Dettagli Recensione
L'ultima, lunga poesia, di un uomo
Il cielo d’Occidente è il vuoto degli dei fuggiti, il tempo della povertà estrema, lo smarrimento del sacro. L’anima di Pavese è il turbamento dell’uomo, il disorientamento della vita, la lotta prometeica alla verità. Lo stesso cielo da cui, Nefele, la nube, parla a Issione nel primo dei ventisette, meditatissimi dialoghi del libro, e ci avvisa: “C’è una legge, Issione, cui non possiamo sfuggire”. La legge è “la bufera”, si affretta a corregge lui, ma Nefele non cede, “tu sei tutto nel gesto che fai, ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga”. Pavese è di una geometria assoluta, di un rigore elementare, perché sa che solo nella struttura e nella coerenza un libro tanto frammentato ha senso. E allora la dicotomia atroce si esprime subito, la vita in sé, che trionfa nel suo stesso essere, e il destino, la morte, appiattita come “una serpe”, in ogni istante. Un’altra mano governa, ma c’è davvero qualcosa oltre le nubi?
All’uscita, questo libro così rarefatto, così cristallino e silenzioso, questi dialoghi tanto ellittici da sfiorare l’incomprensione, apparirono a molti niente più che uno sfoggio d’erudizione, una raccolta di esempi moraleggianti cari all’autore, quasi un esercizio di stile. Anzi fu accolto con tanta freddezza da ferire Pavese, che anzi su questo libro scriverà le sue ultime parole prima del suicidio. Credo sia necessario un certo ottundimento critico per non percepire questi dialoghi come la storia di un’anima, di una vita, lo struggimento, il dibattimento, la corsa a un infinito affossato nei tortuosi labirinti della mente. Pavese scortica i miti, non per ritrovarne l’intimo significato, per scrostarli dalla frenesia interpretativa, no, piuttosto li spoglia fino all’essenziale, fino alla più criptica associazione di senso per indagare i fondamenti del destino dell’uomo, il senso della vita, la morte, l’amore. I personaggi che si alternano, in una meravigliosa, placida, rapsodia di toni, da Saffo che si suicida per un rifiuto, a Orfeo, il poeta-Pavese, che deve scendere all’inferno per scoprire la sua arte e che, vinta la morte, si accorge che tutto è null’altro che ombra, passando per Odisseo, colui che sa dare il nome alle cose, che porta l’isola, la felicità, nel suo cuore, e che per questo non invidia gli dei, fino a Demetra, il grano e Dioniso, il vino, carne e sangue, anelito di resurrezione. E sopra di tutto la poesia, la Musa, che sa risolvere le contraddizioni della realtà nella pace del cielo, nella forza nuda della roccia, una natura che si ama di un amore puro, rarefatto, vergine. La poesia che sa preservare il silenzio dalla parole, che sa nominare le cose, risolvere il caos, in un gioco raffinatissimo di controcanti, rimandi, sospensioni estatiche che percorrono tutte le note di un pentagramma ristrettissimo, coerente, concreto. Pavese parla di nubi, roccia, montagne, laghi, boschi, belve, mostri e mentre tocca con mano il mondo, vola in realtà lontanissimo dalla nostra capacità di comprendere.
Non mi è possibile, se non analizzando uno per uno questi dialoghi, rendere conto della ricchezza del libro, una ricchezza certo difficile da capire. Non basta una prima lettura, non è sufficiente una seconda e probabilmente non saranno utili infinite letture, perché abissali e cocciutamente inesprimibili sono i problemi che affronta Pavese, in una resa dei conti col il caos, con gli dei, con gli uomini. Volevo solo invitarvi a leggere questi Dialoghi, ad amarli come Pavese ha amato il sole, il vento, la bufera, a non leggerli di seguito, come fosse un rosario, ma a lasciarli sedimentare, dialogare in voi. Permettetevi di stupirvi. Forse questo libro davvero non porta da nessuna parte, perché non c’è alcun luogo da raggiungere: sentieri erranti nella Selva del pensiero, tra i rami del tempo, tra le sinuose curve dello spirito. Sentieri che incrociano una vita che non vuole incontrarli.
Questi dialoghi sono il testamento di Pavese, e, per quanto di lui ho letto, sono infinitamente più belli di altre sue opere, perché in ogni parola, in ogni istante, bruciano di un fuoco contratto, come l’arte classica che nell’equilibrio delle forme tenta di domare il caos della realtà. Pavese scriverà di aver bruciato la candela solo da una parte, “la cenere sono i libri che ho scritto”. Chi scrive muore, chi legge, si salva.
“EROS Dal tempo del caos non si è visto che sangue. Sangue di uomini, di mostri e di dèi. Si comincia e si muore nel sangue.
TÀNATOS Che per nascere occorra morire, lo sanno che gli uomini. Non lo sanno gli olimpici. Se lo sono scordato. Loro durano in un mondo che passa. Non esistono: sono. Ogni loro capriccio è una legge fatale. Per esprime un fiore distruggono un uomo.”
Questo libro, questo fiore che è costato la vita di Pavese, davvero meriterebbe più attenzione, anche solo una giustizia postuma. Da parte mia, uno dei libri più intensi e belli che mi sia capitato di leggere e che avrei voluto trasmettervi con molta più passione. Ma ahimè, posso solo chiedervi di fidarvi.
Indicazioni utili
Leopardi, Operette morali
Frazer, Il ramo d'oro
Commenti
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Siccome proprio in questo momento mi trovo in biblioteca, do un'occhiata tra gli scaffali alla ricerca di questo libro... In effetti, non ho mai letto niente di Pavese!
Due opere che desidero rileggere.
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