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Il tempo del castagno
 
Il tempo del castagno 2017-01-16 12:17:53 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    16 Gennaio, 2017
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Mai dimenticare

Mi viene da sorridere se penso che, quando ero giovane, i vecchi erano soliti dire che con la mia generazione tutto era cambiato, e ovviamente in peggio. C’era in me un’incredulità che mi impediva di comprendere, c’era invece quel desiderio di gettarmi a capofitto nel futuro, cancellando il passato. E invece ora, a distanza di tanti anni, pure io incanutito mi rendo conto che quell’affermazione era veritiera e che nell’arco di poco tempo una civiltà millenaria, quella contadina, era scomparsa. Fissare i ricordi, non tanto per se stessi, ma per chi verrà dopo di noi è l’unico modo per fare un empirico giudizio della nostra vita, ma riportare le memorie raccolte dai nonni quando si era piccoli è molto di più, è concatenare delle epoche, è verificare ciò che c’era di buono e ciò che c’era di insano. Ci ha provato Franca Oberti con questa raccolta di racconti, Il tempo del castagno, che prende il titolo da uno di essi, per la precisione l’ultimo.
L’autore, legato per tradizione familiare all’attività agricola, in forza degli squarci che gli si aprono nella memoria propone delle prose brevi in cui il respiro di un tempo andato e che mai ritornerà è forte, tale da far comprendere che se la vita condotta dai suoi avi a coltivar la terra non era di certo paradisiaca, non era tuttavia da sminuire o denigrare. Il lavoro manuale era preminente, il tenore di vita, per lo più, era tale da garantire i pasti, se pur magri e poco vari, insomma quando non era proprio miseria, era ciò che oggi definiremmo una povertà diffusa, assai più marcata del concetto che adesso abbiamo di povertà. Eppure, a quei tempi, a quelli della civiltà contadina probabilmente si viveva meglio di oggi, perché non rientravano nel paniere della ricchezza quei mezzi materiali per cui ogni giorno lottiamo, ma erano bensì presenti i valori, le canoniche basi che in quest’epoca frenetica in cui viviamo sono spariti completamente, sostituiti da un unico scopo per il quale valga la pena di vivere: la continua ricerca del denaro per soddisfare bisogni che accortamente ci vengono inculcati.
La scrittura dell’Oberti è semplice, priva di fronzoli, così che si ricava l’impressione che i racconti siano uguali a quelli ascoltati da bambina dalla bocca del nonno o della nonna. E in questa letteratura orale, di cui da molto tempo non si nota più nemmeno l’assenza, è piacevole, pagina dopo pagina, immaginare di stare ad ascoltare davanti a un camino con un bel fuoco , su cui, in un paiolo, viene rimestata la farina gialla per quello che era un alimento diffusissimo: la polenta.
Così si sogna, si sogna a occhi aperti, e non si può non condividere quanto a pagina 12 scrive l’autore: “……/ A guardare bene sono sempre stati loro, i contadini, che ci hanno insegnato la sopravvivenza: insegnavano alle nuove generazioni come tramandare la vita, in ogni sua forma”
E’ vero, tanto che, scomparsa questa civiltà, oggi siamo come alberi a cui hanno tagliato le radici e, senza memoria del passato, continuiamo a correre verso un futuro nebuloso, incapaci di saper vivere il presente.
Da leggere.

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Grazie, Renzo: belle riflessioni... al di là del fatto che le valutazioni sulla loro veridicità saranno diverse in forza delle proprie esperienze (o inesperienze), proprio come dici.
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