamente – la caratteristica che regala verve ad un buon giallo!
Indicazioni utili
- sì
- no