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Dieci piccoli indigeni
Questo, che è uno dei primi testi editi dallo scrittore ischitano, napoletano per estensione, Andrej Longo, è esattamente quanto indica il titolo, un decalogo.
Un insieme di dieci racconti, ognuno dei quali prima si intitola, e poi si ispira, a ciascun punto del dettato evangelico, la serie dei dieci Comandamenti dati da Dio a Mosè per il popolo ebreo.
Applicato però alla prosaica realtà napoletana, e per estensione a quella di qualsiasi altra location analoga per disgraziato vissuto e difficili condizioni di vita; in sintesi questi perspicaci racconti di Longo, tutti brevi, incisivi e raccolti, per una lettura agile di un libro di non molte pagine illustrano, a saperli leggere, una serie di precetti fondamentali purtroppo da osservare in determinate condizioni o attività.
Un decalogo quindi assai distante dalle idilliache intenzioni teologiche, ma non per questo i dieci comandamenti in salsa partenopea esprimono precetti meno veritieri, anzi enunciano un dettato che rispecchia fedelmente ciascun verso di quelli incisi sulla pietra a lettere di fuoco, dati da Dio sul Sinai.
“Dieci” non ha nulla di biblico, qui non si racconta del Paradiso in Terra, piuttosto si narra di una terra da paradiso, in cui però qualcosa non gira per il verso giusto, e stavolta non per colpa degli Adamo e Eva, i residenti dell’Eden non hanno colto alcun frutto proibito, è che in mancanza di adeguati strumenti, scuola, lavoro, famiglia, opportunità e adatte condizioni esistenziali, nessun paradiso in terra darà buon frutto, e senza frutti dilaga la miseria e la fame, e le malevoli azioni conseguenti.
Dieci comandamenti, dunque, esattamente quelli delle tavole della Legge date a Mosè per la salvezza degli uomini, adattate però come detto alla realtà napoletana, attualissime ancora oggi anche a distanza di anni dalla sua pubblicazione, semplicemente perché rispecchiano la realtà nuda e cruda.
Una realtà immutabile da tempo immemorabile perché certe discutibili situazioni, alcune oscure ingiustizie, le violenze manifeste, le iniquità evidenti, le sopraffazioni dilaganti, in una parola le mafie locale, la camorra o come dire si voglia, sono endemiche in certi territori sussistendo certe volute congiunture politiche e storpiature sociali di comodo, come la miseria fisica e morale, al pari passi della mancanza di regole, di supporti sociali, di opportunità, di lavoro, nell’assenza più assoluta delle istituzioni proposte. Soprusi, angherie, torti, abusi sono radicati in ogni dove e non solo nel territorio napoletano, allorché sussistono certe situazioni di sfascio e di degrado; Longo ci racconta qui dell’habitat napoletano perché è quella a sua immediata portata, ma sono dogmi universali, come ogni buona religione che si rispetti. Puoi sarchiare per benino la vigna del Signore, tuttavia i campi più fertili, allorché sono invasi dalle erbacce cattive, necessitano di aratura profonda, ogni tentativo di risolvere o porvi rimedio, per essere efficace, deve essere incisivo, andare alla radice della gramigna e troncarla con decisione.
Radere le erbacce in superfice è una manovra di facciata, un’operazione di maquillage che lascia il tempo che trova, la malerba poi ricresce, magari anche più folta, dilagante e soffocante.
Andrej Longo non enuncia il suo decalogo per la salvezza del genere umano, fa ben altro, declina i dieci comandamenti ognuno nei suoi aspetti pratici, porta degli esempi, racconta degli episodi eclatanti a cui il dettato biblico si attiene alla perfezione, manca però un Messia da invocare, sperando che arrivi quanto prima ad immolarsi per la salvezza del genere umano.
In assenza di un deus ex machina l’umanità, e una bella umanità, bisogna dirlo, unita, concorde, solidale e compartecipe, descritta con incisività e crudezza da Andrej Longo, costituita da persone semplici, naturali, genuini, uomini, donne, bambini, tutti indigeni dei luoghi, si salverebbero benissimo da soli se solo gliene fosse concessa l’opportunità.
In questo senso, allora, “Dieci” racconta di dieci piccoli indigeni, dieci protagonisti di varia età e genere, piccoli perché intesi nella loro assoluta normalità e semplicità, potrebbero essere persone che casualmente potremmo incontrare ogni giorno, nativi dei luoghi e che di quei luoghi vorrebbero essenzialmente goderne le bellezze fisiche e morali che offre, viverci e lavorare tranquillamente ed in pace, in empatia e sodali con i propri simili.
E sono riportati davvero bene: Longo ha una scrittura deliziosa, una voce garbata e rispettosa che riporta letteralmente quanto vede, stretta, stringata, senza fronzoli, diretta.
Con toni e accenti dei luoghi, termini dialettali, suoni e melodie, stridori ed onomatopea, Andrej Longo trasporta chi legge a vivere i dieci comandamenti nelle strade più tradizionali di Napoli, gli fa vivere i vicoli e i quartieri, non chiede alcuna assoluzione, fa da sacrestano, un passo indietro all’altare, lascia che siano i fatti così come accadono a parlare per lui al lettore.
Il lettore allora si avvede che Caifa, i sacerdoti, i farisei o chi per loro condannano i dieci piccoli indigeni, i protagonisti dei singoli racconti, che ad uno ad uno soccombono, fin che non ne rimase nessuno…in stile Agatha Christie.
Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me, è attributo del locale boss della camorra, a cui un giovane di sani principi, ben deciso a tenersi alla larga da certi traffici delinquenziali, deve però prestarsi per salvaguardare la propria giovanissima fidanzata da una grave violenza.
Non pronunciare il nome di Dio invano, perché potresti essere chiamato a renderne tristemente conto, ed è quanto succede ad un giovane cantante di quartiere, oggi diremmo un neomelodico, che non si accontenta più di cantare ai matrimoni ed alle feste di paese, per la carriera e la cieca ambizione si presta ai servizi di malavita, per poi restarne drammaticamente invischiato.
Ricordati di santificare le feste, ed in famiglia possibilmente, ma come è possibile farlo per un onesto lavoratore, coniugato e con figli, costretto dal bisogno a lavorare ben lontano da casa e farvi ritorno solo poche ore al mese, perdendosi la vita, le feste, la famiglia e la gioventù in uno stringato pendolarismo da fame?
Onora il padre e la madre, e uccidine uno se te lo chiede per bieca e dolorosa disperazione.
Non uccidere, è quanto raccomanda un killer della camorra al figlioletto che desidera seguire le orme del papà. E via così per gli altri cinque comandamenti, fino all’ultimo.
Nessun cantico delle creature, qui ci sono solo povere creature che cantano una elegia della loro esistenza, una poesia di come vorrebbero la vita, o come potrebbe essere o essere stata, e com’è in effetti. Andrej Longo ha scritto di Napoli, dei suoi quartieri più vivi e più popolari, e nel contempo ha dato voce a tanti, troppi che voce non hanno, e che possono solo sussurrare le loro giaculatorie in clandestinità, in silenzio, quasi come ai tempi delle catacombe.
Sperando che qualcuno li ascolti: ma il cielo, spesso, troppo spesso, non risponde.