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La vicenda umana e la “ragion di stato”
Scritto da Sciascia nei mesi immediatamente successivi al delitto Moro, L’affaire Moro è un lungo saggio che può essere letto come opera letteraria, come lo stesso autore auspicava. Egli infatti ricostruisce lo scenario del rapimento di Aldo Moro, ne descrive i giorni della prigionia, così come ha potuto desumere siano stati dalla lettura e dall’esame attento delle numerose lettere che il Presidente della DC aveva indirizzato a colleghi di partito, autorità dello stato, familiari. E’ l’uomo che sta a cuore a Sciascia, è il dramma umano che gli interessa porre in primo piano, il dramma di un leader che aveva avversato politicamente e di cui ora, per onestà intellettuale, sente l’esigenza di farsi interprete delle ore angosciose della prigionia. Ciò soprattutto nel tentativo di respingere il falso e ipocrita rigore del potere. Ed è infatti sulla pretesa duplice personalità di Aldo Moro che insiste l’autore, rivendicando all’uomo la libertà di esprimere il proprio pensiero e i propri sentimenti in quella singolare e atroce condizione di individuo privato della libertà e condannato a morte dalle Brigate Rosse. Respinge, Sciascia, la farisaica convinzione del partito di trovarsi di fronte a un uomo costretto con la forza a scrivere parole dure, in molti casi di condanna, per i colleghi di partito, respinge l’idea che la personalità del politico e quella del prigioniero non coincidano. Egli anzi afferma che colui che si era voluto definire un grande statista diviene grande solo nel momento in cui riesce a sopportare il supplizio della prigionia e della condanna, egli non è grande quando parla di stato e di ragion di stato, ma lo è quando identifica lo stato con la famiglia. “Lo Stato di cui si preoccupa, lo Stato che occupa i suoi pensieri fino all’ossessione, io credo, l’abbia adombrato nella parola famiglia.”
Il rifiuto da parte delle forze politiche a procedere a uno scambio di prigionieri sarà determinante per la condanna a morte di Moro. Il rigore non sarebbe mai stato applicato così scrupolosamente in passato, è l’accusa del Presidente DC.
Procede dunque Sciascia a un’analisi del testo di ogni singola lettera che sia giunta o pubblicata, un’analisi così approfondita utile a offrire spunti e indizi che possano portare al suo ritrovamento. L’esempio più significativo lo abbiamo nell’affermazione di Moro di trovarsi in un “ dominio pieno e incontrollato”. In queste parole si potrebbe leggere un suggerimento che aiuti a ritrovare il luogo della sua detenzione, un condominio, fino ad allora incontrollato dalla polizia. Sciascia dunque riconosce a Moro una dignità umana che supera di gran lunga le qualità del politico. Egli giunge ad affermare che l’uomo diviene veramente onorevole solo nel momento del massimo isolamento e della più grande solitudine. Ed è la pietà, quel sacro concetto di pietas, che suscita la figura sofferente del recluso ormai rassegnato alla morte. Non sono poche le pagine di critica che Sciascia dedica ai partiti, alla Democrazia Cristiana, al Partito Comunista e a tutto l’arco costituzionale, che aveva subito lo scomodo affronto del rapimento Moro. Con coraggio egli evidenzia tutto ciò che si sarebbe potuto fare e non fu fatto, spiegandone anche quelli che egli individuò come i motivi. Né tralascia alcune analisi di tipo sociologico, come quando esamina le affinità tra BR e mafia. Un libro assai interessante che illumina su molti aspetti oscuri di una delle vicende più tragiche e vergognose della nostra storia, pur non potendo ovviamente offrire interpretazioni assolutamente certe e definitive.
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