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Donne svelate
Pubblicare un libro dedicato alla poesia è sempre un atto di grande coraggio. Ancor più grande se a prendere tale iniziativa è un piccolo editore. Complimenti, pertanto, a Fusibilia, attiva casa editrice e associazione culturale della provincia di Viterbo, la quale, seppur in un contesto editoriale sconfortante e ormai dominato da monopoli spesso votati più alla quantità che alla qualità, ha pubblicato un’opera originale e senza eguali qui in Italia.
Il personaggio di Wallada, principessa arabo-andalusa dalle lontane radici damascene, non è tra i più noti e la sua storia, autentica e piacevole sorpresa, ci trasporta d’un tratto nella Spagna califfale di mille anni fa. Un viaggio affascinante, alla scoperta di un mondo per noi in buona parte ancora sconosciuto; una vicenda dispersa e nascosta tra le ombrose pieghe di quella grande Storia in cui, inevitabilmente, si smarriscono le piccole storie degli uomini. Figurarsi poi quelle delle donne, tanto nell’ambito della cultura cristiana, islamica o pagana!
Ma quella di Wallada, figlia del califfo ommayyade di Cordova al-Mustakfi, vissuta per circa novant’anni sin quasi alla fine dell’XI secolo, non è una storia di poco conto: “poeta della spiritualità della carne e cantatrice della corporeità dello spirito”, come la definisce Antonio Veneziani nel suo suggestivo saggio che chiude questo libro, Wallada è giunta a noi attraverso una manciata di versi, frammenti preziosi di una produzione letteraria ben più vasta e, all’epoca, molto celebrata. Sullo sfondo di crisi e lotte politiche che porteranno il Califfato di Cordova alla disgregazione in tanti staterelli locali, la nostra poetessa conduceva una vita secondo alcuni scandalosa, secondo altri tutto sommato virtuosa; senza dubbio, libera e indipendente da qualsiasi “tutela” maschile, nonché votata alla cultura. Il suo salotto letterario apriva le porte ad artisti, letterati, intellettuali, probabile non mancassero nemmeno i teologi, divenendo presto un punto di riferimento importante – non è difficile intuire – per tutta la regione; lei stessa vi accoglieva pure ragazze di umili e umilissime origini che provvedeva a sfamare e istruire e con alcune delle quali, stando al dibattito sempre aperto sul tema, avrebbe intrattenuto rapporti di dubbia natura. I suoi amori ufficiali, quelli eterosessuali, sono stati intensi e appassionati e ciò che sopravvive delle sue poesie lo testimonia in modo diretto. E talvolta dal suo calamo deluso e furente sgorgarono versi talmente invettivi da far cadere in disgrazia il malcapitato ex amante. Definita la Saffo andalusa, a differenza della poetessa di Lesbo Wallada non si sposò mai né risulta, a dispetto del suo nome (in lingua araba, “prolifica, feconda”, da una radice che rimanda al generare e al nascere), che avesse avuto figli, lasciando che a partorire fosse sempre e solo il proprio intelletto. Incurante del suo rango, se ne andava in giro senza indossare il velo e sulle vesti faceva ricamare i suoi versi. Era araba e musulmana per natali, ma rivendicava comunque la propria individualità femminile, perfettamente in grado di pensare, scegliere, decidere in autonomia, se così scriveva:
“Sono stata creata da Dio per la sua gloria,
ma cammino orgogliosa per la mia strada.”
Da tutto ciò, piccoli tasselli di un mosaico ricostruito con pazienza per quanto ci consente il macero del tempo, emerge il ritratto di una donna straordinariamente moderna, una femminista ante litteram, come sottolinea Claudio Marrucci, curatore del volume e traduttore dallo spagnolo dei testi (sia di Wallada sia di altre poetesse arabo/berbero-andaluse a lei contemporanee) inseriti in questa raccolta. Ecco riemergere, dunque, nomi finora ignoti di donne istruite, colte, raffinatamente talentuose al punto da trovare posto con i propri scritti, al pari dei poeti uomini, all’interno di prestigiose raccolte antologiche dell’epoca. E con le varie Muhya, Hafsa, Nazhum e le altre finalmente svelate al grande pubblico riemerge anche un angolo della vasta “dar al-Islam” (letteralmente, “dimora dell’Islam”) trapiantato in Europa, dove vivevano non soltanto musulmani, ma pure ebrei, cristiani e forse addirittura laici all’eccesso; dove, con l’Islam predominante, tolleranza e rispetto nei confronti di etnie e religioni in minoranza erano la norma; dove l’omosessualità maschile e femminile, seppur non legalizzata, era tutt’altro che un mormorio sommesso, dal momento che certe poetesse la mettevano in versi e più di un sovrano disponeva di harem affollati di uomini prestanti; dove arte e letteratura erano di altissimo livello e prosperarono a lungo; dove le donne scrivevano, filosofeggiavano e ricoprivano ruoli attivi nella società, senza che la cosa disturbasse o destasse scandalo bigotto. Tale era lo splendore andaluso fino all’arrivo prima dell’integralismo delle dinastie berbere del Maghreb e poi della cattolicissima Reconquista, sotto i cui colpi nel 1492 Granada esalò l’ultimo suo respiro. Un bellissimo capitolo in termini di civiltà, quello rappresentato da al-Andalus, della storia islamica e di quella europea nel contempo, sebbene troppo spesso si tenda a perderne memoria tanto su questa che sull’altra sponda del Mediterraneo.
Si auspica che questa brillante pubblicazione possa essere d’incentivo e un punto di partenza per intraprendere nuovi e approfonditi studi su quel mondo ormai lontano e i suoi protagonisti, Wallada bint al-Mustakfi in testa; soprattutto in un momento in cui la barbarie dilaga a suon di bombe e raffiche di kalashnikov, così tra le strade di Parigi come tra quelle del Cairo, Tunisi o Aleppo e, in un clima di avvelenamento generale, sembra essere più facile (e comodo) trovare sempre ciò che divide invece di ciò che unisce. Un momento, infine, nel quale abbiamo tutti bisogno della pura, impalpabile, misteriosa bellezza della poesia che, riprendendo ancora una volta le parole di Antonio Veneziani, appare come “un sentiero scosceso sullo splendore dello strapiombo che conduce al cielo, a quel poco cielo che ancora rimane”.
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