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La grande abbuffata
Siamo quello che mangiamo: mai frase risulta meglio indovinata per sintetizzare quanto parte abbia il cibo nel corso della nostra esistenza.
Mangiare non consta solo nell’atto di nutrirsi: significa appartenere al luogo dove ci si sfama, carpirne gli umori, le essenze, la storia, gli influssi sui popoli e sulle persone che quel cibo hanno prodotto, coltivato, curato, spesso inventato di sana pianta, per soddisfare il più elementare dei bisogni primari.
Ben lo comprende Erri De Luca, lo scrittore napoletano scarno, asciutto, dismesso ed essenziale tanto nella sua prosa che nella sua persona, con una costituzione fisica, un incarnato che sembra visivamente disconoscere al cibo una soverchia importanza.
Invece, il mingherlino De Luca restituisce al cibo tutto il suo valore nutriente, lo scrittore napoletano è persona tanto essenziale quanto sensibile, è un poeta sotto una scorza di montanaro riarso, sa ascoltare attentamente le emozioni della vita, finanche le suggestioni che può trasmettergli un semplice tocco di pane, recepisce appieno il senso di quanto porta alla bocca, a piccoli pezzi o forchettate di maggiore raccolta, il cibo racchiude intrinsecamente non una ma tante storie, racconta di sé e di come è arrivato sulla nostra tavola, narra la fatica, il lavoro, il dono, la gratificazione, e tutto questo e altro ancora l’autore ce lo riporta pari pari, rimestando nel calderone dei suoi ricordi, del suo vissuto, del suo peregrinare.
Ci offre la manna della sua scrittura.
A spizzichi e a bocconi, che letteralmente vorrebbe dire dapprima in maniera frammentaria, disorganica, disordinata; senza sequenza logica. Anche stentatamente, a fatica, poco per volta, ma poi le parole si susseguono, formano frasi, diventano porzioni sempre maggiori, si aggiungono resoconti, racconti, informazioni. Erri De Luca riporta la voce del cibo, non il chiacchiericcio che il o i commensali si scambiano tra sé e tra loro tra una portata e l’altra attorno al tavolo, i suoi sono pensieri e riflessioni proprio intrinseci al cibo e alla valenza umana di questo.
De Luca ci apparecchia qui una grande abbuffata, di quelle che allietano e non stordiscono, un pasto deliziosamente pantagruelico ma leggerissimo, che scivola via lasciandoti in forma, di cui non si riesce mai a saziarsi del tutto, la sua penna fa opera pregevole anche di un argomento semplice, lo fa lievitare naturalmente, fino a farlo crescere e divenire narrativa piacevole a gustarsi, pur utilizzando comunque lo stile asciutto ed essenziale che da sempre contraddistingue l’autore.
In sintesi, De Luca in ogni suo vissuto assorbe e nutre fisico e anima con i prodotti del luogo, a chilometro zero, e ne scrive:
“…In una città che visito per la prima volta assaggio l’acqua di una fontana pubblica e il pane di un forno. Sono le credenziali del luogo. Ogni posto distilla la sua acqua e ha le sue notti per cuocere l’impasto.”
Il protagonista di questo libro, l’eroe della storia, è proprio lui, il cibo.
Il cibo che è storia, è dono, è miracolo, è vita.
Intendiamoci allora chiaramente, qui malgrado gli interludi di un nutrizionista che lo affianca a capitoli alterni, non si parla di diete o di filiere alimentari, di calorie e ingredienti, De Luca scrive solo di sentimenti, il cibo è l’innesco della memoria e lo stimolo al raccontare e raccontarsi.
Allora i capitoli si snodano, uno dietro l’altro De Luca rievoca piatti e ricordi della propria infanzia:
“…La domenica andavamo a pranzo dalla mamma di mamma, nonna Emma… Il nostro arrivo a mezzogiorno in anticamera era accolto da un grido di ragù dritto nel naso…”.
Volete che nei trascorsi gastronomici di un napoletano non venisse citato il ragù, il re dei pranzi domenicali napoletani, quello più volte celebrato da Eduardo; e poi anche altri piatti tipici partenopei, i friarielli, la cianfotta, i peperoni ‘mbuttunati, il casatiello, la pastiera…
Poi più avanti negli anni, altra vita, altra storia, altro cibo di tutt’altro genere a scandirne i giorni, i cenoni di Natale del tutto diversi dalle consolidate antiche tradizioni familiari, trascorsi stavolta magari in osteria, seduti a tavolacci sbilenchi insieme agli amici operai compagni di lavoro e di militanza politica, o da solo in una sperduta baita in alta montagna, rallegrata da una visita inaspettata con cui condividere lo scarso cibo e l’abbondante umanità.
Quasi in sottofondo, si ode la voce del coautore, il nutrizionista Valerio Galasso, che con rigore scientifico e l’entusiasmo dell’appassionato ci spiega sia i cibi che il loro significato alimentare, si relaziona con quanto ha appena detto De Luca nel capitolo immediatamente precedente al suo intervento, indaga come nutrizionista con tutto quanto a “spizzichi e bocconi” ogni giorno interagiamo, e insieme ci insegna senza parere a nutrirci in modo più semplice e sano, responsabile.
Siamo quello che mangiamo, dunque, e anche se non mangiamo è significativo, significa che sussiste un problema, una guerra, una difficoltà, una tragedia, ma di quelle vere.
In definitiva, una bella lettura, agile, veloce, spedita: Erri De Luca è un artista di profonda umanità, e anche stavolta si occupa dell’Uomo, di genti, di collettività, perché il cibo, a piccole dosi o a grandi portate comunque possiede un sapore, dolce, amaro, irritante, delicato, esattamente come mille sapori ha la vita. Che va assaporata, a spizzichi o a bocconi, perché ne vale la pena,
Sempre, senza temere che ci faccia male, o ci faccia ingrassare.
La vita, come il cibo, va assaporata, nutre, ci fa crescere.
Sta a noi farlo bene, scegliere le pietanze giuste, gli ingredienti genuini, le dosi esatte, mangia come vivi e vivi come mangi.
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