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Predestinati
Non è possibile di certo affermare che Luigi Panzardi sia un’ottimista, ma d’altra parte, di questi tempi, in cui economia, politica e finanza sembrano complottare contro le misurate aspirazioni di gran parte degli individui, non è strano che in ognuno di noi prevalga un più o meno accentuato pessimismo. L’autore, in verità, in un racconto (Il mio medico) sembrerebbe lasciare spazio a una certa vena di speranza, con la vicenda grottesca, ma a lieto fine dei coniugi Saposdelli, ma a ben guardare lo scopo non è quello di narrare di una storia in sé e per sé, bensì di porre in risalto i pericoli insiti in una società ipertecnologica, in cui l’uomo e il suo intelletto sono soffocati da un razionalismo, ma sarebbe meglio dire irrazionalismo, di tipo meccanico, accompagnato non di rado da un approccio deontologico piuttosto carente.
Il fil rouge che unisce le altre sei prose è la predestinazione, cioè l’impossibilità per molti esseri umani di reagire a quelli che sono gli eventi più importanti del loro destino, è quell’inerzia, quell’abbandono al vento della vita da cui, più che lasciarsi trasportare, si viene travolti. E’ cosi che la giovane Federica di La ragazza del mercato non riuscirà mai a uscire dal mondo della malavita, alle cui regole ferree non ci si può ribellare se non a patto di pagare pesanti conseguenze, e in un mondo chiuso l’aver subito una violenza carnale (Lucia di La pecora) non solo non dà diritto di protezione, ma finirebbe, nel caso il fatto fosse risaputo, con il provocare l’emarginazione sociale della vittima.
Non è immune da questo fato, anzi è il primo a sperimentarlo dalla nascita Corrado, il down di Il custode del canile; in questo caso non c’è l’emarginazione da parte di quelli del paese, che anzi gli vogliono bene, ma c’è la perdita di un animale, una cagnetta, a cui si è affezionato in modo quasi morboso; invece per Fiore (Il gemello virtuale) la fermata in cui ogni mattina attende l’autobus per andare al lavoro diventa l’occasione per un autoritratto, impietoso, prima del salto nel buio; in un periodo di profonda crisi economica la vicenda di Dino (La recessione per Dino), appena promosso capo reparto e subito licenziato per la chiusura della fabbrica dove lavora, porta all’eterno dilemma fra lo stare al proprio paese, dove non c’è lavoro e facendo quindi la miseria, e andare invece dove c’è la richiesta, in una storia kafkiana in cui chi si lascia travolgere dal vento dell’avversità sarà ormai senza speranza.
Ho lasciato per ultimo La macchina divina, da cui il titolo all’intera opera, poiché di tratta di un racconto piuttosto lungo (65 pagine) e anche perché il dramma che coinvolge il protagonista, Silvestro, dirigente d’azienda stimatissimo e che d’improvviso perde la memoria, ha un’origine diversa dalle altre prose: non si tratta di ambiente, di recessione, ma dell’insorgenza di una malattia di carattere cerebrale, peraltro inguaribile. Panzardi è bravo nel descrivere i sintomi, le reazioni, l’angoscia che piano piano prende il sopravvento e la conclusione, per quanto logica e auspicabile, è un colpo da maestro.
So per esperienza che i racconti non sono molto appetiti dai lettori italiani, che però sbagliano, perché quando la prosa breve ha un inizio e una fine, quando i personaggi sono ben delineati e la loro analisi psicologica risulta approfondita, tutti elementi positivi riscontrabili in questa raccolta di Luigi Panzardi, meritano senz’altro di essere letti; se poi aggiungiamo lo stile non ridondante, ma nemmeno scarno, la capacità di ricreare ambientazioni del tutto plausibili, direi che ce n’è più che a sufficienza per caldeggiare quest’opera.