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Mater semper certa, pater numquam
Il titolo di questa raccolta di racconti richiama un’espressione che proviene dal mondo del teatro: lì, la “scena madre” è una delle scene portanti, a volte quella principale. La scelta del titolo sembra dunque preludere a un esperimento che valuti se al padre possano essere attribuiti ruoli e funzioni che madre natura, tradizione e - ahinoi - cultura hanno spesso e principalmente assegnato alle mamme.
Il quadro che esce dalle storie è quello di un uomo-padre dubbioso, problematico, sensibile, alla ricerca di un significato e di un’interpretazione di ruolo. In questo senso deve essere inteso il titolo che ho dato a questo mio commento: perché “Mater semper certa, pater numquam” è locuzione che viene generalmente utilizzata per ben altro scopo…
Cercherò di spiegarmi meglio commentando i singoli racconti.
Diego De Silva in “Diventare è capire di essere” affronta il tema del cambiamento – psicologico e materiale - indotto dall’arrivo di una figlia e proiettato, a distanza di anni, quando il protagonista si ritrova a pedinare la figlia incontrata casualmente per strada (“Un giorno glielo dico che quella volta l’ho seguita”).
Andrea Canobbio in “Madrepatria” esplora il rapporto di coppia nei panni di un corniciaio che riflette sul suo sentimento anche grazie a riproduzioni di quadri famosi e vive la sua partecipazione al parto subendo “la violenza sanguinaria dell’evento”, per esprimere scetticismo: “Assistere al dolore del parto… l’importanza della presenza del padre. Ma quando mai.”
Valerio Magrelli rappresenta l’ “Essere padre in ventuno strofe” (di Children’s corner). Secondo il poeta, diventare padre “è un disastro. Il più splendido disastro che ti possa accadere”. E significa “ritrovare se stesso in un altro: tale esperienza è simile a quella provata dal personaggio mitico di Sosia”. Attraverso metafore (“Ma non dimentichiamo quella clessidra umana che è il pipistrello, ossia il vampiro, l’animale che svuota l’ampolla vivente della preda, portandogli via il sangue, prosciugandola, secondo l’etimo della parola clessidra, dal greco sottraggo acqua”) Magrelli esprime un dubbio esistenziale: “Fare un figlio significa essenzialmente lasciare una persona di notte, per strada, con una gomma a terra”. E una responsabilità: “Impossibile negare l’esistenza di aver convocato dal nulla… degli esseri che altrimenti non avrebbero mai avuto la minima intenzione di venire al mondo”. Per concordare con Chateaubriand: “Mia madre mi inflisse la vita”.
Sandro Bonvissuto cambia repentinamente il registro della narrazione. In “Rifiuti ingombranti” rivive umoristicamente, attraverso il conferimento in discarica del vecchio frigorifero, ciò che l’elettrodomestico ha rappresentato nella vita familiare. “Guardare un figlio è una visione talmente grande che non c’entra nemmeno negli occhi… Ecco perché a volte i genitori non si accorgono di certe cose dei figli, cose che vedrebbe chiunque.”
Il tono ironico viene utilizzato anche da Antonio Pascale: “Le caramelle” sono ricordi di un’infanzia che gioca brutti scherzi a un padre – impegnato a mostrarsi, agli occhi dei figli, migliore di quanto sia nella realtà – che tenta di misurarsi con una generazione più scaltra e perspicace.
Ascanio Celestini, in “Un bell’applauso”, si avvale dell’ambiente della piscina per rappresentare pensieri, riflessioni e ansie di genitori presenzialisti e apprensivi.
Marcello Fois (“Tu, me”), al ritmo di una preghiera (il “Padre nostro”), a parer mio scrive il miglior racconto della collezione: il protagonista sognava di fare il pittore, diviene poliziotto e – in corazza antisommossa - racconta il suo rapporto con il figlio in occasione delle volte in cui avrebbe voluto… ucciderlo!
Per le crisi d’insonnia (“Sei mesi senza mai dormire”), per uno scherzo di cattivo gusto (“E disse che era solo uno scherzo”), per una tragedia anagrafica (“Nemmeno lo presi in braccio quella prima volta… dopo la morte di mia moglie”), per la delusione ai regionali di scherma (“Piuttosto che far vincere me”). Naturalmente la narrazione è iperbolica, ma non è priva di considerazioni profonde (“quel rimprovero sottile che le generazioni si scambiano l’un l’altra per genetica”) e di finale a tema: “Quando torno ti ammazzo, gli urlo contro”.
Ernesto Franco, in “Diario del padre”, si rappresenta tra due fuochi: il padre medico in fin di vita da un lato, il figlio nascituro dall’altro. Nel momento di passaggio (“A breve non sarei stato più suo figlio”), l’uomo sperimenta il senso di inadeguatezza (“Dal figlio al padre non c’è consiglio. Perché non si è mai uomini entrambi nello stesso tempo”) e ha una cisi d’identità di fronte all’immagine della giacca del padre accostata alla giacchetta del figlio: “Né figlio né padre. Solo un uomo solo. Perduto nelle generazioni infinite.”
Nel complesso, una bella selezione di racconti, che consiglio anche al gentil sesso. Sperando che il mio giudizio non sia frutto di eccessiva immedesimazione, concluderei affermando che sì, forse anche la “scena padre” ha un suo diritto di essere… se non altro per rappresentare le nostre insicurezze e l’enorme desiderio di amore (di amare, di essere amati), nonostante la presenza del cromosoma y…
Bruno Elpis
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Commenti
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Che la letteratura ci affianchi, offrendoci momenti di confronto e condivisione, mi sembra davvero confortante!
@ Domitilla: "che la letteratura ci affianchi"! Grazie cara :-)
@ Gracy: sì, qui i racconti sono complementari e sintonizzati al tempo stesso :-)
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Pia