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Un piccolo, piccolo scrittore
Mi ha sempre colpito la sua scrittura intima, fluida e piana, con un inconsapevole senso musicale, lei che diceva di non capire niente di musica. Ho conosciuto Natalia Ginzburg con “Lessico famigliare” e per me leggere questa interessante raccolta di suoi scritti è stata consequenzialità naturale.
Si tratta di dieci saggi e scritti autobiografici usciti su giornali e riviste varie a partire dal 1944 fino al 1960, raccolti e sistemati presso la casa editrice Einaudi nel 1983.
Il primo scritto, intitolato “Inverno in Abruzzo”( 1944) costitusce un primo nucleo di pagine scritte immediatamente dopo la morte del marito, Leone Ginzburg, intellettuale di origine ebraica - come la famiglia di Natalia (Levi, era il cognome da nubile)- attivista antifascista che trovò la morte nel carcere romano di Regina Coeli in seguito alle torture inflittegli dalle guardie naziste.
Sono pagine di dolore, di malinconia scritte al passato remoto, come se la scrittrice volesse con la penna allontanare quei momenti terribili che le hanno cambiato l’esistenza in pochi mesi per analizzare meglio il dolore e le paure, perché non esiste la scrittura consolatoria. Il mestiere di scrittore, e Natalia userà sempre questo termine e mai il corrispondente femminile, è tirannico, non è mai consolatorio.
Lei si sentiva un “piccolo, piccolo scrittore”circondata da uomini più famosi: Pavese, il marito Leone Ginzburg, persino il figlio Carlo (Ginzburg) osava criticare la sua scrittura.
“Uno non può illudersi di farsi accarezzare e cullare dal suo proprio mestiere. Ci sono state nella mia vita delle interminabili domeniche desolate e deserte, in cui desideravo ardentemente scrivere qualche cosa per consolarmi della solitudine e della noia, per essere blandita e cullata da frasi e parole. Ma non c’è stato verso che mi riuscisse di scrivere un rigo. Il mio mestiere allora m’ha sempre respinta, non ha voluto saperne di me. Perché questo mestiere non è mai una consolazione o uno svago. Non è una compagnia. Questo mestiere è un padrone, un padrone capace di frustarci a sangue, un padrone che grida e condanna”.
Segnalo anche il commovente scritto dedicato a Pavese, mai nominato, ma prepotente e vivido nel ricordo; mi sono piaciute molto anche le pagine intitolate ‘Lui e io’, dove tra i contrasti caratteriali, le diversità nei piaceri, la Ginzburg ricorda il suo secondo marito, Gabriele Baldini.
Chiude la raccolta lo scritto “Le piccole virtù “, titolo che trasse in inganno lo stesso Calvino che curò l’edizione di questa raccolta ed evidentemente non colse l’ironia della scrittrice che voleva porre l’accento sulle grandi virtù, quelle che vale la pena insegnare ai propri figli.
Con mentalità aperta e moderna, la Ginzburg ammonisce i genitori che caricano i propri figli di aspettative, sostenendo che bisogna assecondare le loro inclinazioni, che talvolta il ragazzino più disattento ha nella testa fermenti di idee che metterà in pratica da grande. Ed anche il valore del denaro va insegnato al momento giusto, sia che si è ricchi e sia che si è poveri.
“Ma non troppo presto e non troppo tardi: e il segreto dell’educazione sta nell’indovinare i tempi. Essere sobri con se stessi e generosi con gli altri: questo vuol dire avere un rapporto giusto col denaro, essere liberi di fronte al denaro.”
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