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Un mondo che non c’è più
E con questa sono tre le opere di Vincenzo Pardini che ho letto, il che mi consente anche, in corso di analisi critica della presente, di parlare un po’ di più di questo autore toscano.
In questa raccolta di racconti si respira l’atmosfera di Il postale e di Gran secolo d’oro e di dolore, un’atmosfera che sa di un tempo andato in cui si stava peggio economicamente rispetto a ora, ma anche in cui c’era una diversa tipologia di rapporti fra gli uomini, e soprattutto fra gli uomini e la natura. Un essere umano non più dominante sul mondo che lo circonda, ma capace di interagire con esso, di recepire i messaggi che spesso la natura ci manda, in possesso ancora di una parte di quel sesto senso che nell’evoluzione della specie, con l’accentuazione della conoscenza, si è persa per strada. C’è un aspetto favolistico nelle opere di Pardini, visto il rilievo che assumono gli animali, ma non mi lascerei tentare di pervenire a definizioni avventate, poiché sono dell’opinione che, nonostante una rilevante presenza del mondo animale, nella scrittura dell’autore toscano fulcro centrale sia l’uomo e la sua condizione di essere privilegiato, ma imperfetto, superiore, ma pieno di paure, personaggio, ma anche comparsa che si lascia trascinare dal destino, protagonista di un viaggio sulla terra lungo come un battito dì ali di farfalla se confrontato con l’infinito tempo dell’universo. Sì, Pardini è portatore di un suo pensiero filosofico che si ripete, si evolve, assume forme diverse, ma è sempre lo stesso in tutte le sue opere. Prendiamo questa raccolta di racconti e cerchiamo di comprendere i personaggi di un mondo che emerge a stento dalle nebbie dei ricordi, tanto da apparire fantastico, proprio di una mitologia di un’epoca forse felice che non è solo di qualche anno fa, ma è propria di un periodo ben preciso, e assai lungo, quello che precede la seconda guerra mondiale, quel conflitto dopo il quale il mondo non fu più lo stesso, il modo di pensare cambiò radicalmente, un antica civiltà, quella contadina, venne a sparire.
Il mondo di Pardini è un mondo di montanari, di gente talmente radicata sulla terra da esserne parte, un microcosmo che va dal pastore al tipico balordo di paese, una realtà purtroppo scomparsa in una umanità che corre sempre più veloce senza un perché; il mondo di Pardini ha ritmi lenti, più a misura d’uomo e infatti non emergono nei personaggi problemi psicologici, quali le depressioni; il mondo di Pardini è un mondo che non abbiamo mai conosciuto o che nella migliore delle ipotesi abbiamo dimenticato, un modo di vivere, una civiltà, oserei dire, improntata alla sacralità della natura, scandita dal ritmo delle stagioni.
I racconti sono in tutto sedici, qualcuno breve, altri assai più lunghi, e, come sempre succede in questi casi, pur a fronte di un livello qualitativo di eccellenza ce ne sono che piacciono di più, o di meno. Dal mio punta di vista dico che se dovessi scegliere mi troverei in imbarazzo anche se, in fondo, preferisco una prosa in cui siano presenti tutte le caratteristiche dell’autore, quel suo fil rouge che ripropone sotto svariate forme, e allora sono dell’opinione che quello che più mi ha colpito sia uno abbastanza breve, Il carrettiere dei monti, che scorre davanti agli occhi come un dipinto sfumato, un qualcosa di semplice, ma al tempo stesso pregno di significato perché, a ben guardare, nella vicenda di Sassie, che da una vita trasporta il carbone con il carro trainato dal cavallo e con la compagnia di un cane, si intromette nel tempo il cosiddetto progresso che lo porterà a concludere, non solo come constatazione, che la sua vita non ha più un senso. Mancherei, tuttavia, di rispetto all’autore se non ponessi in opportuna evidenza l’ultimo racconto del libro, La morte del mulo, poiché questo sancisce in modo inequivocabile il legame con la natura, e in particolare con gli animali, che è sempre presente in ogni opera di Pardini; è una prosa che scandisce l’ultimo periodo di vita di un compagno silenzioso con cui fin dall’origine è stata avviata un’azione di reciproca comprensione; Giovale, così si chiama il mulo, con il suo silenzio e il suo comportamento parla molto di più di un individuo ciarliero e le pagine dedicate ai suoi ultimi giorni di vita, mai tese a ingenerare commozione, tuttavia lasciano il segno, tanto che, almeno a me, è capitato di affezionarmi quasi che fosse lì davanti a me; Pardini non sollecita lacrime facili, il suo è un dolore intimo, ma è inevitabile che nel vedere spegnersi un amico, un compagno di esistenza, si sia presi da un sentimento non facilmente definibile, un misto di commozione, di pietà e anche un po’ di dolore.
I periodi sembrano scaturire dalla penna dell’autore con assoluta naturalezza, poiché è sua la stessa lingua dei personaggi che popolano i racconti, è suo lo stesso ritmo del tempo che scandisce le loro esistenze, sono suoi gli occhi che si addentrano nella nebbia del tempo per mostrarci ciò che è stato e che mai ritornerà. Ed è per questo che la lettura, oltre che gradevole, è densa di significati, piano piano coinvolge chi ha la fortuna di scorrere queste pagine, di immergersi in una realtà sconosciuta di cui, giunti a fine libro, non potremo che avere nostalgia.
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Leggo che hai già letto tre libri di questo autore . A me è del tutto sconosciuto, anche se mi pare vagamente di averne sentito parlare. Comunque, tante stelle assegnate sono incoraggianti.