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La lingua delle vichinghe è più comprensibile
Andrea Camilleri, prossimo ormai ai 91 anni, dimostra una continua e costante vitalità, con una produzione letteraria che a definire corposa sarebbe un eufemismo. Frutto di una creatività che oserei dire inesauribile i suoi libri escono a raffica, e poco importa che siano romanzi, oppure racconti, perché lui sembra avere sempre qualcosa di nuovo da dire. È ovvio che con così tante opere, nonostante la loro qualità sia mediamente buona, possa capitare che ogni tanto qualcuna sia in tono minore e secondo me è il caso di questa raccolta di racconti, a tema, in cui il tema è appunto l’amore, visto attraverso gli occhi dell’ironia che sono propri dell’autore. Il classico gallismo degli italiani, e in particolare dei siciliani, è del resto materia su cui un narratore attento e disincantato può lavorare a piacimento, con un intento ovviamente satirico-comico. Tuttavia, mi è sembrato che si siano riaffermati certi luoghi comuni che, più parecchio tempo fa che oggi, traevano un fondo di verità dalla realtà di una certa società. Direi che oggi sono anacronistici e il riproporli quindi può avere più un valore storico che una rappresentazione di una realtà immutabile che è invece ben cambiata. Certo a tratti si sorride e forse ci si lascerebbe coinvolgere maggiormente se non perdurasse, sempre più accentuata, quella caratteristica di Camilleri di scrivere in un italiano che italiano non è, ma è una italianizzazione, secondo un criterio tutto personale, del dialetto siciliano. Mi chiedo se ormai l’autore sarebbe in grado di scrivere con la nostra lingua, preso come è a coniare nuovi termini, sempre più spesso di difficile comprensione. Quando leggo mi piace entrare nel pensiero del narratore, cerco di partecipare, ovviamente in modo figurato, alla trama, ma se ogni due o tre righe sono costretto a fermarmi e a chiedermi che cosa possa significare una parola per la cui comprensione non potrà essermi di soccorso un dizionario, ecco che l’incanto che si andava formando scema vistosamente e mi trovo non più davanti alla scena, ma davanti a una pagina e, quel che è peggio, veramente incavolato. Mi chiedo allora che senso possa avere continuare la lettura di un qualcosa fatto di parole incomprensibili e rispondo nell’unico modo che è proprio di chi, oltre che deluso, é anche arrabbiato: getto il libro in un angolo. Se poi considero che per me – ma anche per ogni buon lettore - il ricorso almeno corretto alla propria lingua è essenziale, tendo allora a chiedermi come abbia potuto fino ad adesso perdonare a Camilleri questo importante aspetto. Anzi, mi sento in colpa, per avere fino a oggi sorvolato, ma tendo ad autoassolvermi con un dato di fatto certo: prima, in un ancora non lontano passato, pur scrivendo così Camilleri cercava di facilitare la comprensione, quella comprensione che ora per ben più di una parola mi è stato impossibile avere in questa raccolta di racconti. È ovvio che se il narratore siciliano si radicalizza sempre di più, non mi avrà ancora fra i suoi lettori ed è anche per questo motivo che, pur tenendo conto dei precedenti, non mi sento di consigliare questo libro.
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io non sono mai riuscita a reggere questo aspetto linguistico per un mio limite, se ora è giunto al parossismo non ho proprio speranza...