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Il mistero Giulio Andreotti
Nell’immaginario collettivo un’immagine è rimasta evidente nel processo Andreotti: quella dell’avvocatessa Bongiorno che grida: “Assolto! Assolto!”, al telefono. In realtà l’onorevole Andreotti non fu per nulla assolto, bensì fu sostanzialmente ritenuto colpevole di aver intrattenuto rapporti con la mafia. Purtroppo fu un reato prescritto con la formula:
“di non doversi procedere per estinzione del reato commesso.”.
Questa è la tesi cardine del libro scritto dall’ex Procuratore torinese Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte, magistrato suo collaboratore alla Procura di Palermo, intitolato La verità sul processo Andreotti, Laterza 2018.
In questo testo si parte da:
“uno stravolgimento della verità”,
ovvero
“una molto efficace attività di manipolazione della informazione, che ha portato buona parte degli italiani a credere, ancora oggi, che Giulio Andreotti sia stato totalmente felicemente assolto dalla accusa di mafia.”.
In una profonda analisi dibattimentale e dalla lettura della sentenza si testimonia come l’ex capo di governo,
“ha consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi.”
Ma chi era o è stato Giulio Andreotti? Uomo simbolo della Prima Repubblica, e di una certa Italia ormai remota, il sette volte Presidente del Consiglio non aveva mai fatto mistero, del resto, di essersi trovato alle prese con le pieghe delle più complicate della recente storia italiana. La sua presenza in qualità di testimone in altri processi per stragi, tentativi di colpi di Stato, associazioni para-segrete, servizi segreti deviati, e insomma nel noir italiano del primo mezzo secolo della Repubblica, confermava questa sua specifica competenza.
Tutto questo risale al 2003, ovvero quindici anni fa. Il processo e la sua diretta indagine erano iniziati ben dieci anni prima, nel 1993 dalla Procura di Palermo. Su tutto la ferma convinzione dei due autori, secondo cui l’Italia ha perso un’occasione, che ha tuttora un suo pesante riscontro. Anzi l’Italia ha sempre espresso chiaramente un sollievo per Andreotti. Un sollievo certamente mal riposto, mentre tutto quello che era insito nel processo, e in particolare le pericolose collusioni tra potere e criminalità, tra pubblica amministrazione e malaffare, è passato e sepolto dal velo incestuoso della ipocrisia. Il processo Andreotti è simbolo precipuo dell’intreccio tra Cosa Nostra e i rappresentanti delle istituzioni politiche a tutti i livelli, dimostrando la certa esistenza di un “poli-partito della mafia”, tutt’ora esistente che va a condizionare e a determinare molte decisioni della vita pubblica. Quello che è stato ritenuto provato anche dalla sentenza di primo grado aveva determinato l’assoluzione tout court dell’imputato sui rapporti di Andreotti con i cugini mafiosi Nino e Ignazio Salvo, l’onorevole Salvo Lima, il bancarottiere Michele Sindona e su altre vicende, indica fin dove può arrivare l’infiltrazione mafiosa nella politica e nella economia. Inquinamenti che fino alle stragi del ’92 sono rimasti sommersi e pressoché impuniti, dopo non più. Proprio grazie al processo Andreotti, rivendicano i due autori. Ma l’Italia si è dimostrata incapace di prendere ed assumersene consapevolezza, tentando, almeno, di mutare registro. Un Paese dalla “memoria corta”.
Il maggior pregio di questo libro è proprio nella dimostrazione perfetta del senso di ingiustizia allora perpretato in nome di un fantomatico senso di giustizia, che colpì i due autori di questo pamphlet. E sicuramente non sono bastati gli applausi dell’Italia antimafiosa per annullare la memoria dei prezzi pagati e soprattutto delle ferite morali.
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