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Voci da una terra senza più terra
Che grande scrittore, Tahar Ben Jelloun!
Nel corso degli ultimi anni ho fortunatamente avuto occasione di leggere diversi suoi lavori (dai saggi a vari romanzi) e il breve “Jenin” spicca in modo particolare per il suo collocarsi, a mio parere, tra la poesia e la prosa; anche quest'ultima, in verità, ha molto di poetico.
Titolo evocativo e fortemente significativo, quello del volumetto in questione, che di colpo scaraventa il lettore nella martoriata Palestina, tra le macerie della storia e di un dramma senza fine. Alto e straziato, il grido di una donna ricoperta di polvere si leva tra quelle rovine, fino a farsi voce corale del campo profughi di Jenin, teatro di un efferato massacro, e di un popolo intero, nonché di una terra santa e dannata che ancora oggi si domanda quando potrà ritornare a essere semplicemente una terra d’ulivi.
Intanto, i suoi figli sono costretti a partire, a disperdersi in nuove infinite diaspore nei lontani quartieri dell’esilio, tra i profumi vagabondi di sesamo e timo, sorte comune a molti palestinesi; tra loro anche Mahmud Darwish, l’ormai compianto poeta della resistenza, la cui voce brilla tristemente in mezzo alle altre che in queste pagine piangono.
Una toccante prova dello scrittore marocchino, la cui intensità ritrovo in questi giorni tra le pagine de "La remontée des cendres" (in lingua francese) che sto leggendo al momento.
“[…] qui il diritto non esiste, è come un fiore: non ci sono più fiori nei nostri campi, non ci sono più giardini, più sorgenti. Hanno distrutto tutto. Il diritto? È il diritto del più forte. Il diritto abita in un tank, un carro, un bulldozer, un cannone puntato sui civili…”
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