Dettagli Recensione
Recensione di Giuseppe Muscardini, tratta da Crona
Ci si aspettano pagine d’esordio e invece ecco affiorare una scrittura composta e pulita. Non sarà il genere a richiederla, quella scrittura, frutto di felici intuizioni espresse a quattro mani per mantenere costante il livello di attenzione del lettore? Forse. Ma è anche vero che il noir, se non è ben costruito e non è supportato da un solido impianto narrativo, ha una resa banale ed inefficace. E non è certo il caso di Chiaro di Lama, dove invece il risultato è quello sperato da ogni lettore amante del genere, inchiodato alla poltrona e disposto a farsi coinvolgere dalle vicende narrate in “scansioni” precise ed equilibrate, come precisi ed equilibrati sono i quattordici racconti che compongono il recente libro di Stefano Borghi e Gaia Conventi.
Convince soprattutto quell’approccio deciso con cui si entra immediatamente nel merito della trama; convince lo svolgimento dei fatti, sempre incalzante e venato talvolta di esasperato sarcasmo grazie al quale si percepiscono gli “umori” intellettuali e i tratti della formazione culturale dei due giovani autori. Giovani ma non esordienti, poiché hanno al loro attivo una precedente vicenda editoriale: lo scorso anno, sempre con le Edizioni EdiGiò di Pavia, hanno dato alle stampe Sulfureo. Racconti in giallo e nero, una prima raccolta noir che ha goduto di un buon riscontro di pubblico. Non possiamo omettere qui la connotazione filmica dei racconti compresi in Chiaro di Lama. Ognuno si caratterizza come short story su cui costruire visivamente un possibile fondale, uno spontaneo habitat scenico che influenza la lettura quando si ammette l’eventualità di una trasposizione cinematografica o teatrale della storia. Non che questo influenzi necessariamente la lettura, depistando verso lidi differenti lo schema abituale di chi scorre le pagine del libro; ma si prenda ad esempio il primo racconto intitolato Miami?, dove la protagonista resta vittima del suo stesso raggiro portato ai danni del marito. La parte conclusiva, terribile e non scontata, ha il piglio cinematografico di certi thriller di ultima generazione, giapponesi, coreani o riconducibili alla produzione del più acclamato Tarantino, dove la visualizzazione di quanto avviene gioca un ruolo essenziale quanto lo è la possibilità di dar corpo ad immagini poi risolte in icone riconosciute dalla nostra cultura figurativa. Che dire poi de La mia passione per Claudia e della stravagante idea dell’amore del suo protagonista antropofago? O della vecchia e mai in quiescenza signora con la falce nel racconto La foto sul giornale?
Di tutti i brevi racconti contenuti nel libro si consiglia la lettura, per avere uno sguardo d’insieme delle indiscusse potenzialità narrative di Borghi e Conventi, abilissimi nel caricare la loro scrittura di tensione e fatalismo, pathos e curiosità, mistero e ironia. È sul senso della loro ironia che vogliamo azzardare una conclusione, sperando possano i due autori riconoscersi con quanto si afferma qui. Il connubio tipicamente anglosassone tra humor e noir è recepito da Borghi e Conventi nella sua più autentica accezione, ben espressa attraverso la cinica (ma realistica) battuta di Mark Twain voluta in epigrafe: Inutile prendere sul serio la vita, tanto non se ne esce vivi. Tuttavia in questi racconti pare di avvertire un retrogusto nostrano, volutamente più vicino alle consuetudini di lettori che amano, sì, certe raffinatezze letterarie d’oltremanica, ma che non disdegnano pagine in cui si racconta di italiche nefandezze, con omicidi commessi per sbaglio e in preda ad una paura ingiustificata nei pressi di un parcheggio. Come ne L’imprevisto.