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Urla nel silenzio
“Mandami a dire” tuttora è tra i romanzi dello scrittore triestino Pino Roveredo quello che piace di più, sebbene ne abbia scritti diversi davvero belli e toccanti, d’altra parte egli raggiunse subito un buon successo di pubblico e critica fin dall’esordio con il romanzo “Capriole in salita”.
Altre sue opere sono “La città dei cancelli” e “Caracreatura”, proprio scritto così, tutto attaccato.
La scrittura di Roveredo, e più che la scrittura ciò che egli scrive, è un qualcosa che colpisce diritto allo stomaco.
Ti lascia amareggiato, dispiaciuto, avvilito, impotente davanti a un’umanità speciale, speciale perché ultima, dimenticata, misera e miserabile, ultima tra gli ultimi, l’umanità dei vinti, dei dispersi, degli sconfitti, dei solitari, dei disperati, eppure sempre tutti malinconicamente e pervicacemente pervasi da aneliti di speranza, da un disperato e struggente bisogno d’amore.
Pino Roveredo, infatti, ha avuto quel che si vuole definire, quasi sottovoce, una vita difficile: per diverse ragioni, esistenziali, caratteriali, fortuite, ha condotto, suo malgrado, un’esistenza dura, precaria, alienante, spesso brutale, finendo negli abissi dell’alcolismo, degli stupefacenti, facendo diretta esperienza degli ambienti e delle comunità dei devianti, prima tra tutte le carceri e le comunità per i disturbi mentali.
Da tali abissi, da tali orrori, egli si salva con la scrittura, quasi che rendere su carta le sue dirette e amare esperienze funge da catarsi, la scrittura compie una redenzione, e da qui Roveredo riparte, facendo delle amare esperienze di vita materia per racconti struggenti di malinconia, desiderio spasmodico di affetto, di amore, di fiducia, che rappresentano in fin dei conti le carenze principali che portano una persona a discendere nei gorghi della depressione, nella solitudine, nello stato catatonico dei senza speranza con conseguente ricerca di paradisi alternativi.
E così Roveredo, attraverso la sua sensibilità poetica forgiatasi direttamente in quelle situazioni che egli ha vissuto di persona sulla propria pelle, ci narra ad esempio di un ipotetico difensore innamorato di una sua simile altrettanto disperata, che vive a distanza dalla sua amata e le scrive, con il tono premuroso di una persona innamorata, e con il tono da “supereroe” di fumetti, le raccomanda di non preoccuparsi se alcuno volesse farle del male, di avvisarlo, le dice “mandami a dire” se qualcuno la minaccia, ci penserà lui a provvedere…è la rassicurazione effimera ed illusoria di un patetico e disperato superoe, eppure non privo di una sua tenera poesia.
Ancora, nello stesso modo struggente e realistico, eppure pudico, discreto, con voce che si avverte roca eppure calda insieme, Roveredo descrive la realtà delle carceri, una realtà fatta di cancelli messi quasi, più che a rinchiudere gli afflitti a scopo di redenzione o recupero, a negarli, a nasconderli, ad annichilirli, a disconoscerli.
E infine, un figlio perso nella dipendenza delle droghe, per la propria mamma resta sempre il condensato dell’amore universale, efficacemente rivelato in quel “caracreatura” detto tutto attaccato, in fretta, quasi nel timore che il rivolgersi con tono lento all’oggetto del suo amore ti distragga, ti faccia perdere tempo, ne provoca la perdita, la caduta irrefrenabile nei gorghi della tossicodipendenza…
Roveredo non è facile a leggersi, ed è crudo e avvilente a leggersi, ma comunica.
Comunica bene: e magistralmente descrive qual è la condizione d’animo che il suo cuore desidera, come vorrebbe essere, dopo tanto penare. Con le sue mani, con le dita di ciascuna dischiuse nel numero tre, le porta a livello delle spalle e discende lentamente verso il basso, scorrendo lungo i fianchi, nel gesto che in LIS, la lingua italiana dei segni, usata dai sordi, intende: “Tranquillo”.
Sa segnare la LIS, infatti. Pino Roveredo è il figlio udente di una coppia di sordi segnanti.
Viene dal silenzio, e scrive nel silenzio; ma le immagini che ci rimanda, assordano.