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La bella estate
 
La bella estate 2018-03-03 16:46:18 catcarlo
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
catcarlo Opinione inserita da catcarlo    03 Marzo, 2018
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Giovinezza (e oltre)

La bella estate
Se fosse solo per la lunghezza, sarebbe arduo definire romanzo questo lungo racconto scritto appena prima della seconda guerra mondiale, ma la storia che contiene è così ben conclusa in se stessa e ricca di sfaccettature nei personaggi da far dimenticare qualsiasi questione riguardante l’esiguo numero di pagine. Scorrendole, ci si appassiona al percorso di formazione della giovane Ginia dalla rigogliosa, ultima estate della sua giovinezza all’inverno dello scontento che la traghetta nell’età adulta: impatto ancor più doloroso per lei che adulta già pensa di esserlo – senza genitori, vive da sola con il fratello e lavora come modista – e invece non è preparata ad affrontare gli eventi e, soprattutto, le persone. Lasciate le amiche d’infanzia, si lascia trascinare dalla navigata Amelia nel piccolo sottobosco artistico che lei frequenta come ‘modella’: un giro di pittori di dubbie qualità, ma che ostentano un fascino bohemienne che fa colpo sull gentil sesso, specie se ingenuo. L’irregolare Rodrigues, il fascinoso Guido, il rapporto che si va intorbidando con la sua guida fanno di Ginia una ragazzina confusa che finisce per concedersi per un sentimento (tra l’altro molto acerbo) che con ogni probabilità sa non corrisposto mentre si alternano le bevute nella soffitta dei due uomini e le uscite fatte di chiacchiere con Amelia che si scopre malata. L’inquietudine della protagonista si placa solo quando accetta che una stagione, ovvero ‘la bella estate’, si è chiusa e si può/deve andare avanti magari chiudendo i sogni nel cassetto: la primavera arriva con l’avvisaglia della guarigione dell’amica. Quello che spunta alla conclusione è l’unico raggio di sole che brilla in una vicenda cupa in cui Pavese ci offre uno sguardo cinico sul genere umano: Ginia e le figure che la attorniano, per quanto si atteggino, sono come pupazzi trascinati dalle inevitabili esigenze dell’esistenza e la critica agli ambienti artistoidi fa il paio con una visione non edulcorata degli strati popolari, segnati sovente da ignoranza e piccineria. Malgrado il suo destino di vaso di coccio, la simpatia dell’autore non va neppure alla sua piccola donna che subisce senza reagire: i dialoghi spezzati e le descrizioni che restituiscono una Torino sempre più fredda e in qualche modo ostile consentono comunque alla storia di entrare nella memoria accompagnata da un’inevitabile sensazione di malessere.

Il diavolo sulle colline
Tre amici universitari trascorrono i mesi estivi a Torino sentendosi vivi soprattutto durante le scorribande notturne piene di chiacchiere e multiformi, per quanto lontane, tentazioni. la svolta improvvisa giunge quando, durate un'escursione - sempre di notte - sulle colline attorno alla città, incontrano Poli, un riccastro pieno di cocaina che è conosciuto alla lontana da uno di loro, Oreste, originario delle Langhe Il giovanotto è il rampollo debosciato di una famiglia abbiente e li trascina in una confusa giostra tra night e paesini appisolati in compagnia della sua matura amante. Quando il rapporto tra i due vira in tragedia, per i ragazzi pare tornare tutto alla normalità, incluso il programmato trasferimento in campagna da Oreste. Qui però, dopo una sorta di idillio agreste, le loro strade reincrociano quelle di Poli e della di lui moglie Gabriella: la convivenza nella villa di questi ultimi, tra nuove prospettive e vizi diffusi, segna la vita dei giovani, forse cambiandone la vita per sempre (almeno per uno di loro). E' evidente come il libro sia a tesi - la corruzione dei ricchi cittadini a confronto con una certa qual purezza della vita contadina - ma la capacità dello scrittore di descrivere in profondità le situazioni e gli stati d'animo consente di superare il problema (se è un problema) con facilità: solo nel finale, con la stereotipata rappresentazione degli amici di Poli, la forzatura iniza a farsi stridente. Tutto quello che vien prima invece affascina, seppur nella sua quotidiana semplicità: i giorni e le notti di Torino, inclusa la titubante escursione sul Po del narratore in compagnia di una ragazza, e l'inserimento nella realtà della famiglia di Oreste, con il padre in rapporto quasi simbiotico con la vigna, la madre in casa che si occupa di tutto quanto, la zia bigotta e la testarda coppia di cugini che vivono un po' selvatici sull'altro versante, ma fanno il vino buono. Tra un bicchiere e l'altro - la sobrietà non è la prima preoccupazione per nessuno - l'estate avvolge i tre protagonisti con la sua luce che acceca e le sensazioni lussureggianti che colpiscono gli altri sensi, nascondendo sotto la scorza della prorompente vitalità il disfacimento che aumenta con il passare dei giorni, giustificando almeno in parte i paragoni mortuari di Pieretto. Bene: tutto questo po' po' di roba - e di fuggita possiamo aggiungere le suggestioni alla Fitzgerald che scaturiscono dalla figura di Poli, assai probabili nell'americanista Pavese - è contenuto in poco più di centocinquanta pagine: a testimonianza della capacità dello scrittore di rendere un'immagine con poche, intense pennellate che vanno a creare un ritmo lento eppure implacabile nell'afferrare il lettore che sappia farsi coinvolgere.

Tra donne sole
Vuoi vedere che Ginia ce l’ha fatta? E’ impossibile sottrarsi al sottile fascino di collegare questo lavoro a ‘La bella estate’, uscito dieci anni prima, e vederlo come il desiderio dell’autore di analizzare l’altro lato della medaglia. Figlia della Torino operaia, Clelia ha fatto fortuna andandosene dal capoluogo piemontese in compagnia di tal – guarda caso - Guido in direzione Roma: quando l’amore è finito, si è costruita una carriera nel mondo della moda ed eccola di ritorno nella città natale allo scopo di curare l’apertura di un negozio per la griffe per cui lavora. Considerato il target, entra in contatto con un ambiente medio-alto borghese, mentre al suo vecchio quartiere riserva una sola visita in cui la nostalgia viene ben presto spazzata dalla grettezza umana. Non che i personaggi con cui si accompagna siano meglio: ragazze e ragazzi annoiati che, tra una gita in montagna e una in Riviera, conducono esistenze di nessuna prospettiva nelle quali anche il tentato suicidio di Rosetta, la più fragile fra di loro, non è altro che l’ennesimo argomento di cui blaterare senza costrutto. Ritornano le velleità artistiche – il pittore nell’atelier, il tentativo di fare teatro – ma sono tutti castelli in aria come pure il capriccio di esplorare la vita ‘vera’ (e osterie di bassa lega, il casino), scuse per trovare una sensazione alternativa ai piccoli ricevimenti e ai veglioni di un tristissimo carnevale in cui si annega fra le chiacchiere inutili. Il complesso rapporto di Pavese con l’altra metà del cielo si delinea in figure femminili dominate dalla futilità e dalla irresolutezza, delle quali Clelia è un parziale contraltare grazie alla professione e alla capacità di scegliere (compagnie maschili incluse): non siamo però di fronte a un romanzo misogino, semmai misantropo visto che le gli uomini non non sanno superare l’ambiguità e la piccolezza che le contraddistingue. Se Momina o Mariella sono ricche rampolle annoiate e Nene capace solo di sprecare i propri talenti, il bel Fefè pensa esclusivamente alle feste e Loris il pittore è pieno di sé, per non parlare dell’assatanato architetto d’interni Febo per il quale pare che le donne siano prede da cacciare. In queste pagine, lo scrittore si è ormai allontanato dal neorealismo: gli interesse lo studio delle psicologie e il loro interagire con la quotidianità, così che non pare un caso che Antonioni abbia utilizzato l’opera come soggetto de ‘Le amiche’. Soprattutto, si percepisce un pessimismo di fondo che diffonde una patina di malinconia particolarmente significativa vista con il senno del poi: pochi mesi dopo aver descritto il destino di Rosetta, Pavese vi fece seguire il suo.

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Commenti

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Carlo, la tua recensione è proprio esaustiva.
Dei tre lunghi racconti, o romanzi brevi, a me è piaciuto molto solamente "Tra donne sole" : un ritratto di donne falsamente 'emancipate' , nel senso deteriore, eccetto Rosetta la cui fragilità m'è parsa umanissima, pertanto sarebbe potuta essere potenzialmente 'salva' ; ma purtroppo non ha saputo guardare oltre il ristretto perimetro che la circondava. Nello stesso tempo è inevitabile non collegarla a Pavese stesso e alla fine che ha fatto.
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