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GENTE DI MARE
La paranza è un vocabolo poco usuale, in uso specialmente nelle città costiere, ha a che fare infatti con la pesca, con le barche, è un termine da gente di mare.
Identifica un tipo particolare di barca che in genere prende il mare in coppia con un’imbarcazione analoga per attuare una precisa strategia di pesca, e quindi il termine identifica sia il mezzo che l’azione del pescare.
La paranza, la pesca con le paranze, si svolge nelle ore notturne, quelle in cui i pesci abbandonano i fondali e le tane, e viene facilitata dall’uso di grosse lampade che attirano il branco, ingannandolo, facendogli balenare un orizzonte e un habitat ideale, guidandolo invece nel centro delle reti per una più facile cattura.
A volte si indica con paranza anche il pescato, ma non la preda principale, e cioè i totani, i cefali, i branzini, e le spigole, o i piccoli tonni destinati a fare bella mostra di sé sui banchi dei mercati ittici, bensì i pesci piccoli e piccolissimi, per dimensioni e fase di crescita, i molluschi, i minuscoli crostacei ancora senza esoscheletro che rimangono impigliati sul fondo della rete, presi in trappola dal trascinio sui fondali.
Più spesso, fanno mercato a parte, rappresentano la parte più magra del bottino della giornata di lavoro, banale e insapore.
Cucinati uno per uno infatti non hanno neanche un gusto particolare; invece preparati in frittura tutti insieme creano una piccola prelibatezza, detta appunto “frittura di paranza”, a riprova una volta di più dell’antico detto “l’unione fa la forza”.
Tutto quanto appena detto è rimesso pari pari nella difficile realtà sociale dei quartieri più poveri e degradati di Napoli da Roberto Saviano, nel suo ultimo libro “La paranza dei bambini”. Un libro amaro, desolato e desolante, ben scritto, e che spiega direttamente, meglio di qualsiasi trattato sociopolitico, la malsana influenza, gli scempi e gli abusi della camorra a carico di certa difficile gioventù napoletana, già dall’infanzia e dall’adolescenza.
Saviano infatti dà alle stampe un romanzo che descrive l’ascesa e il decorso esistenziale, purtroppo a carattere esclusivamente malavitoso, di un gruppo di dieci ragazzini di Napoli, nati e cresciuti nei quartieri della città in cui è più endemica e radicata la camorra e la deviante mentalità mafiosa.
I dieci bambini, ognuno identificato da nomignoli curiosi, insoliti, talora divertenti, come Maraja, Lollipop, Dentino, Briatò, Pesce Moscio, Dragò, ecc., sono come i pesci piccoli sul fondo della rete, presi uno per uno in apparenza non contano granché, in realtà sono buoni, neanche loro sanno quanto di buono c’è in loro, basti pensare appunto che messi tutti insieme possono dar luogo ad una frittura prelibata, un condensato di innocenza, intelligenza, vitalità e civile consistenza.
Intervengono invece gli adulti di malaffare, che senza scrupoli di alcuna sorta, con l’inganno devastano l’innocenza del gruppo, stimolandone gli aspetti peggiori.
Il problema è tutto in una società malsana che li attira abbagliandoli con la luce del facile arricchimento, li intrappola nella rete del malaffare e della delinquenza comune sfruttando le carenze educative, motivazionali ed affettive di questi piccoli pesci.
Piccoli pesci poco più che bambini, preadolescenti fragili ed intensamente teneri, abilmente traviati da squali in veste di pescatori, pescecani che anche dai domiciliari, dalle carceri, dal duro regime del 41 bis riescono a mostrarsi ancora come guide, come esempi da imitare e a cui assomigliare sempre di più per criminale furbizia, sagacia, e sanguinosa crudeltà.
Costoro, i boss, i capi, i mammasantissima criminali, plagiano e militarizzano con le armi i ragazzini, dapprima dotandoli di autentici ferrivecchi a malapena funzionanti, e poi in una incredibile escalation criminali con i mitra e gli strumenti di morte più moderni e micidiali.
Per fornirsi così a scopo intimidatorio, di presenza e di controllo del territorio, di un mezzo impagabile di terrore di massa, la stesa, i raid con sparatorie che costringono malcapitati passanti indifferentemente colpevoli ed innocenti a stendersi per sfuggire ai proiettili vaganti.
In questo modo i boss possono impunemente continuare anche a distanza, anche dal carcere, a comandare sulle zone di influenza, intessendo i loro loschi traffici, sfruttando senza alcuna remora morale i ragazzini della paranza, armandoli, gestendoli, blandendoli, cosicché si costituisce un vero e proprio gruppo di fuoco dei ragazzini, facendo leva sulla loro innata ingenuità, assicurandogli potere, carisma e immunità, quasi fossero davvero boss loro pari. Sfruttando anche una pretesa onorabilità derivante da una ferrea consuetudine di lealtà e fedeltà ai boss, dimostrata dal continuo intercalare: “addà murì mammà”, che mia madre muoia se non dico la verità, se non sono fedele al gruppo di fuoco, sancendo tale vincolo con pittoreschi rituali di iniziazione al sistema criminale, antichi e affascinanti insieme, specie nella mente dei piccoli protagonisti.
I ragazzini aspirano perciò naturalmente e assai ingenuamente, come tutti a quell’età, a divenire anche essi pesci grossi, a impossessarsi in proprio della gestione dei traffici di droga, delle estorsioni, di tutte le attività illecite del quartiere, si sentono grandi, forti, potenti, pronti a scalare le gerarchie criminali.
Come i piccoli pesci sul fondo della rete sono attirati dalla luce delle paranze: luce che nel caso specifico è il richiamo abbagliante del denaro, e di tutto quanto esso può procurargli. Non capiscono, e neanche possono capire, che in realtà sono manovrati subdolamente, che il loro avvenire è compromesso da una luce effimera e transitoria, che li attira come falene, una luce intensa e malefica. Una luce velenosa rappresentata per esempio dalle Air Jordan e le altre scarpe da ginnastica delle migliori e più costose marche disponibili nei Foot Loacker, dai cellulari più lussuosi e tutti i gadget elettronici più cari ed esclusivi di ultima generazione, le play station, gli abiti firmati, le droghe, i motorini, tutto quanto di più effimero, costoso e materialistico l’odierna civiltà dei consumi offre a compensazione di un assoluto deserto di valori e sentimenti di altra valenza culturale, morale e civile.
E appunto come falene questa luce li incenerirà portandoli alla rovina.
Si badi, non esiste alibi sociale, Saviano non fa del facile moralismo, non si tratta, o almeno non si tratta solo di bambini nati e cresciuti in ambienti miseri, poveri, degradati: il degrado, la povertà, la delinquenza, soprattutto l’assenza delle istituzioni è certamente presente nei luoghi popolari di nascita e di crescita.
Tuttavia si tratta, più che di proletariato in senso stretto, dei figli della piccola e piccolissima borghesia, non a caso il giovanissimo capobanda, detto il Maraja, ha per onesti genitori un umile ma dignitoso professore di educazione fisica in una scuola media, mentre la madre si industria con una piccola stireria.
Ciò che attrare i giovanissimi non è la fuga dal bisogno, come poteva essere una volta, ma l’immersione nel lusso più sfrenato, da loro confuso e identificato con la piena felicità, con la completa realizzazione di sé stessi. A niente altro aspirano che ad essere boss del sistema camorristico, ricchi, temuti, rispettati. Anche se per poco, anche se a prezzo di una vita breve, troppo breve, o da trascorrere per la maggior parte al duro regime carcerario previsto per gli associati a organizzazione mafiose.
Per capirci meglio, alla classica domanda di un professore alle scuole medie di cosa i ragazzi vorrebbero fare da “grandi”, se il meccanico, l’idraulico, o continuare a studiare ancora per intraprendere una professione, uno dei ragazzi risponde con disarmante e agghiacciante semplicità insieme: Flavio Briatore.
Non richiama l’esempio del sagace l’imprenditore, ma dell’uomo immerso nel lusso inverosimile più sfrenato e pacchiano; e per questo il piccolo sarà in seguito chiamato Briatò.
Sono bambini, niente altro che bambini di un’infanzia troppo spesso abbandonata a sé stessa, troppo piccoli per capire che altro dovrebbe essere la loro esistenza, altra cosa è il vivere sereni, e quello che è peggio è che sono lasciati a sé stessi, nessuno glielo insegna, nessuno ha tempo, modo e arte per seguirli, le famiglie meno che mai, e del tutto assente sul territorio sono i presidi a essa sostituiva.
Possono capirlo, forse, solo se colpiti direttamente in prima persona, solo se veramente feriti crudelmente a sangue nei loro affetti più cari. Solo allora potrebbero capire che le armi da fuoco non sono balocchi, che la stesa non è un gioco, che l’amore e la morte non sono solo parole. Potrebbero capirlo, certo, allora e a caro prezzo. Un prezzo spropositato, ma almeno questa esperienza di sangue e dolore negli affetti più cari conserverebbe comunque un aspetto salvifico. Se però interviene sciaguratamente un improvviso e imprevedibile capovolgimento di ruoli, se prevalgono a forza ataviche tradizioni di vendetta, di sangue chiama sangue, di leggi del taglione, il destino di questi bambini è segnato, resteranno sempre e soltanto un gruppo di fuoco della malavita organizzata, destinato a soccombere nel sangue, prima o poi, ad un’altra paranza emergente.
E tutto questo è inevitabile, Saviano ne è consapevole e testimone, con dolorosa amarezza.