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Calati juncu, ca passa la china
Frutto di una serie di interviste con il giudice Falcone, la giornalista Marcelle Padovani propone un testo lineare, privandolo delle inevitabili interruzione di domanda e risposta. Ne consegue un trattato esaustivo, interessante e di facile fruizione per ogni platea e, benché siano passati molti anni dagli incontri del 1991, resta un elaborato di estrema importanza di uno dei più grandi conoscitori e oppositori del fenomeno mafioso.
Nel volume si argomenta della violenza di Cosa Nostra, del sistema di scambio dei messaggi, dell’intrecciarsi di mafia e società siciliana, della struttura organizzativa, del profitto e della patologia del potere anche attraverso gli interrogatori di pentiti e indagati.
Ce ne parla un “servitore dello Stato in terra infidelium”: uomo lucido, intelligente, pignolo, estremamente preparato e ben consapevole dei rischi della sua professione. Un magistrato che aveva il suo incarico lo aveva scelto, che credeva nello Stato, che anelava ad uno Stato forte, a un’entità collettiva che avrebbe potuto difendere i suoi singoli membri, perché è facile uccidere un uomo solo ma è complesso estirpare un organismo collettivo.
“Chi rappresenta l’autorità dello Stato in territorio nemico, ha il dovere di essere invulnerabile. Almeno nei limiti della prevedibilità e della fattibilità.”
Sebbene ai tempi del maxiprocesso di Palermo fossi una bambina, ho un ricordo nitido della famiglia raccolta a tavola in silenzio, mentre il piccolo televisore in bianco e nero inquadrava l’aula bunker. Si era di fronte ad un evento colossale e, pur comprendendo poco dei contenuti, in casa la tensione era tangibile. Oggi, senziente, rileggendo questo flusso di pensieri e informazioni convergo nel rispettoso, ieratico stupore degli adulti di quei giorni, verso gli uomini di Legge onesti, impegnati, tenaci, efficaci. Che poi la vita la persero, davvero.
“In Sicilia la mafia uccide i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”.