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Voci dalla memoria
Chi parla “a schiovere”, a Napoli, è uno che interviene in modo inopportuno, inappropriato, fuori contesto, a ruota libera, come certi temi o articoli senza né capo né coda. La locuzione descrive la pioggia che cade di traverso a causa del vento, quella pioggia da cui non ti puoi riparare neanche con l’ombrello, che anzi rischia, se lo tieni aperto, di “smerzarse” e di rompersi. E pensare che “schiovere”, in poeti classici come Di Giacomo, voleva dire "cessare di piovere" e oggi l'adoperiamo anche in questa seconda, opposta accezione: “Marzo: nu poco chiove/ e n’ato ppoco stracqua:/ torna a chiovere, schiove,/ ride ‘o sole cu ll’acqua” ("Marzo: un poco piove/e un altro poco cessa di piovere:/torna a piovere, spiove, /ride il sole con l'acqua"). E’ la centounesima voce, l’ultima, di questo glossario che De Luca ci propone, proseguendo una riflessione linguistica cominciata con “Napolide”, e il suo significato si allarga fino a diventare una personale concezione della vita, già in precedenza paragonata alla pallina di un flipper destinata a sbattere qua e là in maniera sconclusionata, senza mai trovare ancoraggi sicuri e stabili.
Da sottolineare l’equilibrio con cui l’autore sa valutare, senza stilare inutili graduatorie, questo suo “bilinguismo”, la compresenza in lui dell’italiano, lingua lenta di parole piane, e del napoletano, sbrigativo e di parole tronche, quelle verso cui si rivolge proprio per questo l’attenzione odierna di rappers e trappers, che lo vedono in ciò più simile all'inglese e più adatto ai loro ritmi.
Dietro ciascuna delle due lingue campeggiano le figure genitoriali: il padre, che gli schiude innanzi, con l’ italiano dei libri e della cultura, più ampi orizzonti di pensiero, la madre, che gli trasmette col dialetto la possibilità di un linguaggio nativo, intimo, proprio di una comunicazione originaria, intrisa di memorie ancestrali. Nel discorso di De Luca riecheggiano note pasoliniane, quando sembra di capire che anche per lui conservare questa prima lingua significa sfuggire all'omologazione culturale, a quella che oggi definiamo globalizzazione (ma considerazioni analoghe valgono, secondo lui, per l’italiano nei confronti dell’inglese).
Le voci dialettali che compongono questo dizionario dell'anima presentano, secondo l’autore, il limite di essere oggetto di scrittura e di essere perciò prive di componenti essenziali quali l’emissione di fiato, il suono che le accompagna, i gesti che ne modificano di volta in volta il significato, ma tracciano comunque un'autobiografia fatta di scorci e frammenti.
Ecco dunque le parole, le locuzioni, i proverbi adoperati e trasmessi dalla figura materna, cui si affianca quella della nonna, spesso accompagnati da sapidi aneddoti familiari, come quel nipote “traseticcio” (persona dotata di petulanza e faccia tosta) che la nonna stessa, sfinita dopo un’ interminabile visita, invita con un’altra espressione partenopea, ad andare via : ”Mo’ te n’ia i’”, "Ora te ne devi andare"(riporto il napoletano di De Luca così com'è scritto, pur non condividendo del tutto le sue soluzioni ortografiche: ma a Napoli, quando si tratta di scrivere in dialetto, nessuno è d’accordo con nessuno, si vive in una diffusa anarchia). De Luca è attratto spesso dalla struttura, dalla forma stessa delle parole e il verbo “i’” (andare, dal latino” ire”) costituisce per lui un primato mondiale di velocità e brevità, come “ammore” un rafforzamento di questo sentimento primario, “primma” e “ doppo” un'accentuazione della semplice idea del prima e del dopo.
Tra i ricordi della lunga coabitazione con la madre, l’autore annovera il costante bisogno di calore di quest'ultima, quando, nel freddo dell’inverno, invocava una “vrenzola 'e sole”, un piccolo raggio di luce che la riscaldasse. Parola ben lontana, “vrenzola”, dal successivo slittamento semantico che ai giorni nostri, in…neo-napoletano, l’ha condotta a contrassegnare piuttosto una figura femminile grezza e maleducata, come tempo addietro era capitato alle “vaiasse”, le serve di Giulio Cesare Cortese nella Vaiasseide, divenute nel tempo donne volgari e sguaiate.
Altre parole alludono a momenti di formazione e di educazione familiare, come quando l'io narrante viene esortato a non “frusciarse” troppo (“vantarsi”): una lezione di umiltà espressa con un verbo ancor oggi usato contro chi si compiace fin troppo di qualche sua dote o si fa troppo pretendere. A volte i lemmi fanno riferimento o vengono applicati da De Luca alla realtà sociale, come quando ravvisa negli anni settanta, ed in particolare nelle lotte dei disoccupati organizzati, un esempio di ”arteteca”, una febbre reumatica che provocava spasmi ed esuberanza motoria, che si tradusse allora metaforicamente in un incessante movimentismo di piazza. Altre volte l’autore si lancia in fulminanti sintesi storiche e antropologiche: così il verbo “spantecà” (spasimare) supera i confini del linguaggio amoroso tipico della canzone, per diventare la cifra di un’intera città perennemente irrequieta, insoddisfatta, desiderosa di un futuro diverso cui aspira ma che non riesce a raggiungere, la costante di un popolo “scarpesato” , calpestato, oppresso da ingiustizie, invasioni, sopraffazioni, anche se capace di ribellarsi con qualche improvviso “arrevuoto”, da Masaniello alle Quattro Giornate. Alcune voci vengono dal passato e sono forse obsolete, ma nella mente dello scrittore quella sensazione di secchezza che gli ricacciava il fiato in gola quando soffiava lo scirocco si associa… proustianamente al suono del termine” bafuogno” (ma nella mia famiglia era frequente l’espressione “tengo 'a cimma 'e scirocco”, per indicare una condizione di particolare nervosismo, durante la quale era preferibile non accostarsi troppo al genitore che ne era investito: ricchezza lessicale del napoletano! N.d.A.). Né mancano infine citazioni dalla letteratura e dal teatro, in particolare da Eduardo, di cui viene riportato il noto incipit di Natale in casa Cupiello per spiegare l’imperativo “scètate”, in alternanza con “sùsete”: “Lucarie’, scètate songh’e nnove”. E sembra di vederla la successiva svestizione di Eduardo dai numerosi… strati di panni con cui invano aveva cercato di “prendere “calimma” ("calore") durante la gelida notte prenatalizia.
Un saggio in forma di dizionario, questo di De Luca, che riesce piacevole e induce ad una riflessione sul modo in cui ci esprimiamo, in tempi in cui la forza tenace del dialetto sembra nuovamente riproporre le proprie ragioni, specialmente nella città in cui è ambientata una parte significativa dell’universo letterario e saggistico di questo scrittore. Diretto dunque ai napoletani che ne possono più immediatamente fruire, ma rivolto a tutti gli innamorati di quella espressività sorgiva, originaria, forte, cui il dialetto può attingere per contrastare la tendenza da tempo in atto verso un idioma “semplificato e convenzionale”.