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Impiccagioni senza perdono
Il problema della pena di morte è tutt’ora in grado di suscitare accese polemiche tra fautori e detrattori, in una panorama globale nel quale ancora metà della popolazione vive in paesi in cui il braccio della morte è in piena attività: USA, Cina, India, Corea del Nord, Iran e Giappone sono solo gli esempi più macroscopici. Charles Duff, acuminato giornalista irlandese, scrive questo “Manuale del boia” per la prima volta nel 1928, in anni davvero complicati, sospesi tra i due conflitti mondiali e alla ricerca di riforme del sistema della giustizia, sia civile sia militare. Il libro fu di enorme successo, tanto da essere ampliato e ristampato più volte e divenne la bandiera del movimento abolizionista per la pena di morte. Il fascino di questo testo è la prospettiva del tutto ribaltata e paradossale da cui muove. Duff infatti sembra difendere strenuamente l’impiccagione come giusto strumento per mantenere l’ordine dello stato, esalta i boia, si rammarica per la scarsa considerazione e paga di cui godono, depreca il drastico calo nel numero di esecuzioni che vengono effettuate, ma porta questi concetti talmente all’estremo da svuotarli di significato e in un sottile quanto ironico gioco di ribaltamenti ogni pagina falcidia le basi su cui poggia il movimento di sostegno alla forca. Col pretesto di sorvolare “certi spiacevoli incidenti”, Duff elenca tutta una serie di casi in cui l’arte del boia (perché impiccare è un’abilità “che gareggia con le sculture di Michelangelo”) ha fallito, rendendo le esecuzioni davvero crudeli: il più delle volte, infatti, l’impiccagione non esitava nello slogamento del collo e quindi nella morte istantanea, ma piuttosto in un lento e atroce soffocamento delle vittime. A questo si aggiungono gli episodi di soggetti che è stato necessario impiccare più volte perché stranamente resistenti, o tuti i casi di uomini giustiziati per crimini che in realtà non avevano commesso, o ancora l’elevato tasso di suicidi tra i boia, incapaci di sopportare il peso di tanta sofferenza arrecata. Il punto, lascia trasparire Duff, è semplice: se lo scopo della pena di morte è quella di essere un monito per limitare il numero di crimini, perché le esecuzioni vengono compiute in gran segreto, con poche persone, lontano dalla folla? Perché lo Stato si vergogna a tal punto, ma ufficialmente sostiene la pratica? Al fondo di questa ostinata ipocrisia, Duff utilizza tutto il proprio black humor per smontare pezzo dopo pezzo le ragioni della fazione avversaria e lascia passare in sordina alcuni aspetti a mio avviso sconvolgenti: nel 1948 in Inghilterra la pena di morte era ancora in vigore per incendi dolosi appiccati sulle navi mercantili, ma era stata abolita qualche anno prima per gli stupri su bambini di età inferiori ai 10 anni. Insomma, priorità di Stato. Alla fine di tutto, dunque, tra dettagli truculenti e grandiosi rovesciamenti, il lettore scopre, qualora non ne avesse ancora contezza, le terribili implicazioni delle condanne a morte, che non sono solo relegate al caso specifico delle impiccagioni, ma pure alla sedia elettrica americana o alle lapidazioni di certi stati islamici. E non penso sia sbagliato tornare a soffermarsi oggi sulle ragioni contrarie alla pena di morte, perché credo, anche se non ne ho le prove, che se si dovesse fare un referendum oggi forse a vincere sarebbero i sì.
Nel libro qualche difetto c’è: pur nella sua relativa brevità, finisce per essere ripetitivo e talora vagamente tedioso, ma il gioco sarcastico e corrosivo di Duff mantiene desta l’attenzione e genera un libro tanto serio nel contenuto, quanto elegante nella forma.
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