Dettagli Recensione
Terra emersa
Questo è un testo datato, breve per i canoni odierni ma non per quelli dell’epoca della sua prima pubblicazione, redatto in un parlato, uno stile di scrittura adatto ai suoi tempi, ma che conserva ancora adesso una compiuta piacevolezza, comprensibilità e fluidità di lettura.
È un testo semplice, agevole, accessibile ad ogni lettore, un vero pezzo di bravura per la scorrevolezza delle pagine, ed insieme un caposaldo di cultura, una perla del neorealismo.
Tratta di un argomento ancora oggi drammaticamente attuale: la disparità economica, politica e sociale dannosa a tutti, la miseria e l’arretratezza prima culturale, e poi anche materiale, di ben precisa realtà territoriali: Napoli, nello specifico, e tutto il nostro sud con lei, ma il discorso è profetico e lungimirante, si applica benissimo oggi a tutti i sud del mondo, con le problematiche annesse a arretratezza economica e culturale, e quindi migranti e profughi a forza.
La prima, e subito fortunata, edizione, risale ad oltre mezzo secolo or sono, mantiene tuttora il proprio segno distintivo, è un testo intenso e dolente, lancinante e vigoroso, eppure fortemente suggestivo e ammaliante, oserei dire un’icona amara della serie “vedi Napoli e poi muori”.
Scritto da una autrice notissima, con all’attivo importanti premi letterari, che napoletana non è, anche se con Napoli ha intessuto e mantenuto fino alla fine affetto, vincoli e legami, ma ciò malgrado ha saputo descrivere, come pochi altri, nei singoli racconti che compongono l’opera, la città e la sua essenza.
Soprattutto ha espresso minuziosamente l’orrido ed il bello, l’inferno ed il paradiso, il substrato esistenziale intimo di quella particolare specie umana, eterea e corporea insieme, rappresentata dal suo popolo, si badi il suo popolo, non i suoi abitanti, è una realtà ben diversa con caratteristiche peculiari quella di coloro che vi nascono e la vivono con piena napoletanità.
Quello che l’autrice descrive, è la miseria e la povertà di Napoli nell’immediato secondo dopoguerra, il degrado dei quartieri, e la ristrettezza del vivere dei suoi abitanti, costretti in spazi angusti che non sono solo fisici e di ambienti, ma carenti di civiltà, cultura, modernità, prospettive e sviluppi, mai per propria colpa, anche se la consuetudine sofferta muta presto in noncuranza, che è qui una forma di difesa più che di rassegnazione.
Un libro che è anche, se non soprattutto, un preciso atto di accusa, non a caso il racconto iniziale parla di miopia, anzi peggio, di cecità, perché ciechi, o meglio ancora indolenti, pronti a volgere altrove lo sguardo sono in tanti, pubbliche istituzioni in primis, fino via via a scendere per coinvolgere colpevolmente anche gli stessi abitanti e gli intellettuali che dovrebbero invece educare e stimolare il popolo a scrollarsi di dosso una volta per sempre stereotipi, false credenze e depauperamenti di ogni genere.
Un libro amaro e di denuncia alla Eduardo, solo che il grande commediografo napoletano esternava il malessere e l’iniquità dei suoi natali con un riso amaro, la Ortese offre solo un vissuto reale quanto amaro, senza alcun riso.
Serve indossare un paio di lenti, di quelle buone, che non solo ingrandiscono, ma restituiscono una visione accurata nei particolari, senza ombre, opacità, sfumature, per captare la sofferenza e il disagio sociale, una realtà ben diversa da come tanta iconografia l’ha sempre riportata, quella con il sole, il mare la pizza e i mandolini, e chi ha avuto bene, gli altri si arrangiano benissimo: una menzogna colossale.
Tutto il libro riporta l’effettivo stato della città, un’esistenza vissuta con difficoltà e dolore, una condizione indecorosa inaccettabile in un qualsiasi moderno contesto civile.
Anna Maria Ortese si specchia nella città, non è la sua ma senza difficoltà si rivede in essa, lo specchio rimanda specularmente la propria anima lacerata da lutti e tragedie personali, ma non solo, come quella la scrittrice come farebbe chiunque altro prova a riprendersi, a rialzarsi, a far buon viso a cattivo gioco, ma invano, sono tanti, troppi, quasi perenni i giochi che non vanno a buon fine, anche se con forza d’animo encomiabile si ostina non per cieco ottimismo ma per logica, benché sofferta, e costruttiva accettazione, a rivedere le cose con “occhiali nuovi”.
Anche se gli stessi, semplici e di poco prezzo, sono ricevuti in dono, perché inaccessibili a chi non ne ha i mezzi, ma un dono forzato, fatto calare dall’alto da chi può, che costretto giocoforza a concederlo lo fa pesare al destinatario, umiliando e instillando insicurezza e sensi di colpa, e perciò presto inconsapevolmente bistrattati, malridotti e tenuti insieme da nastro adesivo.
Comunque, apprezzati e ben accetti, a capo chino e vergognoso rossore in volto, ma con sincera riconoscenza, sempre gli ultimi e gli umili di cuore provano gratitudine imperitura anche per un minimo di attenzione, e incredibilmente ritrovano il sorriso.
Non covano acredine, ma si sentono in obbligo, non si macerano nel livore del beneficiato, non criticano l’alterigia altrui, ma ne ravvisano cocciutamente pregi pur se inesistenti, sentendosi invece essi stessi immeritevoli di tanta dedizione.
Un simile atteggiamento, un farsi bastare una lieve brezza per intendere primavera, è spesso scambiata per ignoranza e relativa supponenza, inoperosità, indolenza, sembra che basti una giornata di sole o il mare azzurrissimo che abbraccia la città, perché sia tutto a posto, un lieto vivere che non necessita d’altro.
Meno che mai di strutture pedagogiche, sociali, laboriose e produttive, ritenute superflue.
Niente di più errato: Anna Maria Ortese sa che ben altra è la realtà, il mare non bagna Napoli, non l’ha mai lambita, è un falso storico e geografico. Diffuso ad arte.
Vedere il mare da Posillipo con un paio di occhiali non permette di vedere solo il bello che appare, ma anche quello che prima non appariva, e che troppo spesso soverchia il bello.
La verità ha spesso molte facce e visioni distorte, ma esistono lenti progressive, bifocali, accomodanti che ricompongono l’immagine nella sua interezza, senza omettere alcun pixel.
Quella città e la sua umanità sono piuttosto una terra emersa da un pelago, un’acqua profonda di sopraffazione, di ingiustizie e angherie, di vessazioni e soverchierie.
Partenope e i partenopei quelle acque provano a scrollarsi di dosso quotidianamente, a fatica, sempre restano le vesti impregnate dall’umido, ma non desistono, si ostinano ad asciugarsi al sole, in mancanza di altro, anche quando il sole non c’è, al limite se lo inventano, se lo disegnano con tratti lievi, accettano con leggerezza anche macigni pesanti, perché la loro indole è questa, ciò che ferisce insegna, magari insegna solo ad accelerare la cicatrizzazione delle ferite per passare ad altro, ma è già tanto, spesso è tutto.
Sono un esempio mirabile e cristallino di resilenza, resistono da sempre agli urti violenti, prepotenti, iniqui, derivanti da secoli di invasioni, occupazioni, usurpazioni, dominazioni e sfruttamento delle genti e del territorio. Anche da colori che stranieri e forestieri non sono, anche dai nativi, paradossalmente finanche dai nativi detentori e gestori della cultura locale, pertanto insigniti di una specifica opportunità di diffusione e crescita morale indispensabile requisito propedeutico a quella materiale, che invece ricadono anche loro nello scetticismo dei luoghi comuni.
Tutto quanto appena detto è platealmente edotto da subito già nel primo dei racconti del volume, appunto "Un paio di occhiali", protesi indispensabili per la vita della piccola protagonista, eppure un ostacolo tanto semplice quanto a prima vista insormontabile che si frappone al normale processo di crescita e maturazione della bambina, quasi fosse una piccola aliena al comune vivere civile.
Sulla stessa falsariga, i difficili rapporti interpersonali allorché mediati da assurde difficoltà solo in apparenza insormontabili sono l’argomento di "Interno familiare".
Seguono poi "Oro a Forcella": dove può un diseredato procurarsi una somma per quanto misera, se la sua unica ricchezza sono i ricordi? Poiché per un senza mezzi, i pochi miseri gioielli, le uniche ricchezze possedute altro non sono che ricordi, non gingilli di ostentazioni ma straordinario memento degli unici, memorabili momenti di quiete dell’esistenza, una nascita, un battesimo, ecc.
Sono solo miseri ricordi, per quanto ori di bassa lega, e questi, e solo questi, si può solo immaginare con quale strazio, si possono portare, per soddisfare bisogni primari, necessità elementari, ad impegnare presso il Monte dei Pegni del “Banco di Napoli” in via San Biagio dei Librai, una nota via del centro storico.
Talora, ci si sistema in fila anche senza ricordi, ma con presunti tali: la disperazione ha molte storie da proporre, se non reali, significative. Consuetudinarie per tanto tempo.
Ancora, la scrittrice si divulga nel "La città involontaria" fra i senzatetto, divenuti tali a seguito delle disastrose conseguenze belliche, e non solo, la città infatti per sua sfortuna era un obiettivo militare strategico proprio a causa della sua dislocazione geografica e del suo mare tanto decantato, e quindi bersaglio dedicato di lutti e distruzioni belliche, della serie ”il cane morde sempre il povero disgraziato”. Anche nell’approntare i piani urbanistici con esclusione dei miseri.
Infine, nell’ultimo racconto, "Il silenzio della ragione", a sua volta ripartito in tre capitoli («Storia del funzionario Luigi»; «Chiaia morta e inquieta»; «Il ragazzo di Monte di Dio») Anna Maria Ortese sembra chiedersi, date che le uniche armi adatte alla rivalutazione del sociale sono la scuola e l’educazione, volti a debellare l’ignoranza e proporre alternative qualitative di vita, quale sia il ruolo e la responsabilità della cultura e dell’intellighenzia locale.
La chiama specificamente in causa con tanto di nome e cognome, perché in qualche modo possa intervenire a risollevare i destini della città e dei suoi abitanti, citando espressamente sé stessa e i suoi più noti colleghi dell’epoca.
Artisti e scrittori nativi campani o comunque coinvolti ed interessati, quali ricordiamo ad esempio Luigi Compagnone, Domenico Rea, Raffaele La Capria, anche Vasco Pratolini, quest'ultimo non napoletano ma a quel tempo residente a Napoli.
Mal gliene incolse, però: “Nemo profeta in patria”; ne seguirono polemiche, discussioni, critiche ferocissime, quasi che i chiamati in causa fossero stati colpevolizzati, tacciati di inservibilità pratica, se non di ignavia, indolenza, noncuranza che costrinsero la Ortese ad un volontario esilio dalla città tanto amata. Anche qui, in un certo senso, accostabile a Eduardo.
De Filippo, si racconta, una volta, in un momento di sconforto, si lasciò sfuggire un invito ai giovani: “Da Napoli, fuitavenne”, che vuol dire andatevene da Napoli.
Intendeva però raccomandare di uscire oltre i confini partenopei, certamente, ma per formarsi e prepararsi, e poi ritornare preparati e rilanciare i valori umani natali, unici e mirabili, mortificati dalle avversità materiali.
Un invito ad una fuga dei cervelli ante litteram, però con tanto di biglietto di ritorno.
Anna Maria ortese, però, non ritornò più.
Peccato, conosceva bene città, abitanti, sentimenti. E sapeva scriverne.
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