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Gran Circo Taddei e altre storie di Vigàta di Andr
Come recensisce tutti i libri di Camilleri pubblicati dalla casa editrice Sellerio, Salvatore Silvano Nigro, sono otto i racconti che qui fanno libro e non semplice raccolta. Non considerare raccolta queste storie, schegge impazzite dalla tastiera del pc di Camilleri, vuol dire che si procede in un continuum crono-logico narrativo e stilistico: un rutilante susseguirsi di situazioni che suscita il riso immediato e, metaforicamente, amarezza profonda. Se la metafora domina e orchestra personaggi e fatti, l’immarcescibile lingua vigàtese sbeffeggia e satireggia come un buffone a corte. Questi racconti sono forse i più corrosivi ed invidiabilmente amabili scherzi letterari che il Maestro fa agli incauti lettori, ormai pronti a subire qualsiasi sua arditezza artistica. Cesellati insieme, incastrando con arguzia le trame, certo che il romanzo potrebbe prendere corpo e incorporare le microstorie vigàtesi in una macrostoria italica. La Storia, quella Storia, che mai così contemporanea non è stata, si presenta ai nostri occhi non come mera narrazione di ciò che fu, ma trasfigurata in ciò che ne conseguì; le ideologie rappresentate attraverso i comportamenti, le psicosi degli uomini, asserviti al potere dominante e svuotati di personalità propria. Un’umanità quasi fittizia si aggira tra le ombre dell’epoca fascista e tutto viene investito da retorica baluginante e triste presagio di velleità mortificate. É l’espressionismo della violenza che deforma volti in maschere e risate crasse in ghigni. Vigàta, teatro sublimato del fascismo, è una sorta di palcoscenico ideale ed idealizzante in cui si esaltano miti e fandonie non mai sopiti. La galleria umana intride ignobiltà e millantata virilità, tra fimmine ardimentose, devote alla causa, camerati e federali e gerarchi orwelliani e garanti della fede al Capo e paventati comunisti che da congiurati, con un colpo d’ala, sono trasformati in perseguitati: pantomima e derisione. Che dire di scene alla Quentin Tarantino o che fanno il verso a certe pillicule di covviboisi; gli anni della Liberazione amiricana rivissuti e reinterpretati tra scocci di revorbari, giochi d’azzardo in bische clandestine, denaro in discesa libera e una rapina a regola d’arte con lupara d’ordinanza che lascia scornati i soci di un circolo. Il rischio e il pericolo di portare a conoscenza intrallazzi e tresche amorose viene da un aceddro, Il merlo parlante, che ripete le frasi compromettenti che sente. Il culto dell’italianità, espresso nella mania di italianizzare i nomi stranieri e di trasformare quelli italiani con le consonanti finali, è uno dei puntelli del Gran Circo Taddei. Trame tutto sommato semplici si complicano per scarti della sorte e come riporta Camilleri, la voglia del complicare le cose è tutta siciliana: “ Cito una bellissima frase che Moravia un giorno disse a Sciascia: "La differenza tra i milanesi e i siciliani è che i milanesi tendono a semplificare un fatto complicato. I siciliani operano all’inverso: un fatto semplicissimo tendono a complicarlo". E le complicazioni portano a sotterfugi e tradimenti”. Ironia a tinchitè, erotismo sommerso che fa capolino da tutte le parti alla maniera di Brancati, tragicomicità e surrealismo alla Pirandello, sono alcuni degli ingredienti naturali che fanno da terreno di coltura per l’arte camilleriana. Un altro tassello fascista, con la sua politica demografica di incrementare le nascite, si trova ne La fine della missione; chi non può avere figli trova la soluzione a dir poco boccaccesca con pace santa della chiesa e dei mariti. Come dire il fine giustifica i mezzi. Un giro di giostra è forse il più solipsistico delle storie e una dolente riflessione esistenziale. La bruttezza fisica del protagonista è una condanna che relega alla solitudine più triste, quando una luce pare illuminare quella vita spesa vacuamente, la fine lapidaria lascia schiantati. La trovatura è veramente una trovata geniale, soprattutto nella conclusione, chi cercava non trova e viene trovato da chi non cercava. Tutto torna secondo un caso capriccioso o forse giusto? La rivelazione è una novella di beffa architettata, il comunista arraggiato, Prestìa, riceve la grazia della rivelazione nell’apparizione di Gesù, tutta racchiusa in quella frase” facitilo…sapiri a tutti…sgerzo fu”. Ogni racconto contiene uno spezzone di Storia, ogni finale è esemplare e dà a ciascuno quello che ha meritato. C’è come una sorta di giustizia a seconda delle colpe, Camilleri, al pari di un novello Caronte, assegna ai personaggi la loro etterna collocazione. Aveva perfettamente ragione l’editrice Elvira Sellerio alla quale il libro è dedicato, dopo la lettura, ebbe a dire all’autore di essere tornato il Camilleri dei vecchi tempi.