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Piccoli Hannibal Lecter crescono
“Gioventù cannibale” è un ferocissimo esperimento letterario (degli anni novanta) nel quale diversi autori danno sfogo a impulsi di varia natura, tutti riconducibili alla dissacrazione di schemi e canoni sul piano stilistico, alla demolizione di morale e limiti sul piano dei contenuti.
La prefazione di Daniele Brolli, intitolata “Le favole cambiano” mi ha illuso: “Si sa che il moralismo è quella pulsione sadica che spinge chi ne è vittima a conservare i propri cadaveri negli armadi altrui. Ed è anche l’unica forma di perversione socialmente ammessa, capace di relegare tutte le altre a comparse sul palcoscenico degli atti proibiti. Moralismo e ipocrisia, poi, sono complici e il loro legame indissolubile governa l’universo del pregiudizio”. Ho pensato infatti di trovarmi di fronte a racconti interessanti che magari ripetessero l’esperimento (pur rapportato ai tempi) che Gide compì ne “L’immoralista”. Questa aspettativa in realtà è stata travolta dalla sequenza delle composizioni che realizzano la loro trasgressione con la solita consunta triade (sesso, droga e rock&roll) spruzzata – anzi inzuppata - da un effluvio di sangue che scorre con ritmi e modalità mutuate dalla cinematografia splatter e truculenta. Cosa ci sia di innovativo e trasgressivo nello strumento al quale tutti ricorrono da diversi decenni (direi almeno dagli anni settanta) qualcuno me lo dovrebbe spiegare.
“Seratina” di Niccolò Ammaniti e Luisa Brancaccio racconta di un delirio notturno nel quale Emanuele si lascia coinvolgere da Aldo (“una persona accettabile, ma se lo si scomponeva ogni suo gesto, pensiero e azione erano detestabili, volgari e malsani”). Il programma della seratina prevede: rimorchiare un’amica infermiera, assumere sostanze psicotrope e alcol, introdursi nello zoo e trafugare un cucciolo di canguro (“E poi cercò di infilarsi nel marsupio, l’unica tana sicura che conosceva”), infierire su un trans…
Alda Teodorani (“E Roma piange”) coniuga il rosso del tramonto capitolino con il sangue di omicidi efferati, giacché il protagonista presta servizio per realizzare un’opera discutibile di pulizia socio-etnica (“Hai mai pensato di diventare uno spazzino?”).
“Il mondo dell’amore” di Aldo Nove è il mondo di Michele e Sergio: due giovani che – forse ispirati da un film pornografico – intraprendono una sanguinosa via verso la transessualità.
Daniele Luttazzi reinterpreta una fiaba di Perrault. In “Cappuccetto splatter”, Cappuccetto rosso è una modella, la mamma è la sua agente, il lupo è un P.R., la nonna uno stilista. Il bosco da attraversare è una Milano surreale. Cannibalismo e sangue in frenesia libera non pregiudicano uno strampalato lieto fine della cruentissima storiella.
Andrea G. Pinketts, con lo slogan “Diamonds are for never”, imbastisce la sua carneficina sul pullman Milano-Lido della Pentola.
Nelle pagine di un “Diario in estate” (di Massimiliano Governi) è scritta la triste storia d’amore di una ragazza che trascorre il suo tempo a Villa Pamphili a stordirsi di fumo. Lì conosce un neonazista, Nicolas, che la introduce ai cristalli di shaboo (“Lo usavano i kamikaze giapponesi durante la seconda guerra mondiale … mi snetivo una belva e avrei fatto senza sforzo dieci volte il giro della villa”). Di fronte al padre, che si oppone alla relazione sbagliata di Asia (“Le ho comprato la bara di Barbie…”), la furia di Nicolas è tremenda.
“Treccine bionde” è un cadavere che balla. Nel racconto di Matteo Curtoni l’atmosfera è pervasa da “alcol, frastuono e assenza di pensieri, una miscela diabolica e inebriante che li spingeva, talvolta, verso il sospetto che quei tre elementi fossero la creta con cui era stato modellato il paradiso. O l’inferno. O tutt’e due.”
In “Cose che io non so” Matteo Galliazzo riproduce una saga di blasfemia (“Eliah voleva costruire una statua della Madonna, una di quelle statue che sanguinano”), eresia, esercizi semantici e linguistici (“Esistono infiniti nomi di Dio. Nessuno potrà mai pronunciare il Suo nome”), teorie cosmogoniche elaborate da due giovani, che sono cellule impazzite dei testimoni di Geova e che cercano ispirazione in un atroce serial killer.
“Il rumore” di Stefano Massaron è il racconto forse più complesso: è la triste storia di Debora la Palla, una bambina obesa, vittima del branco, che decide di seguire una sua fantasia (“sorridendo, sale sulla schiena dell’uomo che vola”) dopo essere stata umiliata dai ragazzini che giocano a campana e dopo aver assistito alla barbarie che suo padre sfoga sulla mamma.
“Il giorno di paga in via Ferretto” di Paolo Caredda precede la postfazione (“Spazzatura e violenza: sull’estetica cannibale”), nella quale Emanuele Trevi tira le fila dell’opera muovendo le sue considerazioni dal “Dialogo della Moda e della Morte” (tratto dalle Operette morali di Leopardi), autentica boccata d’ossigeno per il lettore che, avendo resistito sino alla fine, è ormai in iperventilazione:
MODA. Io sono la Moda, tua sorella.
MORTE. Mia sorella?
MODA. Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla caducità?
Ipotizzando che il primo autore splatter sia stato Salgari, Trevi attribuisce all’opera originalità e carica innovativa: “è in questione infatti una violenza senza motivo, senza sfondo psicologico, senza l’ombra di una dialettica tra delitto e castigo”. In tale convinzione, “i cannibali” rappresenterebbero un’avanguardia che si muove “in direzione antipsicologica” e incarnerebbero “l’estetica di fine millennio”.
I canoni di questa estetica? “Un aspetto (la spazzatura) implica ed è implicato dall’altro (la violenza) in una circolarità che più viziosa di così non si potrebbe”…
Personalmente, preferisco altre estetiche. Sull’opera ovviamente lascio ai posteri l’ardua sentenza. Io, come contemporaneo, ho espresso una semplice opinione, che non vuole essere una sentenza.
Bruno Elpis
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Alcuni racconti di Gioventù Cannibale vorrebbero essere surreali a tinte sanguinolente.
Altri racconti (quelli più realistici) sì, declinano temi e situazioni violente ma sempre in chiave un po' paradossale.
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