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Della giustizia e delle pene
L'articolo 27 della Costituzione Italiana recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Allo stesso tempo, gli articoli 4bis e 41bis della legge sull'ordinamento penitenziario ammettono, in casi di straordinaria gravità, la possibilità di sospendere le normali procedure di detenzione e l'accesso ai benefici della pena connessi all'accertamento dell'effettiva pericolosità sociale del condannato. La contraddizione fra i due principi, quello della costituzione e quello relativo al 4bis e al 41bis, non è forse immediatamente evidente. In fondo, si potrebbe pensare che una sospensione una tantum dei diritti dei carcerati possa essere tollerata alla luce di un più pressante desiderio di "giustizia", specie se si ha a che fare con reati così estremi come quelli di stampo mafioso. Il pugno di ferro talvolta appare necessario e così è parso -e pare tutt'ora all'opinione pubblica- durante il periodo della strage di Capaci ai legislatori dello stato italiano. Non c'è bisogno di esprimersi sulla liceità di una simile applicazione della massima secondo la quale il fine talvolta giustifica i mezzi per affermare che, purtroppo, le cose stanno diversamente. Tali misure "straordinarie", infatti, non hanno mai avuto realmente il carattere temporaneo (tre anni) che il legislatore aveva previsto. Ovvero, il principio una tantum è oramai divenuto, a suon di proroghe, una prassi comune alla quale vengono esposte 1400 persone detenute nelle carceri italiane e soggette al regime di 41bis e/o al cosiddetto "ergastolo ostativo". Si tratta di misure che hanno poco a che vedere con la tanto declamata rieducazione del condannato e che rendono evidente come, per lo meno per quanto riguarda una parte dei detenuti, la funzione della pena nell'ordinamento italiano sia, di fatto, unicamente quella retributiva: dente per dente. Al di là della segregazione fisica e mentale alla quale il 41bis costringe i condannati -che già di per sé basterebbe- vi è poi un più triste aspetto che ci costringe a descrivere tale procedura come una vera e propria tortura: il 4bis e il 41bis vengono applicati a coloro che si rifiutano di essere collaboratori di giustizia. Questo significa che la ragione, se cosi si può chiamare, che guida tale prassi è: o ci dici quello che sai (o, come spesso accade, quello che non sai) e metti un altro in carcere al tuo posto, oppure rimani in carcere a vita senza possibilità di ottenere alcun tipo di permesso.
Urla a bassa voce raccoglie le testimonianze di una quarantina di detenuti condannati al regime di 41bis o all'ergastolo ostativo con lo scopo di dare voce a coloro che ne sono stati privati; e non solo in senso metaforico, dato che ad essi è sostanzialmente impedita la relazione con i famigliari e con altri detenuti. I contributi vengono direttamente dalla penna dei condannati e riportano le loro considerazioni riguardo molti temi: dalle situazioni più concrete come la vita nel penitenziario, il rapporto con i propri cari o le traversie da affrontare per ottenere un permesso, fino alle tematiche di carattere più astratto e riflessivo come la vendetta, il perdono, il significato della pena o, più in generale, della vita stessa. Nonostante le opinioni espresse siano a tratti ripetitive (e come potrebbe essere altrimenti dato che tutti gli autori sono accomunati dalla stessa oppressiva condizione?), la lettura risulta più che mai stimolante, soprattutto alla luce delle domande che sorgono inevitabilmente quando si affrontano simili argomenti e che hanno la capacità di mettere in discussione molte certezze.
Per quanto ci si possa considerare progressisti, infatti, il tema della carcerazione ostativa e del 41bis risulta sempre un po' scomodo perché si scontra con quello, ad esso connesso, della lotta alla mafia e della condanna di reati "terribili" verso i quali la legittima sete di giustizia spesso fa dimenticare l'umanità dei criminali. Del resto, è difficile scollarsi di dosso la tendenza a vedere nel condannato il colpevole invece dell'uomo, anche se quest'uomo ha trascorso più di vent'anni chiuso in una stanza. E’ proprio questa diffidenza continua ciò che logora i detenuti e che si esprime nell'impossibilità legislativa a prendere in considerazione l'effettivo processo di cambiamento che la loro coscienza ha subito. In effetti, il "fine pena mai" è la negazione esplicita ed assoluta di ogni possibilità di redenzione. E quindi, la domanda che più di tutte si impone alla nostra coscienza è questa: esiste un punto oltre il quale non si può più concedere la possibilità di dimostrare di non essere più la stessa persona che ha commesso un errore? Se poi si volesse rispondere in modo affermativo, vi sarebbe un altro e più scottante dilemma, relativo questa volta alle caratteristiche stesse della pena: se la redenzione è impossibile, perché non ucciderle queste persone? Può sembrare una domanda eccessivamente radicale, eppure la trasformazione dell'ergastolo in pena di morte è stata più volte chiesta dai detenuti al capo dello stato. In effetti, a ben vedere dove sta la differenza? Nel primo caso, infatti, si tratta sempre di essere condannati a morire, solo in modo più lento e straziante. E' così, dunque, che emerge tutta l'ipocrisia di una giustizia, la nostra, che si muove in opposizione ad un altro principio, ribadito sempre dallo stesso articolo 27 della Costituzione, secondo il quale “Non è ammessa la pena di morte”.
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Permettimi un'ultima riflessione proprio sul libro: mi sono documentato brevemente sul volume e sulla sua autrice (che mi pare essere una brava giornalista); nella presentazione del volume si dice che ha voluto dare voce a quei detenuti che non vogliono essere collaboratori di giustizia, ma si omette del tutto di dire - almeno nella presentazione, ti ripeto - se queste persone si sono almeno pentite del male fatto. Io credo, molto sinceramente, che detenuti fieri di aver compiuti gesti gravissimi possono chiedere il rispetto della loro dignità, ma non possono discutere della giustezza o meno di un sistema che li priva della propria libertà, anche isolandoli (ed è qualcosa che, in un certo senso, sosteneva Francesca).
Poi, lo ripeto, studi psicologici - e anche il semplice buon senso - dicono che la vessazione dello Stato sulle persone radica il loro convincimento di far bene a non accettare alcun tipo di socializzazione (fino ai reati più pesanti), ma una pena dura ma giustamente data e portata avanti, lascia spazio agli intenti rieducativi anche tra le mura di un carcere (e anche, prendi lo come il mio parere, se la pena è l'ergastolo): detenzione e rieducazione non sono termini incompatibili... altrimenti dovremmo dare i servizi sociali a tutti, qualunque sia il reato.
Ripeto: per me l'angolo visuale del libro è falsato dalla monotematicità.
Bando agli scherzi, concordo sul fatto che oltre, in questa discussione, non è bene andare.
Faccio solo notare,quanto al tuo punto 4, che la legislazione sul pentitismo è un modo (seppure giudiziale) di agire sulle strutture che determinano quei problemi... Probabilmente è addirittura il più efficace, come testimonia la faida scatenata dalle organizzazioni criminali contro le famiglie dei pentiti.
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Tornando al tema, sono d'accordo con Carlo quando dice che trattare duramente una persona non ha senso da un punto di vista rieducativo: le "maniere forti", sino alla tortura (usata in Italia ai tempi del terrorismo più di quanto sia stato fatto in tempo di mafia, giacchè la nostra "bassa" politica ha avuto molta più paura del primo fenomeno di quanta non ne abbia mai avuta del secondo), hanno senso per chi ritiene che l'informazione diventa più importante della persona. Questo è valso in Italia, in America, etc..
Non sono d'accordo, Carlo, sull'idea che le procedure formali vengano forzate per scelta: la forzatura può dipendere da incapacità degli inquirenti, o da loro desiderio di protagonismo (non è sostenibile che tutti i giudici siano ineccepibili, perchè la realtà dei fatti non dice questo) ma è vero che ai giudici è affidato il compito di gestire la delicata figura del detenuto collaboratore di giustizia, e molti l'hanno svolto con una capacità e un senso della funzione che ne fa delle figure fondamentali nei periodi emergenziali di questo paese.
Sai bene, Carlo, che l'allontanarsi della pena in Italia dalla sua funzione rieducativa non dipende dalla volontà di torturare le persone, ma da carenze strutturali che nessuno ha saputo (voluto?) risolvere. Nemmeno queste carenze possono essere risolte, nel nome del rispetto per la persona, con un "fuori tutti" (e pure qui abbiamo l'esempio degli indulti" come sconfitta dello Stato). CONTINUA